di Romano Maria Levante
Da Giovanni Bellini a Picasso in un “itinerario” tra il Quirinale e il Vittoriano.
Capita spesso di passare dall’uno all’altro dei palazzi romani più rappresentativi, ma non è frequente trovarvi in mostra espressioni artistiche coeve agli edifici che le ospitano. E’ accaduto di recente passando dal Quirinale, anzi dalle sue Scuderie, con la mostra di Giovanni Bellini che si è conclusa, al Vittoriano, presso l’Altare della Patria con la mostra di un Picasso molto speciale aperta fino all’8 febbraio 2009; artista, quest’ultimo, al quale pochi giorni fa “Repubblica” ha dedicato una pagina dal titolo “’Picasso le nuit’. Parigi insonne per una mostra”. Il salto nel tempo è notevole, dal Cinquecento al Novecento, e lo è anche quello nel mondo dell’arte: dalle immagini sacre del pittore detto il “Giambellino”, che Roberto Longhi ha definito “un genio creatore sublime”, alla pittura rivoluzionaria di Picasso, “l’Arlecchino dell’arte”, come lo definisce la mostra. Facciamo questo viaggio nella macchina del tempo per registrare le emozioni che suscita un simile accostamento di epoche e di stili attraverso l’arte di due grandissimi pittori.
Il Sacro
Cominciamo con Bellini. Il critico d’arte parla del rinnovamento nelle forme espressive e nei contenuti di cui fu artefice, di una pittura che crea uno stile compiutamente “italiano” coniugando il primo rinascimento fiorentino e l’esperienza lombarda con la luce, il realismo, i particolari dell’arte veneziana, in una unificazione del linguaggio pittorico antesignana dell’idioma parlato.
Il tutto rappresentando con grande intensità la forza dei sentimenti e la natura.
Il vostro cronista d’arte si immerge nelle sue sacre rappresentazioni cercando di verificare dal vivo se l’impatto visivo ed emotivo è quello ora descritto.
Si deve dire subito che l’artista riesce a far sentire il contenuto più profondo del nostro credo religioso, la discesa della Divinità sulla terra, la sua presenza tra gli uomini, nella natura.
Ecco che le immagini sacre hanno una collocazione terrena ben precisa, a differenza di molte astrazioni classiche che, ad eccezione di Giotto, le ponevano in una sorta di empireo indefinito. Innanzitutto dalle Madonne e dai Crocifissi di Bellini traspare un’intensa umanità, per le espressioni dei volti, la positura delle figure: struggente è il viso della Madonna i cui occhi non guardano il Bambino raffigurato in una sorta di maturità pensosa, quasi per il presagio della tragedia della Passione; un incrocio di sentimenti che umanizza il sacro.
E poi l’umanità diventa dominante per l’inserimento delle immagini nel vivo della natura, uno spettacolo di colori, di paesaggi, di raffigurazioni; una natura che è vera, reale; la ricca vegetazione e le tante specie d’erba sono riconoscibili come lo sono i borghi medioevali che fanno da sfondo alla scena. Sempre Longhi, che lo ha definito “uno dei grandi poeti d’Italia”, parla di “accordo pieno e profondo tra l’uomo, le orme dell’uomo fattosi storia e il manto della natura”, dove spiccano “le chiostre dei monti e le absidi antiche, le grotte di pastori e le terrazze cittadine, le chiese color tortora del patriarcato e il chiuso delle greggi, le rocche medievali e le rocce friabili degli Euganei”.
Queste raffigurazioni di paesaggi di autentica marca italica coinvolgono emotivamente quando ci si trova dinanzi alla “Pala di Pesaro” con l’Incoronazione della Vergine e alle diverse immagini di“Madonna con bambino”, alla “Trasfigurazione” e alla “Pietà”, al “Battesimo di Cristo” e al “Crocifisso con cimitero ebraico”, alle “Crocifissioni” e alle “Resurrezioni”.
La natura, dunque, è protagonista del Sacro accanto ai sentimenti, quasi che l’artista abbia voluto trasferire l’idea del Presepio, corale partecipazione terrena all’evento miracoloso, in ogni scena; del resto incarnazione e redenzione sono l’autentico sigillo del Cristianesimo che lo distingue da tutte le altre fedi.
Le sole eccezioni restano le rarissime opere sui fondi scuri, un nero profondo su cui si stagliano le figure umane per dare più forza ai primi piani: il “Cristo morto con quattro angeli”, il “Compianto sul Cristo morto” e soprattutto la “Presentazione al Tempio”, una sorta di “Quarto stato” sacro con le figure color pastello schierate in modo composto quasi a voler marcare una presenza costante e non effimera, superiore eppure familiare.
E anche il “Padre Eterno” – Dio che raramente troviamo raffigurato nell’arte dove abbondano invece Cristo, la Madonna e il Bambino – Bellini lo rende familiare nelle due raffigurazioni con le braccia aperte come le aprono i fedeli e il sacerdote nella recita del Padre Nostro durante la Messa.
La lunga fila – cinquecento persone in paziente attesa per entrare nella mostra – testimonia la percezione che di questo ha la gente, hanno tanti giovani. Non è solo la riaffermazione del valore del Sacro, così significativa oggi dinanzi alla sfida dei “bus atei” con i messaggi “Dio non esiste… non ne hai bisogno”,“Dio non esiste…goditi la vita”; è anche e soprattutto il trionfo dell’Arte.
Il Profano
Il breve tragitto dal Quirinale al Vittoriano fa decantare le immagini sacre di Bellini esposte alle Scuderie, intrise di sentimenti e immerse nella natura, e apre gli occhi e la mente all’impatto modernista di Picasso.
Fori e Mercati traianei, con la Colonna Traiana, sono lì a farci dimenticare le Madonne e i Crocifissi. Ma c’è una particolarità di Bellini che ci portiamo dietro, la sua continua evoluzione: da bizantino e gotico seguì le tracce di Mantegna, poi di Piero della Francesca e di Antonello da Messina, quindi del Giorgione, restando però sempre se stesso con la sua straordinaria intensità espressiva.
Ci tornerà in mente ripercorrendo l’arte di Picasso nel periodo che va dal 1917 al 1937, a cavallo di una molteplicità di stili, anche da lui creati, ai quali ha impresso la propria impronta. Ma il suo percorso non è segnato dall’abbandono degli stili precedenti bensì dalla loro compresenza come segno della totale padronanza dell’arte pittorica al punto di voler marcare la perenne validità di ogni forma espressiva. In arte, diceva, non vi è progresso né evoluzione, l’esempio del passato è efficace quanto la modernità, e può essere ripreso senza per forza divenire accademia.
In questo Picasso è “L’Arlecchino dell’arte”, e non solo perché si identificava in lui e aveva il vezzo di riprodurlo in tanti modi (“seduto”, “musicista” “con donna e collana”, “su tavolozza”, e in molti “ritratti”); le pezze variopinte dell’abito della marionetta non sono le frammentazioni dei piani e dei volumi nelle opere cubiste, o le figurazioni espressioniste, surrealiste, astratte ed anche neo-classiche, bensì la compresenza senza imbarazzi di queste forme artistiche apparentemente antitetiche. In questo modo può offrire lo stesso soggetto in stili diversi presentandoci, pirandellianamente, tanti artisti in uno solo.
La mostra ne fa il proprio sigillo sin dalla prima sala affiancando due ritratti, accomunati dall’identica dimensione ma di stili opposti, tra i quali sembrano intercorrere decenni, mentre sono stati dipinti a distanza di pochi mesi: sono del 1917 la cubista coloratissima “L’italiana” del maggio seguita in autunno dal figurativo neo-classicista “Arlecchino” dalle tenui tinte pastello; al primo stile appartengono anche “Mandolino musicista” e “Mandolino e chitarra” del 1924, “Due donne di fronte a una finestra” del 1927 e “Pittore e modella” del 1928, “Grande nudo in poltrona rossa” del 1929; al secondo stile “Donna che legge” del 1920 e “Studi” del 1920-22, “La corsa” del 1922 e “Uomo con la pipa” del 1923, e infine le cento incisioni della “Suite Vollard” del 1930-33.
Si resta frastornati non tanto dall’eterogeneità delle forme pittoriche giustapposte nella mostra, quanto dalla loro contemporaneità. In questo Roma è stato un passaggio importante, e con essa Napoli (su una sua cartolina “ad Olga” del 21 aprile 1917 si legge “ti scrivo dal ristorante dove abbiamo pranzato con i… russi, cantiamo canzoni napoletane e siamo molto felici”) e Pompei (dove fu molto colpito dalle pitture parietali).
Sui due mesi del 1917 trascorsi nella città eterna – dove conosce la futura moglie Olga Khokhlova, una stella dei Balletti russi per i quali lavorò – ci si sofferma con una ricca esposizione non solo pittorica ma anche documentaria che fa capire più di ogni illustrazione critica quel mondo e quel sentire.
La vivace comunanza di vita con Jean Cocteau, Igor Stravinsky, Guillaume Apollinaire, fa capire come fossero profonde le motivazioni interiori e gli stimoli culturali nel progredire della sua arte. Le vestigia della romanità gli fanno sentire la vitalità persistente dell’arte del passato, lo convincono che le forme artistiche non sono mai estinte né superate, ma devono sopravvivere, essere riproposte.
Così, quando al neo-classicismo e al cubismo succedono l’espressionismo, il surrealismo e, più oltre, forme di astrattismo, in lui non sostituiscono gli altri stili ma si affiancano ad essi, come provano le citate cento incisioni neo-classiche della “Suite Vollard” dei primi anni ’30, nelle cui forme si possono intravedere addirittura tratti michelangioleschi. E non fu una scelta indolore, dovette subire accuse di “tradimento” del cubismo.
Passando ai ritratti, colpiscono i visi di donna dipinti nel 1937, alcuni sereni e composti, altri disperati, come le due “Donna che piange” e le due “Donna che piange con fazzoletto”. Tutti hanno la tipica forma cubista con gli occhi, il naso, la bocca decentrati, l’opposto del figurativo, anch’esso picassiano, presente nelle stesse sale; ma qui le figure non proiettano sulla tela soltanto il movimento, bensì la quiete nelle prime e soprattutto la sofferenza, resa atroce dalla deformazione, nelle seconde.
Dinanzi a queste immagini ripensiamo a una notazione che ci ha colpito, l’ammirazione di Picasso per i volti di Raffaello; e ci piace pensare che i visi asimmetrici, per usare un eufemismo, hanno come matrice rivissuta dalla sua arte quegli ovali perfetti, quelle ogive geometriche che sono astrazione massima e insieme rappresentazione vera della femminilità nella sua intrinseca armonia.
I visitatori si muovono nelle sale spostandosi da una parte all’altra per confrontare le figure, tornando sui propri passi e commentando la compresenza nel tempo dei diversi stili. E’ un’eccitazione partecipativa ben diversa dall’assorta contemplazione in un silenzio religioso (è il caso di dirlo) che avevamo riscontrato nella mostra su Bellini.
Condividiamo con un vicino le espressioni di ammirazione di Picasso per Raffaello: “Quale che sia il piacere che posso provare dal seguire le linee tormentate di Michelangelo, mi lascio guidare con serenità da quelle di Raffaello, pulite, pulite, sicure come in pieno cielo, come se non ci fossero ostacoli per loro. Non è Leonardo da Vinci che ha inventato l’aviazione ma Raffaello”. Il vicino ricambia ricordandoci le ben note parole dell’artista: “Quando ero un bambino disegnavo come Michelangelo, ho impiegato tutta una vita a liberarmi per imparare a disegnare come un bambino”. Intorno osservazioni e commenti, stupori ed emozioni.
Ma la mostra tematica copre il periodo tra le due guerre, caratterizzato dalla presenza violenta di una realtà politica sempre più minacciosa che precipita nello scontro bellico, e ne dà conto con opere che esprimono sofferenza. Di qui, dopo un ritorno al ritratto in cui Picasso passa da uno stile all’altro, l’evocazione dei drammi in atto e all’orizzonte, con le tragedie della guerra civile spagnola e le sciagure incombenti dell’hitlerismo e dello stalinismo.
I lavori e i quadri preparatori del capolavoro Guernica – come i tormentati “Testa di toro”, “Testa di cavallo” e “Il Minotauro” che ne anticipano la forte efficacia espressiva – ne sono la prova.
Sono eloquenti, per l’evoluzione e insieme la persistenza della forma artistica, i tre taccuini (del 1922, 1927, 1934) “sfogliati” dalla tecnologia per il visitatore, ognuno dei quali marca uno stile, dal figurativo più ortodosso al cubista estremo con una forma intermedia che, però, non lo è nel tempo.
Altra prova questa del rifiuto di ogni superamento stilistico per riaffermare l’universalità dell’arte intesa come compresenza di stili e anche di ingredienti, di contenuti.
“L’artista – diceva Picasso – è un ricettacolo di emozioni venute da ogni parte: dal cielo, dalla terra, da un pezzo di carta, da una figura che passa, da una tela di ragno. Perciò l’artista non deve distinguere fra le cose. Per esse non esistono quarti di nobiltà”. La nobiltà, ci permettiamo di concludere, è nell’artista.