di Romano Maria Levante
Abbiamo di recente cominciato a esplorare la contraffazione, considerando le operazioni clandestine di alterazione e imitazione fraudolente compiute da un sottobosco di oscuri trafficanti; fenomeno dalle dimensioni allarmanti a livello mondiale oltre che nazionale, per effetto della globalizzazione e relativa delocalizzazione produttiva che disperde il “know how” e rende difficili i controlli.
La ricerca Censis-Ares ha delineato in via generale queste condizioni, e ne abbiamo già dato conto. Per una verifica sul campo, nel nome della completezza dell’informazione, non possiamo ignorare i risultati di un’inchiesta di tutt’altro tipo, quella della trasmissione televisiva “Report”, benemerita nel denunciare anomalie e irregolarità a tutti i livelli, con coraggio e professionalità.
I “disoccupati” e gli “schiavi del lusso” nelle inchieste di “Report”
La trasmissione “Report” su Rai 3, con due inchieste di Sabrina Giannini commentate in studio da Milena Gabanelli il 2 dicembre 2007 e il 18 maggio 2008, ha alzato il coperchio su metodi produttivi inammissibili, perché è intollerabile l’esistenza di “disoccupati del lusso” e ancor più di “schiavi del lusso”.
Si tratta della logica conseguenza di quanto segnalato nell’indagine Censis-Ares, sulla dispersione della produzione di abbigliamento “griffato” al di fuori del controllo della casa madre. In realtà, la sottrazione a questo controllo deriva dal voler eludere il rischio imprenditoriale facendolo ricadere sul fornitore che lo scarica sui sub fornitori sia per i cicli di domanda sia per il processo produttivo.
Per questo si creano quelli che “Report” ha chiamato i “disoccupati del lusso”, sprovvisti di qualsiasi garanzia, che smettono il lavoro nelle fasi di depressione per attendere di riprenderlo nei periodi di picco della domanda. Di qui una prima fonte delle irregolarità perché il modo per sottrarsi a questa situazione è lavorare in nero, magari in proprio, avvalendosi del “know how” acquisito.
Altra fonte di disoccupazione nasce dall’abbassarsi della retribuzione del lavoro per l’offerta, anche nelle zone di tradizionale produzione italiana, di manodopera clandestina, per lo più cinese, a prezzi ancora più stracciati. Ciò dipende dall’assillante ricerca del costo più basso di produzione che si può realizzare soltanto esternalizzandola e verificandola con un controllo limitato alla qualità, e non esteso alle condizioni di lavoro e alla regolarità dell’attività dei sub fornitori.
Questo crea anche gli “schiavi del lusso”, cioè condizioni di lavoro degradate e di sfruttamento in quanto i compensi bassissimi del primo fornitore costringono il fornitore successivo che organizza la produzione a servirsi di lavoro irregolare ai costi più bassi possibile per restare nei termini ristretti che gli sono stati imposti. Condizioni che non si realizzano soltanto nei paesi nei quali il lavoro non è tutelato, Cina in particolare, dove la contraffazione è punita ma si pratica in modo occulto ugualmente inarrestabile; si realizzano anche in Italia come “Report” ha verificato nei suoi servizi da Napoli, con manodopera italiana, e da Prato con manodopera anche cinese.
Sconvolgenti alcuni risultati, borse di nylon o plastica, materiale di scarso valore, pagate 20 euro per la manodopera al sub fornitore che le produce, e vendute a 440 euro; borse per il 90% di stoffa e solo il 10% di pelle pagate a chi le produce meno di 40 euro per la manodopera e vendute a 3.500 euro e così via. Marchi famosi sono coinvolti in queste situazioni non certo tollerabili. I controlli che le “griffe” esercitano con propri ispettori sembrano riguardare soltanto la qualità della merce e non le condizioni di lavoro, e non a caso, perché non li supererebbero. E anche quando una “griffa” certifica la sua produzione non lo fa per tutti i marchi che le fanno capo, e si cita un esempio.
Che dire dinanzi a questa faccia nascosta di un settore nel quale prolifera la contraffazione? Che spesso sono le condizioni in cui le “griffe” fanno svolgere la produzione .per accrescere i profitti, a favorire il mercato parallelo dei falsi, oltre a dar luogo a inaccettabili quanto irregolari condizioni di lavoro, secondo l’efficace documentazione di “Report”. L’assenza di controlli da parte delle “griffe”, per tenersi fuori da responsabilità nelle violazioni delle normative sul lavoro, si ritorce contro di loro nel far venir meno l’argine ai falsi dato da controlli che riguardassero la manodopera (dovrebbe essere artigianale e regolare), e i materiali (dovrebbero avere maggior valore intrinseco).
Non vengono anche da qui gli atteggiamento verso una contraffazione accettata se non favorita?
A volte si crea una catena con quattro anelli, di cui solo l’ultimo impegnato nella produzione per una remunerazione falcidiata perché quella della casa madre, già molto ristretta, è poi ripartita tra diversi intermediari come da sempre avviene, in situazioni molto diverse, per i prodotti agricoli.
Secondo quanto ha accertato “Report” direttamente – con incalzanti interviste di Sabrina Giannini in Italia e in Cina – si mette in moto una spirale al ribasso dei costi e delle condizioni di lavoro innescata dai prezzi iugulatori che impediscono comunque di produrre con manodopera regolare e qualificata. Dall’artigiano italiano in regola e nella legalità si passa presto al lavoro nero italiano – è il caso riscontrato nella zona di Napoli – poi al lavoro nero dei cinesi che operando in condizioni subumane possono offrire prezzi ancora inferiori – è il caso di Prato in due diverse situazioni – fino alla delocalizzazione in Cina che apre praterie di irregolarità: con il “made in Italy” apposto sulle etichette di prodotti cinesi con metodi disinvolti oppure giustificato dal fatto che l’ultima operazione, come tracolla o manico della borsa, è omessa per essere completata in Italia e avvalersi, al pari dell’alimentare, delle pieghe della normativa per una “contraffazione legale”.
Quello che è emerso dall’inchiesta fa tornare ai tempi della schiavitù, non solo nelle condizioni di lavoro degli “schiavi del lusso”, così “Report” li ha definiti, ma nella remunerazione che li strangola imposta dalle case di moda. Mentre i prezzi di vendita al pubblico sono a livello stratosferico.
“Abbiamo sempre pensato – ha commentato Milena Gabanelli in studio – che la differenza fra un accessorio di lusso e un altro comprato al mercato fosse nei materiali e nei costi di produzione. Non è sempre così, succede che si vende a 3500 quello che costa 100, e se vogliamo esagerare 150. Qualcuno le può chiamare regole di mercato, ma il fatto è che si risparmia sulla parte artigianale, cioè quella che dà valore aggiunto alla griffe e all’etichetta. Eppure chi la indossa di solito ignora che a monte non ci stanno le mani esperte e raffinate di un artigiano, ma quelle di un clandestino”.
I controlli della Guardia di Finanza cercano di contrastare il fenomeno, ma i mille rivoli sfuggono perché se i lavoratori irregolari vengono identificati, continuano sotto altri sub fornitori in un meccanismo che definiremmo “l’inferno del lusso”. Come si può puntellare un sistema così anomalo con l’impari lotta alla pirateria dilagante perché viene di fatto favorita dalle stesse case per i prezzi iugulatori e l’assenza di controlli sui sub fornitori, se non per la qualità? La pirateria ne è la logica conseguenza perché nei compensi imposti è insita l’irregolarità nell’esecuzione, altrimenti non si potrebbero rispettare. Proteggere questo sistema non vuol dire difendere il “made in Italy”, tutt’altro, perché a tali livelli infimi è assente l’artigianato italiano con la sua tradizione di qualità.
Lo ha detto chiaramente la Gabanelli: “In pratica stiamo trasferendo ai cinesi una competenza che è solo nostra e che tutto il mondo ci invidia. Alla base di questo processo di svilimento, non è il piccolo pellettiere ma, incredibile, l’industria del lusso, proprio chi non ne avrebbe bisogno. Infatti i cinesi si sono insediati là dove c’è un polo manifatturiero, e l’artigiano locale è andato a farsi benedire sotto i colpi della concorrenza sleale. Ma la logica dell’articolo di lusso è la stessa dell’articolo di largo consumo? Anche Dior, Dolce Gabbana e Louis Vuitton, come chi fa le ciabattine da mare o le magliette che si vendono sulle bancarelle, devono produrre al minor costo possibile altrimenti non ci stanno più dentro?”. E ancora: “Allora se tu puoi fare la scarpa in Cina, mettere la suola in Italia e scriverci ‘made in Italy’ perché la norma è così ambigua che te lo consente, lo fai. Addirittura qualche grande marchio può permettersi di fare la scarpa completa in Cina e poi cambiare l’etichetta. Sarebbe una frode. Ma un sistema che non protegge il vero ‘made in Italy’ pare faccia comodo a tutti. Tranne a chi lo fa davvero e a chi compra, perché a un prezzo alto non corrisponde una qualità alta. Poi se vuoi fare una griffa e venderla a meno, e la vuoi fare in Cina, sarebbe solo corretto scriverlo. Il nostro mercato più importante è quello americano, si fida sempre meno di noi, perché sa che produciamo molto fuori, ma possiamo non dichiararlo”.
Non è impossibile invertire la tendenza. Un operatore sardo, Antonio Marras, rintracciato da “Report”, ha reclutato ricamatrici locali per un lavoro dignitoso e regolare nella splendida cornice tradizionale della Sardegna, e funziona. Così l’autrice dell’inchiesta Sabrina Giannini: “Portare la tradizione regionale del suo ‘made in Italy’ vincendo la scommessa. E’ rimasto lontano dai riflettori del fashion system e dei poteri forti, eppure oggi disegna anche per il marchio di un’importante maison francese”.
E poi, come in “Furore” di Steinbeck il protagonista allo stremo approda in quello che era il “campo del governo”, un’isola di legalità e ordine, pulizia ed efficienza nel caos di miseria e di violenza della Grande depressione, così in “Report” la Giannini approda al “Consorzio 100% Italiano”; un’oasi nel deserto dove i costi di produzione con manodopera italiana regolare e certificata in ogni fase sono sì più elevati, 90-100 euro e con i materiali, anch’essi italiani e di qualità, i costi generali e quanto fa parte della gestione di un’azienda, si arriva a 250-300 euro franco fabbrica; ma il prezzo in vetrina può essere di 900-1000 euro, quindi il conto economico è sostenibile e dà ugualmente margini sufficienti, in compenso c’è un ciclo produttivo regolare e legale e una qualità elevata.
Saranno minori i profitti? Senz’altro, ma saranno ugualmente elevati. Ha ragione la Gabanelli:“Allora parliamo del mercato del lusso, oggetti così esclusivi che non hanno prezzo. Quindi il fatto che da noi il costo è così elevato non dovrebbe incidere. E quei 20-30 euro in più su questi accessori salverebbero un intero settore e certamente non limiterebbero la vendita di beni destinati a consumatori ricchi. Ma con ogni probabilità non c’è limite alla sete di profitto”.
Saranno minori le possibilità di spese di promozione e pubblicità, sfilate e vetrine, che sono ingenti nelle grandi case, peraltro cosi attente nel contenere i costi a livello produttivo? Può darsi. Ma rinunciare un po’ a questo“lusso” per mantenere le condizioni minime di un “made in Italy” di qualità anche nel rispetto della legalità è il meno che si possa pretendere, anche perché avere sotto al “lusso” la miseria più degradante è grottesco: fa pensare a un gustoso film del grande Totò che sotto al vestito inappuntabile aveva soltanto il collo, la pettorina e i polsini della camicia, ma quella era miseria vera e non una situazione indotta dall’avidità come quella che viene denunciata.
Altrimenti coloro che si comportano in questo modo – anche se sono case rinomate, ma di fatto operanti in un’illegalità solo formalmente coperta dai sub fornitori – si dovrebbero lasciare soli alle prese con la contraffazione da loro stessi suscitata con una filiera produttiva che disperde il loro “know how” all’esterno in mille rivoli e genera “disoccupati del lusso” scaricati nelle fasi depressive senza garanzie né ammortizzatori e “schiavi del lusso” che lavorano in condizioni subumane.
Ma non si deve arrivare a tanto. Ha affermato Andrea Calistri, Presidente del “Consorzio 100% Italiano”: “Le grandi griffe hanno, come dire, atteggiamenti con noi di dialogo aperto sull’argomento, non possiamo però non considerare il fatto che le grandi griffe sono molto spesso aziende globalizzate, e che proprio questa globalizzazione spinta, probabilmente, porta a fare scelte non esattamente drastiche come quelle che abbiamo fatto noi. E’ etico dire: ‘Io faccio prodotti in Italia in aziende certificate’ e farlo davvero, così com’è etico dire: ‘Io faccio i prodotti in Cina’. E li faccio davvero in Cina, oppure li faccio in India e li faccio davvero in India. Ho imparato che non è etico scriverci ‘made in Italy’ e fare i prodotti in Cina”.
Ha detto a “Report” Diego della Valle, noto proprietario di una “griffa” della moda: “Io sono un sostenitore totale del ‘made in Italy’ in questo senso: io dico ad altri marchi importanti come i nostri che noi dobbiamo stare molto attenti a non annacquare la grande considerazione che hanno nel mondo del ‘made in Italy’. Quando la gente ha del denaro, soprattutto in questi paesi emergenti vuol comprare i grandi marchi italiani e anche il ‘made in Italy’, ma questo serve soprattutto a preservare il grande artigianato italiano. Beh, io sono dieci o quindici anni che dico che se non stiamo attenti il ‘made in Italy’ un po’ alla volta ce lo giochiamo e adesso un bel pezzo di strada è stata fatta. Ho l’impressione che più che urgente è già tardi”.
Viene bene a questo punto la proposta della Gabanelli che, se tradotta in apposita normativa, potrebbe essere risolutiva: ”Fare pressione in sede europea affinché venga approvata una legge chiara sull’obbligatorietà della provenienza del prodotto e definisca ‘made in Italy’ ciò che realmente è fatto qui, non solo la suola della scarpa o il manico delle borse. Forse c’è ancora tempo di recuperare la credibilità di un marchio che ci distingue nel mondo ed anche il relativo indotto. Adesso le leggi sono così contorte che permettono ai furbi di fare i furbi”.
Alcune considerazioni sugli elementi emersi
Cosa è emerso, dunque, nel nostro viaggio in un labirinto insolito e inquietante, pieno di sorprese? Iniziato con la ricerca del Censis-Ares e proseguito seguendo le due inchieste di “Report”?
Intanto si distinguono due realtà diverse: quella in cui l’azione di contrasto difende da rischi per la salute e da frodi commerciali; e quella nella quale si tratta invece di proteggere interessi che sono legittimi ma dovrebbero comunque mettersi da se stessi in condizioni di minore vulnerabilità.
Nel primo caso la mobilitazione speciale con risorse pubbliche anche ingenti dedicate al contrasto è doverosa e sacrosanta, rientrando nei compiti dello Stato tutelare con ogni mezzo, anche straordinario, i consumatori indifesi di fronte alle pericolose irregolarità che li minacciano.
Nel secondo caso non si tratta di vera tutela dei consumatori, perché sono consapevoli di quello che acquistano. Lo ha detto il presidente del Censis Giuseppe De Rita alla presentazione della ricerca del Censis-Ares: “Entra nella struttura sociale voler spendere poco e apparire molto”; e nell’introduzione ha scritto della “poco diffusa consapevolezza da parte dell’opinione pubblica dei danni economici e sociali della contraffazione, che vengono considerati solo in concomitanza di episodi di cronaca eclatanti su cui si appuntano, di tanto in tanto, i riflettori dei media”. E il Ministro dello sviluppo economico Claudio Scaiola, nel cui dicastero c’è la Direzione generale dedicata alla lotta alla contraffazione, ha scritto a sua volta che questa è “vissuta dalla stragrande maggioranza della popolazione come un ‘fenomeno di costume’, un’‘infrazione veniale’, quasi un atto di solidarietà sociale nei confronti di soggetti bisognosi”. Lo sono coloro che espongono per strada merce a basso prezzo, i quali sarebbero portati a delinquere, spacciare droga o prostituirsi se non avessero quella modesta fonte di guadagno. Questo è il grave pericolo per la sicurezza pubblica da scongiurare non accanendosi contro di loro, pur nel doveroso rispetto della legge, altro che buoni sentimenti!
Ne deriva che uno dei “fronti” della battaglia è proprio, sempre nelle parole del Ministro, “la sensibilizzazione delle diverse fasce di consumatori, a partire dai più giovani”. Gli altri due fronti sono: “L’inasprimento e la rigida applicazione delle sanzioni”, coinvolgendo la Guardia di Finanza, le Dogane, le amministrazioni centrali e periferiche dello Stato; “il rafforzamento della collaborazione a livello internazionale per garantire la tutela del ‘made in Italy’ nel mondo”.
Vorremmo aggiungere un quarto fronte, in cui devono impegnarsi le case produttrici, le “griffe”, soprattutto se gli interessi da tutelare sono i loro interessi e non quelli generali che includono i consumatori; tanto più che “la popolazione deve essere sensibilizzata” affinché collabori all’azione di contrasto. Perché non “sensibilizzare” anche loro a impiegare le proprie risorse in questa azione? In effetti è quanto si è verificato nel mondo del calcio, anch’esso caratterizzato da esibizioni miliardarie per quanto riguarda remunerazioni dei calciatori, diritti televisivi e quant’altro; il tutto senza sostenere costi connessi a tale forma di spettacolo, come quelli per la sorveglianza all’interno degli stadi, fino a poco tempo fa affidata totalmente alle forze dell’ordine. Di recente si è presa coscienza dell’anomalia insita nella devoluzione dei profitti ai soggetti privati in presenza di pesanti costi per garantirli gravanti sulla finanza pubblica, e si sono obbligate le società ad accollarsi il costo della sicurezza interna con un sistema di sorveglianza privato affidato ai cosiddetti “steward”pagati da loro, collegati con le forze dell’ordine ma non mobilitati a surrogare le società.
Per alcuni settori attaccati dalla contraffazione, particolarmente quello del “lusso”, l’esibizione miliardaria è non meno eclatante, anzi i profitti raggiungono livelli massimi rispetto ai deficit calcistici, tanto da creare quei meccanismi psicologici di cui parlava il Ministro; e sarebbe altrettanto impopolare la mobilitazione speciale e massiccia delle forze dell’ordine, che hanno compiti prioritari rispetto a questi. In analogia con l’azione negli stadi, anche nel campo in esame dovrebbe esserci un impegno massiccio delle imprese con l’accollo dei relativi costi.
E’ stata scartata nel Convegno l’ipotesi, pur prospettata, di ridurre la differenza di prezzo rispetto ai prodotti contraffatti, sebbene possa essere risolutiva; in fondo è quanto avvenuto nei medicinali con l’ingresso sul mercato dei farmaci generici, scaduta la licenza dei farmaci “griffati”, a prezzi abbattuti di netto; ebbene, quelli “griffati” sono potuti restare sul mercato se hanno ridotto drasticamente i propri prezzi, non più giustificati sul piano dei costi ma mantenuti a quei livelli dalla posizione monopolistica, cessata la quale non hanno più avuto fondamento. I farmaci generici sono stati incoraggiati anche dal servizio sanitario al fine di ridurre i costi della spesa farmaceutica.
Nel caso delle “griffe” nell’abbigliamento è difficile mantenere il differenziale di prezzo, ben più abnorme di quello nei farmaci, solo con misure di polizia per puntellare una situazione insostenibile di per sé, nelle condizioni di cui si è detto determinate dalle imprese per massimizzare i profitti. Soprattutto quando i prodotti offerti nel circuito clandestino a prezzi vicini ai costi di produzione, di frequente sono gli stessi venduti dalle case a prezzi diecine di volte più elevati, come si è visto.
Se ne rendono conto tutti coloro che si soffermano su questi aspetti. Il direttore del Censis, Giuseppe Roma, a una nostra domanda su come si spiegano queste abnormi differenze ha risposto che gli alti prezzi “sono giustificati dall’idea e dal marchio che c’è dietro”; e quando abbiamo parlato della facilità della contraffazione dovuta all’assenza di un’alta qualità di materiali e manodopera, quindi con un basso costo di produzione, ha osservato sconsolato: “Questa è la tragedia”. Lo stesso col. Vittorio Di Sciullo della Guardia di Finanza, alla nostra osservazione al termine del Convegno che andrebbero distinte anche nell’azione di contrasto le due forme di contraffazione perché il pericolo sociale è ben diverso, ha detto: “Questo è un problema”.
E’ vero che – come il colonnello aveva giustamente affermato – il “made in Italy” è un valore da proteggere, e lo abbiamo sostenuto anche per il settore alimentare nella linea del Ministro Luca Saia e del presidente della Coldiretti Sergio Marini. Ma è altrettanto minacciato dalle case che delocalizzano la produzione facendo venire meno l’apporto dell’artigianato italiano, lo ha detto Diego della Valle.
Possibili linee di intervento
Una sia pure parziale soluzione ai problemi fin qui evidenziati può essere trovata sviluppando una linea di intervento che riprende l’iniziativa – citata dal direttore del Censis nel Convegno citato – di un produttore del settore il quale ha attivato proprie indagini nei paesi della contraffazione segnalando poi alle autorità doganali i “container” con le merci contraffatte; è un esempio da seguire di impegno e partecipazione diretta all’azione di contrasto sostenendo per essa dei costi soprattutto quando i profitti sono abnormi come dimostrano i bilanci delle case della moda e gli investimenti di ingenti capitali perfino in mega alberghi di lusso in tutto il mondo.
Facciamo un’associazione di idee molto ardita ma per noi pertinente. La critica di Alessandro Baricco ai finanziamenti alla cultura è stata incentrata sul fatto che non si interviene alla radice, al momento formativo ma a valle, quando ci si è dispersi in mille rivoli che si cerca di intercettare con un’azione a quel punto forzatamente velleitaria e inefficace. E’ quello che si dovrebbe fare anche nella contraffazione se è del tipo ora illustrato, eliminando le condizioni che la favoriscono, in modo da non doverne rincorrere i mille rivoli sul mercato con insostenibili costi per lo Stato.
Si dirà che intervenire sulla delocalizzazione e quant’altro aumenterebbe i costi delle case produttrici; ma abbiamo già visto che i loro bilanci lo sopporterebbero. E migliorerebbe l’accettabilità sociale dell’azione di contrasto contro quello che, riportiamo ancora le illuminanti parole del Ministro Scaiola, è “vissuto dalla stragrande maggioranza della popolazione come un ‘fenomeno di costume’, un’‘infrazione veniale’, quasi un atto di solidarietà sociale nei confronti di soggetti bisognosi”. Mentre non vi è altrettanta solidarietà per le celebri case “griffate” se agli artifici della delocalizzazione multinazionale aggiungono le irregolarità denunciate da “Report”.
Quindi non ci sembra fuori luogo fare appello alla responsabilità sociale dell’impresa sul doppio versante dell’adozione di modelli produttivi meno esposti alla contraffazione per il loro intrinseco contenuto; e dell’impegno diretto con l’accollo di parte dei costi nell’azione di contrasto.
Non è velleitario richiedere questo, l’esempio che ciò è possibile è dato dall’impegno dell’Ares-Aico, la grande impresa farmaceutica da molti anni in prima linea in questa condivisione di responsabilità e di costi per un’efficace azione di contrasto. Questo suo impegno, evidente anche nella ricerca svolta con il Censis, si è tradotto nella “tracciabilità” del farmaco, un procedimento messo a punto con la mobilitazione dell’impresa, che ha praticamente azzerato le possibilità di contraffazione nei circuiti di distribuzione dei medicinali, quando negli altri principali paesi si hanno percentuali consistenti, dall’1 al 3%. Risultato questo di importanza straordinaria avendo a mente l’estrema a pericolosità dei farmaci adulterati per la salute e la sicurezza di tutti.
Non solo, ma la responsabilità sociale dell’impresa, nel caso dell’Ares-Aico è andata oltre il proprio campo di azione: assume infatti una valenza generale il suo progetto di estensione della “tracciabilità” anche ai prodotti degli altri settori presi di mira dalla contraffazione.
Potrebbe essere l’uovo di colombo per assicurare almeno che le produzioni ufficiali e regolari siano certificate in ogni fase del processo, cosa che implica la riconsiderazione dell’intera filiera produttiva e distributiva da parte delle case “griffate” e non, coinvolte nel meccanismo infernale che si è descritto; e anche per far contribuire le imprese interessate a sostenere i costi dell’azione di contrasto derivanti da questo progetto. La revisione del meccanismo produttivo è necessaria perché altrimenti neppure la riconoscibilità della contraffazione aiuterebbe e, chiusi i canali regolari, si moltiplicherebbero quelli irregolari perché ne rimarrebbero inalterate le premesse.
Ci sembra poter ripetere in tranquillità di coscienza di non ritenere giusto che tutti i costi dell’azione di contrasto siano accollati alla finanza pubblica dando un compito titanico alle forze dell’ordine, soprattutto perché il fenomeno è alimentato dalle anomale modalità della produzione, tali da dar luogo all’abnorme dilatazione di profitti privati a fronte di crescenti, insostenibili costi pubblici. E quando le modalità anomale sconfinano nelle violazioni palesi si deve dire alle imprese che le commettono, allorché denunciano le contraffazioni, l’antico ma sempre ammonitore “medice cura te ipsum”. Né la Ares-Aico può essere lasciata sola a battersi sul fronte dell’impresa privata nell’azione di contrasto. La responsabilità sociale dell’impresa non può che essere collettiva.
Su questo versante la ricerca non si è inoltrata, anche se ha lanciato dei segnali nell’indicare come la contraffazione sia alimentata dal fatto che una produzione così delocalizzata sfugge ai controlli; e non possono essere surrogati dall’azione repressiva nei mille rivoli della distribuzione. Lo stesso presidente dell’Ares, Franco Staino, preoccupato del dilagare del fenomeno anche al di là dei dati rilevati con la ricerca, ha scritto nell’introduzione: “Dobbiamo prendere atto e quindi indicare soluzioni radicali, poiché in molti casi gli stessi produttori non sono in grado di distinguere il prodotto ‘vero’ da quello ‘contraffatto’”. E ha aggiunto: “Noi pensiamo concretamente di collaborare con gli Stati e i produttori per divulgare uno strumento di controllo sistematico e costante”. E lo ha così descritto: “Una soluzione in grado di dare a prodotti immessi in commercio, senza interferire eccessivamente nel processo industriale, valori aggiunti quali la sicurezza dell’originalità, la tracciabilità di tutti i passaggi fino al consumatore, l’accertabilità del rispetto del processo distributivo in ogni momento e la rintracciabilità ai fini del ‘recall’ o altri eventi straordinari”. E infine: “La certificazione dei movimenti delle merci destinate all’impiego o al consumo – come l’esperienza del farmaco immesso in commercio in Italia già dimostra – si traduce anche in uno strumento per l’esercizio del controllo dovuto dalla pubblica amministrazione che sarà reso così efficiente da diventare uno strumento di prevenzione”.
C’è tutto in una dichiarazione così impegnativa, anche l’interferenza nel processo industriale che abbiamo ritenuto necessaria, e per alcuni settori forse dovrà anche essere “eccessiva”.
Il: progetto di “tracciabilità” dell’Ares e la relativa ricerca sul campo
A questo punto il re è nudo, si potrebbe dire. Perché c’è un modo di far venire allo scoperto le anomalie denunciate da “Report” o dimostrarne l’inesistenza, dato che va sempre praticata la doverosa presunzione di “innocenza”, pur nella fiducia che il programma della Gabanelli ha saputo conquistarsi sul campo, anche con gli unanimi riconoscimenti giudiziari della propria correttezza.
Ci sembra che questo risultato si possa ottenere con la realizzazione del progetto “SI.T.R.I.S.” proposto dall’Ares “per la tracciabilità e la rintracciabilità integrale di sicurezza dei beni di consumo e dei prodotti tecnologici” in quanto consentirebbe di ripercorrere ogni fase della “filiera del lusso” verificandola e certificandola, quindi garantendone anche la legalità oggi così discussa. Sarebbe inoltre un modo per dare maggior “valore” ai prodotti certificati e al relativo “made in Italy”, con la certificazione di origine e provenienza anche della lavorazione artigianale.
Si dirà che non si può sollevare il toro dalla coda, come sarebbe voler riportare a normalità un sistema degenerato, per i motivi citati, basandosi su un procedimento di certificazione. Eppure crediamo che il tentativo vada fatto, e le autorità pubbliche dovrebbero appoggiare l’iniziativa che si risolverebbe nella semplificazione e in una maggiore efficacia della loro azione di contrasto.
Naturalmente sarebbe necessario che le maggiori case del “lusso” si impegnassero in questa azione di tutela del proprio settore anche se va a scoprirne le carte, assumendo le iniziative più opportune, come ha fatto meritoriamente l’Ares andando oltre il proprio campo di attività. E allora, per formulare una proposta costruttiva di valenza immediata, intravediamo le linee direttrici di un nuovo progetto di ricerca che intanto analizzasse ciò che avviene alla radice del fenomeno, dopo averne verificato le conseguenze a valle. Sarebbe comunque un presupposto per passare all’eventuale sviluppo del progetto di “tracciabilita”; e, nel caso non si trovi il consenso su questo progetto, darebbe intanto indicazioni per la difesa del “made in Italy” e della legalità.
Ci interesserebbe sapere cosa ne pensa l’Ares-Aico. Potrebbe farsene promotrice insieme al Censis con il quale ha già esplorato il campo della contraffazione? Risalendo dalle conseguenze alle cause per ora soltanto delineate? E in questo caso cercherebbe di coinvolgere le imprese del “lusso”?
Sono domande che poniamo e speriamo non restino senza risposta. In merito all’ultima ci sentiamo di dire che se si riuscisse a coinvolgerle, nessuno potrebbe dire di loro: “sotto il vestito niente”.
4 Comments
- Romano Maria Levante
Postato giugno 10, 2009 alle 10:24 AM
Illustre Presidente Staino,
Le sono grato dell’apprezzamento, sarà la mia formazione di dirigente dell’ENI per una vita a farmi vedere nell’iniziativa dell’azienda da Lei presieduta una lodevole espressione di responsabilità sociale dell’impresa; aggiungerei, in un’ottica manageriale, che altrettanto lodevolmente vengono messe a frutto le competenze sviluppate all’interno per un’applicazione all’esterno (in ENI si valorizzò la cosiddetta “catena del valore” trasformando le divisioni di progettazione, perforazione e montaggi nelle consociate Snamprogetti, Saipem e Nuovo Pignone operanti anche per i terzi).
Lo consideri un augurio per il progetto della “tracciabilità” da utilizzare all’esterno della Sua azienda negli altri settori colpiti dalla contraffazione. Sono lieto che Lei abbia colto il mio messaggio – e mi è parso anche il Suo convincimento – che non si può operare soltanto a valle con la repressione impegnando le forze dell’ordine in un’azione di contrasto impari, e sarebbe utile l’opinione del col. Di Sciullo della Guardia di Finanza, relatore al Convegno del Censis e dell’Ares. Ma occorre promuovere nuovi assetti nella filiera produttiva sia nel lusso, innocuo per la sicurezza ma deleterio per l’immagine del “made in Italy”; sia nei settori alimentari e tecnologici in cui è a repentaglio la sicurezza dei consumatori al pari del farmaceutico, protetto però dalla “tracciabilità”.
E qui, sfidando il rischio di sembrare presuntuoso, mi permetto un’aggiunta, forse superflua se l’impostazione di Censis e Ares è di questo tipo. Mi tornano in mente le ricerche che qualche volta facevamo in ENI e chiamavamo “progetto-ricerca” dato che univano la parte applicativa a quella teorica, come fosse ricerca e sviluppo piuttosto che solo ricerca di base. Perché non abbinare nella seconda fase, che Lei con lungimiranza sta impostando con il Censis, un’applicazione concreta per un prototipo di “tracciabilità” su un settore o un’impresa campione? Meglio se due applicazioni, una per la “tracciabilità” a tutela del “made in Italy”, l’altro per la “tracciabilità” a tutela della sicurezza. Dove il Censis metterebbe a frutto le sue capacità di Centro studi per l’indagine e l’Ares quelle di impresa impegnata in concreto sul terreno della “tracciabilità” per la parte applicativa.
E’un’idea, spero non peregrina, suggeritami dal Suo commento ricco di elementi su cui riflettere e anche di autentica passione civile. Non consideri presuntuoso il contenuto della mia risposta, ci veda altrettanta passione civile. E colga la gratitudine per il Suo apprezzamento che giro interamente alla nostra Rivista. Tanto è lo spazio e la libertà che mi concede, tanto lo spirito di servizio che ha fatto accogliere ampi resoconti oltre che sulla contraffazione, sulle malattie rare e sui farmaci innovativi, sulle malattie della globalizzazione e sui servizi pubblici fino alla Rai, sui territori di eccellenza e sulla resistenza alla crisi, oltre che sul terremoto con il Direttore in prima linea.
Per tutto questo, illustre Presidente, La ringrazio, anzi La ringraziamo di cuore.
Romano Maria Levante
- Franco Staino
Postato giugno 8, 2009 alle 2:29 PM
Egregio Dr. Levante,
con la presente Le invio i miei ringraziamenti per il grande lavoro che state sviluppando per l’informazione in generale e sulla contraffazione in particolare. Questo fenomeno, come anche i recenti studi dicono, è grave, in progressione e soprattutto investe anche i prodotti di largo consumo e sensibili anche sul piano igienico sanitario. Sulla strada segnata dalla globalizzazione la contraffazione fa il proprio percorso con scaltrezza e voracità. Le imprese si demotivano, i consumatori sono sottoposti a rischi, gli operatori della distribuzione rimangono esposti alla malavita. Una catena disastrosa che deve essere interrotta.
Le forze dell’ordine fanno molto ma quello che ci vuole è un sistema in grado di porre rimedio a monte e senza intaccare i costi (prezzi) dei prodotti medesimi. Il contributo dato da ARES in questa direzione crediamo sia notevole e l’esperienza del farmaco in Italia un fatto esemplare.
Le domande che sono state poste direttamente ad ARES in un recente articolo del Suo giornale ci hanno fatto ritardare il riscontro. Non tanto per prepararci ma perché volevamo effettuare un programmato incontro con il CENSIS per fare il programma del prossimo step di collaborazione. Questo è avvenuto ed oggi possiamo preannunciarvi un secondo studio/ricerca che andrà ad approfondire ulteriormente la prima analisi e ad affrontare specificatamente le problematiche del made in Italy. Come constaterete anche su questo piano ci sentiamo molto dinamici e coerenti con il nostro programma generale.
Il fatto che ci sentiamo sostenuti dai mass media è certamente un rafforzativo in questo sforzo che si accompagna ad un impegno su tutti i settori di sviluppo della nostra realtà imprenditoriale.
Cordialmente
Franco Staino
Postato maggio 22, 2009 alle 12:49 PM
Mi sembra ovvio che se si esporta la conoscenza all’estero, una volta che essa è acquisita è da considerarsi persa.
E’ un bene iniziale ma un male successivo.
- Piero Sivitilli
Postato maggio 21, 2009 alle 10:48 PM
Un articolo molto interessante. Dà piacere a leggerlo!
Piero Sivitilli – Toronto, Canada