di Romano Maria Levante
Imprese e precari, badanti e sommerso nella ricerca del Censis.
Siamo tornati il 22 giugno 2009 alla sede del Censis per la seconda settimana del “mese di sociale”, una specie di prolungamento laico del “mese mariano” con attente riflessioni sulla società italiana. Questa volta non si è parlato dei comportamenti, erratici e individualisti, bensì della “società solida degli ‘invisibili’”, cioè della “maggioranza degli invisibili che quotidianamente tiene le fila della crescita sociale”.
Non si tratta della “maggioranza silenziosa” di antica memoria, in un certo senso inerte finché non ci fu la scossa della “marcia dei quarantamila”, bensì di un arcipelago attivo ma non visibile: ”Una maggioranza oggi orfana non solo di ‘rappresentanza’, perché i tradizionali soggetti non sono riusciti a intercettarne i cambiamenti, ma soprattutto di ‘rappresentazione’, perché poco si sa dei numeri, dei comportamenti che la caratterizzano”.
E’ stata questa l’unica fugace concessione alla politica e anche alla sociologia, per il resto l’incontro è stato tutto giocato sul terreno dell’economia, come del resto la ricerca che ne è alla base.
Il direttore generale Giuseppe Roma ha inquadrato il tema, tracciando l’identikit della resistenza alla crisi: “Piccoli soggetti, piccole imprese e lavoratori precari, una base flessibile che costituisce gran parte della nostra occupazione e della solidità della nostra economia”. In questo modo si va ad esplorare, su un terreno diverso dalle realtà territoriali che fu dissodato a suo tempo nell’“inverno della crisi”, come risponde alle difficoltà che vengono dall’esterno il nucleo centrale dell’economia reale. “L’Italia reagisce con le piccole strutture in cui si articola questo popolo invisibile perché non è rappresentato né considerato come dovrebbe, mentre è quello che regge il sistema”.
I piccoli produttori: la fragile spina dorsale dell’economia
Alla ricercatrice Ester Dini il compito di illustrare i risultati dell’analisi e delle elaborazioni compiute per svelare questo mondo in qualche modo dissimulato tra i dati macroeconomici.
“Con la crisi abbiamo capito che il nucleo di resistenza sono state le piccolissime imprese, per la prima volta i riflettori si sono puntati, hanno messo in luce la solidità dei piccoli”. Ma ha subito aggiunto: è “un universo che presenta luci e ombre, le une e le altre oggi più visibili”.
Le luci, innanzitutto, di quello che viene definito “il capitale più prezioso del paese”: e non potrebbe essere altrimenti se si considera che gli oltre 4 milioni e 300 mila imprenditori di piccole e piccolissime aziende sotto ai 20 addetti, occupano quasi 10 milioni di lavoratori e producono un valore aggiunto di oltre 300 miliardi di euro, pari al 45% circa del totale nazionale; mentre l’incidenza sull’occupazione nelle imprese manifatturiere e dei servizi va oltre, raggiunge quasi il 58%, con un 39% di quota sugli investimenti, essendo imprese “labor intensive”, come si suol dire.
Nelle esportazioni mostrano di resistere meglio delle grandi imprese, se tra il 2007 e il 2009 i dati del primo bimestre mostrano un rallentamento direttamente proporzionale alla dimensione, con una flessione del 9,5% per le piccolissime (meno di 10 addetti) e del 29% per le più grandi (oltre 250 addetti) e valori intermedi per le altre, sempre correlati alla dimensione. Concentrandoci sul primo bimestre dell’ultimo anno questo dato trova conferma nel fatto che oltre un terzo delle aziende piccolissime ha un bilancio positivo nell’export, cosa che si riscontra per meno di un quinto delle aziende più grandi.
La sorprendente tenuta sui mercati esteri, la cui importanza è evidente, non viene da sé: “Negli ultimi anni, dice il Censis, anche le micro e le piccole imprese sono state spinte ad impegnarsi in uno sforzo di ridefinizione della propria identità, ripensandosi sempre più come imprese globali. In molte si sono confrontate sul terreno dell’internazionalizzazione, diventando esportatrici, o addirittura estendendo la propria presenza all’estero”.
Da un’apposita indagine è risultato che un quarto delle piccole imprese interpellate esporta, il 6,5% ha stretto accordi o “joint ventures” con imprese estere, il 5% vi ha creato strutture distributive, l’1,5% è presente con strutture produttive e la stessa percentuale ha creato marchi per l’estero. Lo hanno fatto con coraggio. Dal punto di vista delle strategie, quasi il 15% sta entrando in nuovi mercati, mentre l’8% investe in innovazioni e il 4% addirittura si sta ampliando. E qui le luci sono finite.
Dove sono le ombre? La sintesi la dà senza mezzi termini la ricerca : “Se i dati per quanto parziali mostrano come il tessuto microimprenditoriale stia tendenzialmente metabolizzando i contraccolpi della crisi, e per certi versi appaia dare segnali di reattività migliori di altre realtà, non è scontato però , che la capacità di resistenza dei piccoli sia illimitata”. Una sorta di “quousque tandem…”, e fra poco diremo a chi è rivolto. Intanto aggiungiamo che non si tratta di timori eccessivi, le ombre sono il rovescio della medaglia delle luci, la resistenza avviene per lo più su base difensiva con riduzione di costi per quasi la metà di esse, con taglio dei prezzi e della produzione per il 14%, dell’occupazione per il 7%.; e con l’accentuazione delle criticità sempre presenti.
A chi è rivolto il “quousque tandem…”? A coloro che mettono le imprese più piccole in crisi di liquidità allungando i tempi di pagamento di un terzo, sicché occorre attendere due mesi per riscuotere crediti dai privati e l’assurdo di ben quattro mesi per riscuoterli dalla Pubblica Amministrazione. Quindi c’è già un volto ben identificato che, scoperto, dovrebbe arrossire.
L’altro volto che dovrebbe arrossire è quello dei banchieri i quali fanno mancare il credito ai piccoli proprio quando serve di più per le loro difficoltà di ottenere pagamenti tempestivi: da un’indagine Unioncamere dell’aprile 2009 è risultato che un quinto delle imprese artigiane ha incontrato difficoltà di accesso al credito come limitazione dei prestiti o incremento delle garanzie, per non parlare dei tassi più onerosi pur in una fase di caduta dei tassi ufficiali.
Queste le ombre del momento, si potrebbe dire. Restano quelle di sempre che nelle situazioni difficili si fanno sentire maggiormente, perché “piove sul bagnato”: “il peso della burocrazia, della complessità della regolamentazione e delle procedure, e soprattutto l’inefficienza del servizio pubblico, costituiscono un costo aggiuntivo rispetto ai ‘competitors’ europei sempre meno tollerabile. Che per le imprese piccole ha un peso decisamente maggiore”. E vengono citati anche gli oneri derivanti dal cattivo funzionamento del sistema giudiziario, con una durata del contenzioso contrattuale tra imprese superiore a 1200 giorni e un’incidenza del 3.5% sul fatturato annuo delle microimprese. Un altro volto da dare al nostro “quousque tandem…”.
Risultato di tutto questo: nel primo trimestre 2009 è proseguito il saldo negativo tra formazione di nuove piccole imprese e chiusure “con una perdita secca di 40.000 imprese, in linea con i risultati degli ultimi tre anni”; è vero che questa cifra va rapportata al numero complessivo di quattro milioni e 300 mila, ma è pur sempre un segno della fragilità di questo nucleo fondamentale.
I precari: un esercito del lavoro di riserva senza tutela
Quattro milioni e 600 mila è un numero vicino a quello dei piccoli imprenditori: Sono “i lavoratori ‘di mezzo’, né dipendenti, né completamente autonomi; una platea di ‘para-lavoro’, che non è né totalmente subordinato né totalmente autonomo, ma che sta nel mezzo dell’uno e dell’altro: sfuggente e poliedrica”. Nel dare questa definizione si è precisato che rappresentano un quinto dell’occupazione complessiva.
Costituiscono quel “mondo variegato” che dà oggi alle imprese la flessibilità di cui hanno bisogno, come i disoccupati nei rapporti tra le classi erano chiamati l’esercito del lavoro di riserva che dava forza al “padrone” nel contenere la spinta salariale. Due eserciti che non lottano ma sentono la crisi.
Si tratta di “figure professionali estremamente diverse fra loro, ma accomunate dalla condizione di instabilità che incombe sulla loro situazione professionale”; aggravata dalla crisi perché “il sistema di tutela è ancora troppo strutturato su modelli tradizionali che hanno fatto ormai il loro corso”. Solo un quarto di questi lavoratori fa capo all’industria, mentre quasi il 70% si concentra in quello che il Censis definisce “il ‘mare magnum’ del terziario”.
Ma qual è il volto dell’ “invisibile moltitudine del ‘para-lavoro’”, il nuovo “quarto Stato”? Di volti se ne contano più di uno, molto diversi tra loro, scopriamoli uno per volta.
La metà di questa moltitudine, due milioni e 300 mila pari al 10% degli occupati, è costituito dai “lavoratori dipendenti con contratto a termine”, tra cui apprendisti e interinali. Sono presenti in tutti i settori e qualifiche professionali, in ugual misura uomini e donne, con una maggiore incidenza nell’industria dove costituiscono quasi un quarto del totale, e un quinto nelle qualifiche intermedie.
Prevalentemente giovani, il 60% ha meno di35 anni e più di un terzo il diploma, sono assimilati ai lavoratori dipendenti a parte la temporaneità. Ma mentre prima era un aspetto transitorio, perché la formula “a termine” era l’anticamera del tempo indeterminato, con la crisi è diventato un aspetto critico che determina la precarietà. Infatti nel 2008 poco più di un quarto di loro aveva prospettive di stabilizzazione, perché in formazione-apprendistato o in prova, questi ultimi un decimo del totale; i restanti tre quarti inseriti precariamente per sopperire alle maternità e alle assenze (pari a un quarto), coprire un posto al momento vacante (13%), lavorare su un progetto (7%) o un’attività stagionale (quasi un quinto del totale). I dati del primo trimestre del 2009 mostrano come la precarietà con la crisi diventa disoccupazione: i posti di lavoro a termine sono diminuiti di oltre 150 mila (-7%) su una diminuzione di 200 mila (-0,9%) dell’occupazione complessiva.
L’altra metà del cielo, che cielo non è, risulta costituita da figure professionali diverse accomunate dalla caratteristica di non avere neppure le tutele, seppure temporanee, dei lavoratori a termine. Ma mentre poco più del 65% lavora per più committenti senza vincoli di presenza e di orario, il 15% “ha una condizione per molti versi assimilabile a quella di lavoratore dipendente”, e “il 18% si muove tra l’una e l’altra dimensione”. Il Censis fornisce l’identikit di quattro volti diversi.
I più numerosi, ben un milione, quasi il 4% degli occupati, sono i cosiddetti “semiprofessionisti, autonomi che lavorano individualmente senza addetti” e devono rispettare vincoli di orario e di presenza pur senza essere dipendenti. L’80% uomini, di età speculare a quella dei lavoratori a termine, qui il 60% ha più di 35 anni, con minore grado di istruzione, oltre il 40% ha la licenza media. Poco meno di un terzo lavora nell’edilizia e un quarto nel commercio.
Seguono i 360 mila “collaboratori a progetto”, l’1,6% degli occupati, “tra cui si cela una fetta consistente del lavoro a tutti gli effetti, salvo quelli contrattuali, assimilabile al dipendente”, il che è tutto dire; nel 2008 è risultato che la maggioranza lavora per un solo committente e deve rispettare l’orario di lavoro, e quasi l’80% ha comunque vincoli di presenza in azienda. Prevalgono le donne, quasi il 60%, e i giovani, la metà ha meno di 35 anni, con elevato livello di istruzione, il 40% ha il diploma, il 37% la laurea. Un quarto di loro lavora nel terziario avanzato, in particolare nei servizi alle imprese; e poco meno nel terziario sociale, istruzione, sanità, il resto nei servizi sociali e nella Pubblica amministrazione.
Qualcuno non si aspetta di trovarle qui, ma ci sono, oltre 800 mila Partite Iva (3,5% dell’occupazione), cioè “consulenti che lavorano stabilmente per un solo cliente” – il che mostra palesemente la dissimulazione del rapporto sottostante nella totale flessibilità per le imprese – per cui “costituiscono forse la componente più invisibile e instabile di questo universo”. Prevalentemente uomini per il 70%, di età più avanzata, la metà ha oltre 45 anni, e minore istruzione, meno di un terzo con il diploma. .Circa un quarto lavora nel commercio.
L’ultimo volto, degli invisibili tra gli invisibili, è quello dei “collaboratori occasionali”, poco meno di centomila (meno dello 0,5% degli occupati), “che lavorano a intermittenza, solo quando si creano opportunità di mercato”, gli unici forse per i quali la precarietà dipende dall’intermittenza e non dalla simulazione a copertura di un lavoro dipendente stabile. Torna la prevalenza delle donne per quasi il 60% e il maggiore livello di istruzione, circa il 40% con diploma. Queste caratteristiche li avvicinano ai “collaboratori a progetto”, ai quali li accomuna anche la destinazione, a parte la presenza molto maggiore nei servizi sociali mentre sono assenti nell’istruzione e sanità.
Come si muove questo esercito di invisibili, serbatoio di flessibilità per le imprese e di precarietà per i componenti, e anche espressione di profondi mutamenti nell’organizzazione aziendale e nella stessa concezione del rapporto con il lavoro? E quali le maggiori ombre che offuscano le luci?
Quattro sono i coni d’ombra che si proiettano sulla platea degli occupati e quindi sulla vita economica e produttiva del Paese.
Il primo è naturalmente il riflesso sinistro della precarietà, la disoccupazione di cui è l’anticamera: “è indicativo che nell’anno della crisi, rileva ancora il Censis, il paralavoro sia l’unica componente del mercato ad avere registrato una perdita netta di 136 mila unità (-2,9%), mentre il lavoro tradizionale, autonomo e dipendente, ha sostanzialmente tenuto”; tra i gruppi considerati, il più colpito è stato quello dei lavoratori a partita Iva che hanno subito il “ridimensionamento più drastico” con una diminuzione superiore a 240 mila, oltre un quinto del totale.
Il secondo cono d’ombra è la “cristallizzazione”, nel senso che questa forma di lavoro precario e a basso costo si è andata consolidando ed è rimasta “quasi completamente impermeabile rispetto ai processi di mobilità e transizione verso altre forme di impiego”. L’80 per cento dei lavoratori a termine o a progetto resta precario, e solo il rimanente 20% passa a un lavoro stabile.
Vi è poi il terzo cono d’ombra, in senso stretto, ed è l’invecchiamento, nel senso che mentre prima era costituito soprattutto da giovani all’inizio della vita lavorativa, “oggi il bacino dei lavoratori precari è sempre più intergenerazionale, coinvolgendo face d’età un tempo escluse”. Negli ultimi quattro anni l’utilizzo di questa forma di lavoro è aumentato nelle fasce di età più elevate, addirittura del 30% tra 45-54 anni la cui incidenza sul totale ha raggiunto il 20%.
L’ultimo cono d’ombra, che è il riflesso di quelli descritti, è costituito da “quel processo di progressivo disinvestimento dal lavoro” per cui si cercano solo le prestazioni, ma le competenze non vengono considerate un valore da trattenere all’interno dell’impresa come investimento nel capitale umano; di qui le esternalizzazioni di funzioni aziendali, di qui l’“usa e getta” dei lavoratori, se è consentito usare un termine aspro ma, crediamo, eloquente. Questo avviene, denuncia il Censis, “perché le imprese non hanno avuto la forza di ripensare i propri modelli organizzativi, ma anzi hanno favorito l’emergere di una cultura del lavoro all’ingrosso, in cui la risorsa lavoro è ridotta a mera variabile di costo”.
Più chiari non si potrebbe essere. .Ed ora si comprende l’accenno introduttivo al deficit di rappresentanza di questo arcipelago di lavoratori (e il termine immaginifico di “invisibili”), reiterato dopo l’esplorazione compiuta: “Resta da chiedersi come mai questa platea consistente di para-lavoro, pur cresciuta nelle dimensioni, in esperienza e anzianità, e anche in ruolo, non sia riuscita negli anni a dare visibilità ai propri interessi di categoria, di gruppo, e trovare adeguati strumenti di rappresentanza dei propri interessi”.
I “qualcosisti” del terziario e le badanti: i più invisibili tra gli “invisibili”
Chiariamo subito il significato del termine insolito usato dal Censis, qualifica i lavoratori che in passato trovavano sbocchi nel terziario purché disposti “a fare qualcosa” in attività di servizio che vanno dal commercio al turismo, dalla Pubblica amministrazione alla consulenza; l’accesso al lavoro è stato favorito soprattutto per le donne, i giovani e l’offerta sempre più qualificatale.
Questa valvola di sfogo dell’offerta di lavoro, che ha contenuto per molti anni la disoccupazione intellettuale, è venuta meno già prima della crisi, per la progressiva saturazione dei settori che l’avevano fatta funzionare. Tra il 2003 e il 2008 è proseguita la creazione di nuovi posti di lavoro nel settore dei servizi, più di 700 mila, ma si è dimezzata rispetto al quinquennio precedente quando era stata di 1 milione e 400 mila.
Nella “new economy” e nell’immobiliare gli spazi si sono chiusi, e così nel comparto pubblico per l’esigenza di contenere la spesa; si sono ristretti nei servizi alle imprese e ricerca, comunicazione e consulenza. Mentre si sono allargati nei servizi a domicilio per le famiglie, assistenza e collaborazione, con un aumento di quasi 160 mila nell’ultimo quinquennio. Ne parleremo tra poco, dopo aver sottolineato altri due elementi emersi dall’analisi del Censis del comparto dei servizi
Il primo è che “tra il 2004 e il 2008 i nuovi accessi hanno privilegiato in larga misura le professioni tecniche (+ 11,9%), a scapito del grande ceto impiegatizio, il cui tasso di crescita è stato inferiore, pari all’1,6”, o dell’ampio bacino delle professioni occupate nella vendita, aumentato solo del 5,4%”. Una tendenza alla specializzazione, specchio di trasformazioni nel terziario alle prese con problemi sempre più complessi che richiedono professionalità più qualificate e specialistiche: tra i più richiesti in questi anni vengono citati gli infermieri e gli odontotecnici, i dietisti e i chimici, gli statistici e gli informatici, gli specialisti dell’organizzazione e gli addetti a controllo e gestione.
Il secondo elemento è che si è puntato ad una maggiore flessibilità e in alcuni comparti i lavoratori a rischio hanno raggiunto un quarto-un quinto del totale: si tratta dei servizi avanzati alle imprese, del terziario sociale e del commercio e pubblici esercizi. Vi sono settori con precariato molto maggiore, come l’industria dello spettacolo, dove ha un’incidenza che raggiunge addirittura l’83%, per i macchinisti e attrezzisti di scena; ma anche per registi e direttori artistici, coreografi e pittori-restauratori e ricercatori è della metà, mentre per gli annunciatori e presentatori radio e tv e tecnici vari è quasi del 40%. Nonostante questo la massima aspirazione dei giovani non è più il posto fisso come in passato ma “entrare nel mondo dello spettacolo”, presumibilmente pensando solo alle star.
Soffermiamoci, infine, sull’allargamento degli spazi nei servizi per le famiglie, che il Censis chiama “la lenta emersione della rete del ‘micro welfare’”, in parole povere la diffusione di colf e badanti. E’ un “fai da te” delle famiglie per tamponare un “welfare” molto carente sul piano dell’assistenza perché le risorse sono assorbite dal sistema pensionistico per le distorsioni ben note.
I dati sono eloquenti, dal 2001 al 2008 il loro numero è aumentato di 400 mila unità pari al 37%, oggi sono quasi un milione e mezzo; ed è cresciuta anche la quota di lavoratori regolari, che ha raggiunto il 40% rispetto al 27% precedente, cosa che può avere effetti nei rapporti con le famiglie. Sono due milioni e mezzo le famiglie che ricorrono a un collaboratore domestico, il 10% del totale, e tra queste un quarto lo utilizza a tempo pieno per l’assistenza a malati e disabili.
Si tratta di un lavoro che si è sviluppato con una sostanziale autoregolamentazione, essendo restata di fatto la disciplina all’iniziativa delle parti, con flessibilità assoluta ma anche con molta fragilità.
Un cono d’ombra viene dal fatto che la prevalenza del lavoro irregolare, nonostante l’emersione, come si è visto, sia cresciuta sensibilmente; ciò è dovuto anche alla reciproca convenienza dato che spesso il lavoratore straniero non ha interesse ai versamenti dei contributi non potendone usufruire, per vari motivi, a fini pensionistici. L’effetto negativo è la precarietà assoluta che danneggia entrambe le parti: il Censis cita i dati di un’indagine secondo cui quasi il 40% dei lavoratori la considera occupazione a termine in attesa di un diverso lavoro o di smettere del tutto, e solo un quarto la vede come lavoro stabile. Ne deriva il rischio che per questi servizi familiari venga meno l’offerta di lavoro finora “disponibile ed illimitata”, e si creino gravi problemi per le famiglie e anche per il “welfare” nazionale alle cui carenze esse fanno fronte da sole con questi servizi.
Il secondo cono d’ombra, che riflette quello già evidenziato prima, è l’invecchiamento, anche in questo settore, che accresce il rischio appena evidenziato dell’esaurirsi nel tempo dell’offerta di lavoro di colf e badanti. Tra i lavoratori regolari, la metà del totale, quelli di età superiore a 41 anni nel 2006 hanno raggiunto il 56% (42% nel 2002) e gli “over 50” il 24% (15% nel 2002). Pur considerando che ci può essere un interesse a regolarizzarsi avvicinandosi la pensione, si tratta “di un fenomeno non indifferente, destinato a sollevare nel breve-medio periodo un problema di ricambio interno alla categoria”.
Una categoria, per concludere, con “una intrinseca compattezza, che deriva dall’identità di ruolo e dalla condivisione di interessi comuni” nella quale il Censis vede che “inizia ad emergere la voglia di contare, di dare voce e visibilità al proprio mondo”. Per avere un sostegno ai propri progetti di vita e professionali all’altezza “dell’importanza di ruolo che è chiamato a svolgere, ma che ancora non gli viene riconosciuta”. Che siano le badanti le prime della “moltitudine degli invisibili” a diventare visibili?
Il sommerso: gli invisibili per eccellenza
Gli invisibili per eccellenza restano, comunque, i lavoratori del sommerso, “scoperti” dal Censis oltre 35 anni fa per i quali si sono fatti tanti tentativi di farli emergere assicurando condoni, franchigie fiscali e quant’altro. Si è riusciti, in parte, solo riguardo agli immigrati con la sanatoria del 2002, ma è stato un risultato temporaneo, il lavoro irregolare è continuato ad aumentare a un tasso superiore a quello del lavoro regolare (5,6% rispetto all’1,8% tra l 2003 e il 2006) raggiungendo i 3 milioni, pari al 12% dell’occupazione complessiva.
Ma il dato più eclatante è dato dalla diffusione del sommerso nel Mezzogiorno: assorbe il 45% del lavoro irregolare, un lavoratore su cinque è nel sommerso, e nella regione Calabria uno su quattro. Il forte calo di occupazione al Sud, che ha fatto parlare di “secessione in atto” nel mercato del lavoro – 114 mila in meno nel primo trimestre 2009 rispetto allo stesso periodo del 2008 – “potrebbe contribuire ad accrescere le già numerose fila dei lavoratori in nero”, commenta il Censis.
E’ una medaglia con due facce: dal punto di vista sociale e civile è un fenomeno oltremodo negativo perché, in aggiunta alla deprecabile irregolarità e inosservanza delle leggi, priva il lavoratore dei suoi sacrosanti diritti non solo in materia salariale ma anche sul piano normativo, previdenziale e della sicurezza sul lavoro; nella realtà trova conferma “il ruolo svolto dal sommerso come camera di compensazione delle inefficienze e dei ritardi” e anche “la valenza sociale che il sommerso ha sempre avuto nei momenti anche peggiori, fungendo in definitiva come il principale ammortizzatore delle crisi e delle difficoltà del sistema”.
Per questo “il rischio di una nuova stagione di ripresa del sommerso” ha due facce, negativa con l’offerta di lavoro irregolare che può spingere le imprese a preferirlo a quello regolare; positiva, meglio invisibili che inesistenti, cioè meglio una retribuzione in nero che nessuna retribuzione.
Più in generale, come la fase di contrazione dei costi porta le aziende a scivolare nel lavoro sommerso, così la riduzione della capacità di spesa fa entrare le famiglie nell’economia sommersa, mediante consumi di prodotti “low cost” anche a scapito della qualità, e di prodotti contraffatti (nel 2008 il 9% degli italiani ha acquistato borse contraffatte, il 6% prodotti di abbigliamento, il 5% cd, dvd e videogiochi). E’ un invisibile quest’ultimo che troviamo per le strade e nei mercati, ha un volto spesso bisognoso di aiuto dietro il quale spesso ci sono organizzazioni delinquenziali, ma ci sono anche anomalie del sistema produttivo, ne abbiamo parlato a suo tempo dando conto di un’altra recente ricerca del Censis con l’Ares proprio su questo fenomeno.
Qualche conclusione e osservazione a margine
Il presidente Giuseppe De Rita ha tratto le conclusioni portando a sintesi le luci e ombre che abbiamo fin qui evidenziato: “Quella presentata è una realtà che funziona bene nella sua consistenza come si è venuta formando ma non ha la vitalità interna per progredire”. E ancora: “Il nostro è un sistema che ha retto per 40 anni, tra lavoro dipendente regolare e le valvole del sommerso e del terziario per l’occupazione. Oggi mostra problemi crescenti e non ha la vitalità per lo scatto necessario. Il terziario che ha sempre assorbito tutti i lavoratori generici non funziona più, è saturo, gli spazi si sono chiusi. E’ diminuita anche la caratteristica propensione ad andare in pensione in anticipo per fare un secondo lavoretto, dato che questa possibilità il mercato non la offre più”. E ha aggiunto con amara arguzia: “Tutto è invecchiato, anche le badanti”.
Non basta il “piccolo è bello” del nostro sistema di imprese che ha comunque resistito meglio di altri alla crisi: “Il ‘parva sed apta mii’ non funziona più perché consente solo di fronteggiare la situazione con l’adattamento e non di superarla andando oltre”. E così dicendo ha rinviato al quarto seminario della prima settimana di luglio per le indicazioni su come superare il galleggiamento.
Il direttore generale Roma, da noi interpellato, ci ha anticipato qualcosa. Per risolvere i problemi di mobilità occorre rimuovere i vincoli tuttora esistenti tra cui la presenza pubblica. “La flessibilità e la precarietà non garantiscono di per sé la mobilità. Il precario resta precario come il posto fisso è un impiego a vita, concetti impensabili in altri paesi. La chiave di tutto è nell’innovazione che è anche fattore di mobilità. Un sistema che non innova riesce a galleggiare ma rimane ingessato, e se non c’è circolazione non può progredire”.
Un ulteriore commento, in particolare sul sommerso, lo chiediamo a Ester Dini, che ha tenuto la relazione. Conferma che “forse dietro al drastico calo di occupazione al Sud può esservi un travaso nel sommerso”. E aggiunge un aspetto significativo, quasi paradossale: “Anche nel sommerso è calata la precarietà. Prima era una condizione ‘stabile’, dovuta all’evasione fiscale e contributiva, che garantiva il lavoro pur non tutelato, oggi neppure questo perché viene meno anche il sommerso”.
La guerra dei poveri non ha mai dei vincitori.