cultura.inabruzzo.it, 21 gennaio 2009
La vicenda dell’“offerta indecente” per l’attaccante del Milan Kakà – 105 milioni di euro per la società; 15 milioni di euro netti all’anno per 5 anni più un “bonus” di 10 milioni di euro per il giocatore, cifre da raddoppiare al lordo delle imposte – è soltanto l’ultimo episodio, anche se il più eclatante, di una anomalia non più tollerabile.
Il suo finale strappalacrime, con la rinuncia di giocatore e società alla marea di petrodollari (petroeuro nella circostanza), già trasformato in favola edificante, non deve nasconderne i lati inquietanti.
E sorprende come un’organizzazione come quella calcistica nazionale e internazionale – che non solo impegna capitali molto ingenti ma alimenta la passione di sterminate masse di appassionati – abbia al suo interno una contraddizione così stridente.
Perché le offerte indecenti – al di là dell’offesa che arrecano a valori e principi sacrosanti per cui dovrebbero porre una vera e propria “questione morale” e suscitare la ribellione in primo luogo dei veri sportivi – contraddicono la radice stessa del “gioco più bello del mondo”, l’essenza della competizione ad armi pari.
Quella citata si potrebbe definire un’offerta “disneyana”, perché fa scendere in campo i “paperoni”, al di fuori di ogni logica economica e soprattutto di ogni spirito sportivo, ma non vogliamo offendere l’indimenticato personaggio dei famosi cartoons.
Anche perché non si tratta soltanto dello sceicco di Abu Dhabi, il cui staterello naviga, sì, su un mare di petrolio, ma con le “coste” straripanti di masse disperate, i cui leader le aizzano contro l’eroica nazione israeliana edificata dal lavoro e dai sacrifici dei reduci dalla Shoah, senza rivendicare con altrettanta veemenza la redistribuzione delle risorse petrolifere che questi “paperoni” dilapidano. Sarà la tutela americana, saranno forme autarchiche di garanzia e di copertura comprate con i petrodollari a consentirlo, ne viene una minaccia ai valori dello sport e anche della morale.
Ma non sono solo questi i “paperoni”, anzi sono gli ultimi arrivati. Ci sono stati prima gli oligarchi russi, ai quali Eltzin ha regalato, in una privatizzazione da operetta, fette dei giganti petroliferi dell’impero sovietico al momento della sua dissoluzione; anche loro hanno setacciato il mondo calcistico requisendo con disponibilità finanziarie illimitate i migliori giocatori concentrandoli nelle squadre prescelte come il sultano sceglieva la concubina preferita.
Gli uni e gli altri operano nella democratica Inghilterra, la terra puritana dell’Esercito della salvezza. Per le suffragette di quest’organizzazione sarebbe l’occasione di una crociata ben più giustificata delle campagne moralizzatrici da quattro soldi (è il caso di dirlo).
Anche l’Italia non scherza. I “paperoni” nostrani lucrano spesso su rendite di posizione protette dalla concorrenza operando – se vogliamo restare nella “capitale morale” dove vi sono gli esempi più eclatanti – vuoi nel monopolio di fatto della televisione commerciale vuoi in comparti petroliferi che accordi vantaggiosi isolano dalla competizione internazionale.
La loro maggiore dignità, se così si può dire, è che le offerte indecenti, peraltro più moderate di quella ricordata all’inizio, le fanno per la squadra del cuore, all’insegna di una tradizione, e di una passione sportiva, che li riscatta solo in parte nelle motivazioni, ma non negli effetti perversi. Solo in parte, perché così si distruggono le basi stesse della competizione: una doverosa, accettabile parità sostanziale delle posizioni di partenza che è il cuore dello sport.
E’ vero che ogni campionato inizia con le squadre allineate ai nastri a zero punti, poi vinca il migliore: tre punti la vittoria, un punto il pareggio e zero punti la sconfitta, e questo è uguale per tutte le squadre, metropolitane e provinciali, come uguali per tutti sono le regole del gioco e così è, o dovrebbe essere, per l’arbitraggio.
Ma l’uguaglianza finisce qui, ed è tutta apparente. Alla disparità abissale dei bacini di utenza che dava già vantaggi consistenti alle squadre metropolitane, con i grandi stadi e i cospicui incassi, si è aggiunta quella del merchandising, delle sponsorizzazioni sulle maglie, e soprattutto dei diritti televisivi da nababbi la cui iniquità patente solo recentemente è stata attenuata, e per un non imminente futuro.
A tutto questo si sono aggiunti i nostri “paperoni”, che come azionisti di riferimento immettono cospicue iniezioni di capitali nei bilanci delle società privilegiate per rastrellare i campioni e campioncini appena emergono dai vivai o dagli acquisti indovinati delle squadre provinciali. E’ una vera e propria razzia che si riproduce non solo nel mercato calcistico di inizio campionato ma nella tradizionale riapertura a metà campionato, altra distorsione antisportiva.
Mentre per un simulacro di parità, pur se molto parziale dati i fattori appena accennati, tali interventi di capitali esterni al bilancio societario in senso stretto dovrebbero essere assolutamente proibiti.
Soltanto dai bilanci societari dell’annata calcistica senza apporti privilegiati di nessuna natura, ovviamente neppure di azionisti “paperoni”, dovrebbero essere tratte le risorse per gli acquisti dei calciatori, e già le grandi squadre sarebbero avvantaggiate per quanto già detto.
Le inibizioni alla campagna acquisti operano nel caso di bilanci in rosso, ma solo se la società non ha un sultano “paperone” che l’ha scelta come favorita ed è lasciata a se stessa, come sarebbe doveroso per tutte.
Il calcio dovrebbe imparare dalla “formula uno” automobilistica, il che è tutto dire non essendo certo un modello di virtù e di continenza. Ma cerca di preservare l’interesse della competizione in tutti i modi, anche con meccanismi coercitivi e inibitori come i limiti all’uso dell’elettronica e di altri ritrovati quando un team se ne avvantaggia, gli pneumatici unificati per non dare vantaggi a chi “indovina” le mescole giuste, addirittura la proposta per ora rientrata del motore unico; e anche con i frequenti mutamenti delle regole per le qualificazioni, con i giri secchi o multipli, i serbatoi delle prove sigillati per la gara, l’impiego dello stesso motore in gare successive ed altro ancora.
Perché il calcio non cerca anch’esso di preservare lealtà e interesse delle competizioni evitando che si accrescano in modo iniquo e patologico le disparità per effetto dei meccanismi perversi che sono sotto gli occhi di tutti? e non si tratta solo della “sudditanza psicologica” arbitrale o di “calciopoli”, sono ben più profonde e radicate le intollerabili distorsioni sopra accennate.
La ragione di questa inerzia autolesionistica può trovarsi nel fatto che finora la passione dei tifosi ha dato l’illusione che tutto potesse perpetuarsi immutato, come avviene per i regimi nei quali alle stridenti ingiustizie che gridano vendetta agli occhi di Dio non si pone rimedio in quanto accrescono il potere dei dominanti privilegiati e comunque non portano al “redde rationem”.
Ma qualche segnale forte sta emergendo. E non si tratta della conclusione “patriottica” della vicenda dato che l’offerta indecente del “paperone” d’oltre confine è stata respinta dal “paperone” nostrano (e, va detto a suo merito, anche dal calciatore senza chiedere contropartite); anche perché l’encomiabile quanto inedita affermazione del primo momento, secondo cui i bilanci societari debbono reggersi da soli senza ricapitalizzazioni di comodo di azionisti opulenti, è stata presto dimenticata.
Il segnale forte è un fenomeno dinanzi agli occhi di tutti: gli stadi vuoti. E come le urne vuote – è recente l’assenza di metà degli elettori nelle elezioni regionali abruzzesi – sono un acuto segnale d’allarme per la “casta” dei politici al quale non possono restare indifferenti, così dinanzi agli stadi vuoti anche i “paperoni” ancora intenti a distorcere con i loro facili denari ogni lealtà e correttezza sportiva, dovranno cominciare a riflettere. Confortano anche le eccezioni costituite da squadre provinciali che pur nell’esemplare rigore amministrativo ottengono risultati sportivi eccellenti e rompono così lo strapotere antisportivo delle grandi.
E’ la rivincita dello sport autentico da incoraggiare introducendo regole ferree che impediscano i patti leonini delle ricapitalizzazioni di comodo del “paperone” di turno e rendano la competizione più leale, paritaria e quindi più avvincente. La “formula uno”, pur nel suo esibizionismo, ci dà l’esempio.