di Romano Maria Levante
Anche nelle mostre, come in ogni attività o espressione umana, c’è un aspetto più profondo che va oltre l’apparenza; ed è l’attitudine a stimolare la curiosità di conoscere al di là di quanto esposto e rappresentato. La volontà di saperne di più porta a riflessioni e approfondimenti. Per questo torniamo sul tema delle vignette umoristiche dopo la mostra “In nome della legge” svoltasi alla Biblioteca nazionale centrale Umberto I di Roma, dal 6 ottobre al 14 novembre 2009, a cura dell’Ufficio storico della Polizia di Stato e del Centro studi Gabriele Galantara per la satira sociale e di costume. Ha aperto una finestra sul gran numero di giornali umoristici sorti nell’’800 e nella prima parte del ‘900 impegnati nella satira al poliziotto, bersagliato dagli strali dei disegnatori; e ci ha stimolato ad approfondire l’aspetto della caricatura, su cui di norma fa leva la vignetta satirica.
I prestigiosi maestri e teorici della caricatura
Potrà sorprendere che cominciamo con Gustave Dorè, di cui sono ben note le tavole drammatiche della “Divina Commedia” e quelle eroiche del “Paradiso Perduto”, nonché quelle apocalittiche della “Bibbia” e le visioni grottesche del “Don Chisciotte”, opera nelle cui illustrazioni si avvertono tratti caricaturali. E’ sua una produzione di caricature vere e proprie, espressione grafica in stile colto e raffinato sui personaggi di Dickens e Courteline, del “Circolo Pickwick” e della “Vie de Bohème”; e in stile popolare sui tipi umani, le figure reali che incontrava nella Parigi di Napoleone III.
Altrettanto può stupire che Baudelaire, evocando le “curiosità estetiche”, vi comprendesse i caricaturisti francesi e stranieri, tra i quali troviamo nomi inattesi come Goya e Brueghel, e persino “le caricature di Leonardo da Vinci”. E’ vero che premette di “non voler scrivere un trattato sulla caricatura”; ma fa riflessioni sull’“essenza del riso e degli elementi costitutivi della caricatura”, divenute per lui “una specie di ossessione”, così organiche da farne una vera e propria teoria.
Nella caricatura Baudelaire trova “un elemento misterioso, persistente, eterno, che si raccomanda all’attenzione degli artisti”; e sottolinea come “cosa curiosa e veramente degna di attenzione che questo elemento inafferrabile del bello sia introdotto persino nelle opere destinate a mettere l’uomo di fronte alla propria bruttura morale e fisica! E, cosa non meno misteriosa, questo spettacolo pietoso eccita in lui una ilarità immortale e incorreggibile”.
Per il grande scrittore il ridere “è essenzialmente umano ed essenzialmente contraddittorio, vale a dire che di volta in volta è segno di una grandezza infinita e di una miseria infinita”. Nella comicità che suscita il riso ed è lo scopo della caricatura “l’elemento angelico e l’elemento diabolico funzionano parallelamente”. E lo spiega: “L’umanità si eleva e acquisisce per il male e l’intelligenza del male una forza proporzionale a quella che guadagna per il bene”.
Anche per questi illustri precedenti non deve sorprendere che si attribuisca alla caricatura un ruolo significativo nell’espressione artistica, di un’arte non minore o subalterna, se Leonardo è stato definito “il padre della caricatura moderna”. E si assegni ad essa un ruolo senza dubbio ancora più significativo per il manifestarsi della libertà di espressione nel senso più ampio del termine.
Ne fa fede la fioritura di caricature politiche fin dal ‘600, moltiplicatesi nell’800 e ‘900, che hanno preso a bersaglio personaggi e ideologie, soggetti e situazioni; la mostra ricordata ne ha dato uno spaccato italiano per il soggetto poliziotto e le situazioni estreme in cui è coinvolto, fissato nella storia della cultura con il Catalogo curato da Fabio Santilli, dove si analizza in modo compiuto il rapporto tra “satira e polizia tra otto e novecento” con i “complementi di ricerca” su “la figura del poliziotto nella letteratura e nel fumetto” e “origini e cambiamenti nella Polizia di Stato.
Satira alla polizia, satira al potere in generale
Una satira impersonale sul potere, viene di definirla, perché non prende di mira soggetti ben identificati, come potrebbero essere il Ministro di polizia e altri potenti; ma il poliziotto qualsiasi con un ulteriore paradosso: mentre “appare come un ottuso esecutore e mero strumento del potere” – così Antonio Laurito, direttore dell’Ufficio storico della Polizia di Stato – e, quindi, impersona il potente che lo gestisce, ne è lontano anni luce sotto il profilo antropologico e anche fisionomico.
Ecco i “giudizi autorevoli del tempo” riportati da Santilli: “Senza alcuna specializzazione tecnica, culturalmente rozzo, scelto a caso, privo di una consapevolezza sia pur rudimentale dei problemi sociali emergenti, svincolato di fatto dall’obbligo di rispettare la legge, insensibile al rispetto dei più elementari diritti di coloro che sono oggetto delle sue attenzioni, è considerato un nemico, inflessibile e spesso crudele, da cui bisogna guardarsi e così si impone, radicandosi questa immagine nella mentalità comune”. E’ un’immagine reale, dunque, quella che troviamo nella satira.
Maurizio Zinni la ripercorre attraverso le vignette pubblicate in settant’anni da una molteplicità di giornali umoristici che abbiamo già ricordato nel resoconto della mostra. Qui vogliamo approfondire una figura divenuta una maschera dalla quale dovrebbero trasparire, quasi in modo lombrosiano, i caratteri interni. I baffoni, anche se in linea con i costumi delle epoche attraversate, avevano un che di ridondante e quasi minaccioso, anche i particolari anatomici venivano ingigantiti, si parla delle braccia e delle mani, del naso e delle orecchie. Così il portamento e la positura statuaria, anche se per evidenziare di più gli sberleffi subiti: come il bimbo che fa pipì, già da noi accostato al simbolo bruxellese della trasgressione innocente ma comunque libertaria in positivo.
L’enfatizzazione dei particolari esteriori era ancora più evidente nelle cartoline satiriche, perché restavano a lungo negli scaffali e venivano conservate dai destinatari una volta spedite, per cui avevano una vita molto più lunga dei giornali. C’era una cura maggiore nell’evidenziare i segni dell’istituzione, laddove la caricatura giornalistica si soffermava essenzialmente sull’individuo.
I caratteri interni non sono monolitici, ma al poliziotto cattivo non si contrappone quello buono, il potere non lo tollererebbe. Piuttosto al poliziotto violento si affianca quello stupido e incapace, quindi si va dalla padella alla brace: l’uno è pericoloso come i delinquenti, l’altro non protegge.
Aspetto esteriore e caratteri interni attraverso la rappresentazione del loro modo di agire confluivano, perciò, nel senso di minaccia o perlomeno di sfiducia che ne derivava. In effetti era la reazione del pensiero liberale agli autoritarismi del potere, politico ed economico, che si vedeva contrapposto al semplice cittadino, oppresso ed inerme. La reazione era la satira graffiante contro chi era lo strumento di questo potere lontano e irraggiungibile, e alzava le mani sull’individuo.
Ciò che colpisce è il capovolgimento dei ruoli e dei caratteri: la satira sul poliziotto gli attribuisce tutti gli aspetti e i comportamenti che non dovrebbe avere, dato che si richiedono da lui onestà e correttezza, solerzia e sagacia perché sia all’altezza dei compiti affidatigli. Caratteri negativi evidenziati non come deviazioni occasionali, ma come radicati e diffusi, senza alcuna eccezione.
Non si limita all’oppressione e alla sbadataggine la satira sul poliziotto cattivo oppure sciocco. C’è anche la sferzante allusione ai due pesi e due misure, all’ossequio per i ricchi mentre vengono perseguitati i poveri; come all’interno della polizia l’agente corretto e moderato viene sacrificato a vantaggio di quello prevaricatore e violento. Spesso è più evidente la satira al potere che arma la mano al poliziotto, e comprime le libertà: allora si esprime senza il tramite di questa figura ma direttamente, oppure nel poliziotto visto come agente provocatore con mandanti ben precisi. C’è al riguardo una galleria di sovversivi veri o presunti ai quali si affiancano i poliziotti a loro assimilati.
Abbiamo già ricordato la satira che mette alla berlina i poliziotti senza il sorriso della caricatura ma con la forza della denuncia, così per le morti in carcere o per gli attentati terroristici, e ne abbiamo sottolineato le similitudini con episodi odierni che, però, non fanno scattare la satira quanto la mobilitazione di cittadini e politici, almeno quelli più sensibili ai diritti umani e alla sicurezza. Ma è bene che sia così, vuol dire che oggi i canali della democrazia sono agibili, e non ci si deve rifugiare nella satira per esercitare quel controllo impossibile per vie istituzionali nei sistemi autoritari.
Paradossalmente il poliziotto oggi è lasciato in pace perché la satira può puntare direttamente al potere, senza interposte persone. E anche, come hanno sottolineato le alte autorità della polizia – e lo abbiamo già ricordato – per l’evoluzione che ha avuto questo corpo, anch’essa in linea con il radicamento sempre più solido e stabile della democrazia: evoluzione nel ruolo e nel personale.
Come passaggio intermedio tra il poliziotto bersagliato e il poliziotto ignorato dalla satira c’è stata la sua assimilazione agli altri sfruttati e angariati dal potere. Figli del popolo anche loro, come del resto qualche decennio dopo constaterà Pasolini con la sua lungimirante lettura dei cambiamenti nella società italiana dove la polizia non era più espressione del potere; lo erano di più i giovani manifestanti ai quali doveva opporsi, in quanto rampolli viziati dei grandi potenti dell’economia e della finanza, e in generale della ricca borghesia, che sfogavano nelle piazze le loro allucinazioni.
In effetti ci fu anche una presa di coscienza dell’inadeguatezza delle forze di polizia ai propri compiti proprio per le carenze di preparazione e istruzione che la satira aveva preso a bersaglio ingigantendole ma che esistevano veramente. Fu migliorata l’integrazione nella realtà urbana del poliziotto proveniente dalla campagna, mediante corsi di formazione e di addestramento, si elaborarono disegni di legge di riordino del corpo di Polizia. Il Ministero dell’interno, per migliorare “la loro posizione specialmente morale”, prese una decisione: “Liberarli da tutti quei servizi che, pur essendo indispensabili, menomano la loro autorità in faccia alla pubblica opinione”.
Fu creato addirittura, per tali servizi, un nuovo corpo, “le guardie ausiliarie, con ferma di un anno”, così il Manuale del Funzionario di sicurezza pubblica di polizia giudiziaria” del 1887. La satira aveva vinto. .Non solo aveva mosso le coscienze, aveva prodotto anche effetti concreti. E positivi.
Siamo tornati sulla satira al poliziotto – della quale nel nostro recente commento alla mostra abbiamo percorso una ricca galleria di vignette e disegni satirici – per completezza e per dare il giusto merito a un’importante tessera nel mosaico della caricatura e della storia del costume.
Aggiungiamo un’altra piccola tessera, che riguarda il livello internazionale, accennando alla guerra di caricature tra disegnatori satirici inglesi e francesi sull’“Intesa cordiale”. Ci fu una vera e propria offensiva dei caricaturisti nei confronti di Napoleone, dileggiato in modo feroce quanto equanime da inglesi e francesi, nelle forme più disparate.
Nell’ultimo periodo, 1814-15, è ricorrente raffigurarlo nelle vesti del diavolo, o sulla sua groppa, o tra le sue braccia come infante oppure gettatovi dalla morte, fino alla discesa agli inferi con i propri seguaci; prima il dileggio era meno crudo, ma altrettanto sferzante, come le sculacciate a un Napoleone monello in una vignetta del 1803.
Anche Chamberlin fu bersagliato dalla caricatura fino ad essere raffigurato con la falce sterminatrice su un campo di cadaveri, e la stessa morte di Rodhes fu salutata ritraendolo nel “giacimento di teschi” dei boeri da lui fatti massacrare. Il nostro poliziotto era in buona compagnia.
Dalla caricatura al disegno satirico
Diego Buzzalino l’ha analizzata tecnicamente, selezionandola come sul tavolo anatomico, e nel suo “La caricatura meccanica: Teoria e pratica”, del 1948, ha scritto: “La caricatura non trema. Sfida i governi e ne mostra i tarli. Ascolta i popoli e ne formola i voti. Sempre e dovunque con il miracolo del riso. Riso amaro o beffardo, volgare o violento.
Sempre! Riso, cifrario del mistero umano; riso, erma bifronte del travaglio quotidiano; riso, singulto, arcano disprezzo, forma veneranda dell’ingiuria. Riso, riso, riso”. Per concludere così dopo l’elogio del riso: “Substrato della caricatura è l’umorismo. L’umorismo è la poesia del riso lievitata ai fermenti del ridicolo mordace. Parla al cuore ed al cervello, lenisce ed incenerisce”.
Della satira di costume scrive che “le piaghe del proprio tempo sono denudate. E si ride. Ma quel riso è detergente. Quel riso fa guardare intorno a sé, fa guardare in sé. E redime”. La dissacrazione è scherzosa e beffarda e assolve a un compito fondamentale: “castigat ridendo mores”. E’ anche un fatto di cultura, esprime libertà di pensiero e di critica, fruga nei ripostigli nascosti della società superando la coltre spesso soffocante di perbenismo.
Perciò l’associazione culturale “L’oleandro” di Brescia, nelle edizioni del “Festival dell’Umorismo Riviera del Garda”, con la direzione artistica del grande Osvaldo Cavandoli, oltre alla Sezione letteratura, ha dato speciale rilievo alla Sezione grafica, con la partecipazione di centinaia di disegnatori satirici italiani e stranieri e di migliaia di visitatori alla mostra delle opere presentate.
Ed è istruttivo leggere come “L’oleandro” interpreti i disegni umoristici nella presentazione del volume del 1994, primo anno della rassegna: “In essi traspare la coesistenza più o meno pacifica dei contrari insiti in quasi tutte le cose umane, per cui si viene a scoprire il comico nel tragico e nel solenne, e il tragico e il solenne nel comico, la saggezza nella follia e viceversa”. Riguardo alla resa grafica aggiunge: “In talune opere caricaturali i personaggi colti con l’enfatizzazione fisionomica sono restituito con tratti rapidi e secchi, nei loro atteggiamenti più espressivi, con grande ironia, con segno perentorio e icastico: risultato di tecniche raffinatissime, messe a servizio della straordinaria capacità di leggere fuori e dentro l’animo umano”. Per concludere: “Anche la semplicità di certi disegni è frutto di un complicato processo di segnali coordinatamente trasmessi che vuole risolversi in una coraggiosa sintesi formale, a tratti persino ardita viso il pubblico generalmente popolare”, Definizioni che, com’è naturale, sono applicabili all’intera produzione umoristica e satirica.
La caricatura in senso stretto risponde di fatto alla libertà di reinterpretare graficamente con tratti grotteschi le sembianze del personaggio; non per far leva sui suoi difetti fisici ma per esasperarne, deformandole, le peculiarità in modo da metterne a nudo l’essenza. Collegando sempre più queste particolarità al contesto, si è passati al disegno satirico e l’espressione caricaturale ha trovato nella vignetta politica il suo ideale terreno di coltura; un vero e proprio lievito che ne ha accresciuto l’impatto e il valore. Così la vignetta politica non va più ricercata nelle riviste umoristiche, rarefattesi fino a scomparire, ma si trova nelle prime pagine dei grandi quotidiani d’opinione.
Oggi si parla meno di caricatura e molto più di disegno satirico, di espressione caricaturale nella vignetta politica. Sono varianti grafiche della satira i cui confini spesso vengono superati per cui si passa facilmente dall’una all’altra, l’umorista puro diventa satirico soprattutto quando si indigna.
Scrive Fabio Santilli nel citato catalogo “In nome della legge”: “Il buon disegnatore satirico è certamente un raffinato artista della comunicazione che, al contrario di quanto si creda comunemente, non si pone l’obiettivo di far ridere. Quello è l’obiettivo del comico”. E lo precisa così: “Il satirico si pone innanzi tutto l’obiettivo di far riflettere mediante lo smascheramento delle contraddizioni.
Per questo fine il satirico usa sovente l’arma della caricatura (che non deve essere confusa col ‘ritratto caricaturale’) cioè una forma di rappresentazione che utilizza lo stravolgimento abnorme e grottesco di personaggi, azioni o situazioni attraverso la scientifica e premeditata alterazione delle loro caratteristiche intrinseche ed estrinseche per far emergere le qualità morali dell’oggetto ‘caricato’ (sia esso personaggio, azione o situazione) sulla base del personale codice etico dell’artista”. Santilli fa anche una netta distinzione: “In questo senso si comprende perfettamente la differenza con il ritratto caricaturale che, infatti, generalmente non ha alcuno scopo derisorio o moralizzatore, consistendo essenzialmente nell’accentuazione di quegli elementi fisionomici che caratterizzano il soggetto ritratto e che solo il vero artista sa cogliere”.
Aggiunge Maurizio Zinni nel ricercare le radici dello stereotipo negativo del poliziotto: “La grafica satirica, per sua stessa natura, maschera, asciuga, esaspera i temi da essa affrontati. Non vuol essere obiettiva, tutt’altro: è sbilanciata in un senso o nell’altro, ferocemente di parte e per questo non indietreggia di fronte a nulla, si burla di situazioni estreme, nascondendo spesso le lacrime sotto un riso più di pancia che di testa”.
E spiega come avviene tutto questo: “Le vignette accentuano caricaturalmente e allegorizzano il soggetto dileggiato costringendo il lettore ad una doppia azione: da un lato prendere le distanze da quanto mostrato, dalla realtà descritta; dall’altro, obbligarlo a mantenere sul mondo circostante uno sguardo dritto e impietoso, capace di decrittare l’essenza del visibile e di decifrarne i diversi gradi della rappresentazione grafica.”. Così viene visto, in definitiva, il contenuto della satira: “Apparentemente, quindi, solo una rappresentazione faziosa dell’oggetto criticato, a ben guardare, invece, uno specchio di umori diffusi e speso repressi, distillati con sapiente abilità a diversi livelli di comprensione e lettura dai disegnatori satirici”.
Della caricatura c’è una definizione all’inizio del ‘900 di Luigi Rasi, attore, drammaturgo e storico del teatro la cui collezione di documenti e cimeli è stato il primo nucleo della grande biblioteca e raccolta teatrale del Burcardo a Roma, ne abbiamo parlato di recente: “E’ l’arte di dire le cose più atroci di questo mondo col mezzo della immagine a una persona, senza che questa se ne offenda, per modo anzi che se ne compiaccia; anzi: per modo che, più atroci sono le cose dette, più grande ne sia il compiacimento”. Rasi si era illuso o aveva sottovalutato la reazione che può suscitare la vera satira, quando non solletica la vanità dei protagonisti di apparire con mere deformazioni di facciata, ma “castiga” con essi un costume, soprattutto se si tratta di costume politico, anche ricorrendo nella rappresentazione esteriore a iperboli paradossali del tutto diverse dalla realtà che si intende evocare. E forse si era illuso anche Baudelaire quando scriveva: “Il riso causato dal grottesco ha in sé qualcosa di profondo, di assiomatico e di primitivo, che si riavvicina alla vita innocente e alla gioia assoluta molto di più del riso causato dalla comicità di maniera”.
Tutto questo porta a valorizzare quanto in passato era visto un “divertissement” fine a se stesso, per cui si parlava di caricatura piuttosto che di satira, come se fosse un gioco grafico volutamente deformante di una realtà invece ordinata e compiuta. Gli artisti di strada i quali fanno caricature dei passanti che si sottopongono ai loro schizzi non vogliono evocare realtà nascoste, ma esagerare quelle evidenti con un compiacimento dell’amplificazione che ha in sé la propria giustificazione.
La caricatura del personaggio, tanto più se politico, invece, fin dai tempi passati, cercava di rappresentare con la deformazione del tratto esteriore la vera essenza del carattere, del ruolo, dell’azione del soggetto. E quando ad essa si è aggiunto il contesto in cui si muove nel più ampio spazio della vignetta, questo intento è diventato esplicito e trasparente senza che la caricatura, rimasta alla base, cessasse di identificare nell’immediato i tratti del soggetto. Considerati, però, non come fattezze da riprodurre bensì come espressioni di una visione del tutto soggettiva dell’umorista.
Anche certi caratteri somatici e l’abbigliamento portati all’estremo hanno caricato di comicità il soggetto reso immediatamente riconoscibile nella sua essenza satirica. Il maestro è sempre Forattini, con il suo duce e la sua scimmia, il suo barone in pantofole fino al premier senza volto, segni identificativi folgoranti di noti personaggio e nel contempo dei loro caratteri. Deformati, sì, ma per portarli all’essenza vista dall’autore in estrema sintesi: del resto, non ebbe a dire Pablo Picasso che “l’umorismo è l’unico filo conduttore, immediato e irreversibile, verso la strada della verità”?
A questo punto non suscitano più il sorriso nel soggetto bersagliato e neppure il riso nei destinatari della comunicazione. Santilli è molto esplicito: “Credo che sia ormai chiaro che la satira non vuole divertire. Le caricature di Goya non fanno ridere per nulla, quelle di Daumier molto raramente, quelle del nostro Scalarini meno che mai. Anche le figure grottesche di Galantara difficilmente strappano un sorriso”. Però non finisce qui. Sempre secondo Santilli, “la volontà ribelle della satira può trovare anche canali alternativi di espressione e, prima di tutto, di comunicazione”. E come? “Trovandosi in quella paludosa disposizione mentale in cui s’incontrano la commedia e la tragedia, la satira per raggiungere i suoi scopi può decidere di utilizzare – anche attraverso l’uso spregiudicato della caricatura e della sua carica trasgressiva – l’arma della comicità, del buffonesco, della risata devastante e ‘terribile’ che tutti i potenti temono”.
Il discorso si fa delicato quando si passa dalla teoria alla pratica, dalle generose impostazioni alla cruda realtà. Perché in alcuni casi eclatanti si è constatato che il vecchio avvertimento “chi tocca i fili muore” può valere anche, e forse soprattutto, per la politica. E’ il caso di tornarci presto. L’appuntamento è per delle storie esemplari, e quel che più conta, vere.
Tag: Satira
1 Commento
- Fabrizio Iacovoni
Postato gennaio 9, 2010 alle 10:15 AM
Articolo interessante dell’amico R.M. Levante
che anche per le cose apparentemente futili
si rivela un ottimo divulgatore e trasmette cul-
tura. Il sottoscritto non ha riso mai per le
barzellette sui carabinieri ritenendole vol-
gari e razziste. Mi considero un precursore
di Pasolini, la cui citazione di Levante mi e’
molto piaciuta. E stando ai giorni nostri
ritengo volgare Forattini quando ,forse-
esaurita la vena umoristica,rappresenta in
forma animalesca(scimmia, rinoceronte..) certi
politici.
Caricatura, nella storia, fino al disegno satirico
di Romano Maria Levante
Anche nelle mostre, come in ogni attività o espressione umana, c’è un aspetto più profondo che va oltre l’apparenza; ed è l’attitudine a stimolare la curiosità di conoscere al di là di quanto esposto e rappresentato. La volontà di saperne di più porta a riflessioni e approfondimenti. Per questo torniamo sul tema delle vignette umoristiche dopo la mostra “In nome della legge” svoltasi alla Biblioteca nazionale centrale Umberto I di Roma, dal 6 ottobre al 14 novembre 2009, a cura dell’Ufficio storico della Polizia di Stato e del Centro studi Gabriele Galantara per la satira sociale e di costume. Ha aperto una finestra sul gran numero di giornali umoristici sorti nell’’800 e nella prima parte del ‘900 impegnati nella satira al poliziotto, bersagliato dagli strali dei disegnatori; e ci ha stimolato ad approfondire l’aspetto della caricatura, su cui di norma fa leva la vignetta satirica.
I prestigiosi maestri e teorici della caricatura
Potrà sorprendere che cominciamo con Gustave Dorè, di cui sono ben note le tavole drammatiche della “Divina Commedia” e quelle eroiche del “Paradiso Perduto”, nonché quelle apocalittiche della “Bibbia” e le visioni grottesche del “Don Chisciotte”, opera nelle cui illustrazioni si avvertono tratti caricaturali. E’ sua una produzione di caricature vere e proprie, espressione grafica in stile colto e raffinato sui personaggi di Dickens e Courteline, del “Circolo Pickwick” e della “Vie de Bohème”; e in stile popolare sui tipi umani, le figure reali che incontrava nella Parigi di Napoleone III.
Altrettanto può stupire che Baudelaire, evocando le “curiosità estetiche”, vi comprendesse i caricaturisti francesi e stranieri, tra i quali troviamo nomi inattesi come Goya e Brueghel, e persino “le caricature di Leonardo da Vinci”. E’ vero che premette di “non voler scrivere un trattato sulla caricatura”; ma fa riflessioni sull’“essenza del riso e degli elementi costitutivi della caricatura”, divenute per lui “una specie di ossessione”, così organiche da farne una vera e propria teoria.
Nella caricatura Baudelaire trova “un elemento misterioso, persistente, eterno, che si raccomanda all’attenzione degli artisti”; e sottolinea come “cosa curiosa e veramente degna di attenzione che questo elemento inafferrabile del bello sia introdotto persino nelle opere destinate a mettere l’uomo di fronte alla propria bruttura morale e fisica! E, cosa non meno misteriosa, questo spettacolo pietoso eccita in lui una ilarità immortale e incorreggibile”.
Per il grande scrittore il ridere “è essenzialmente umano ed essenzialmente contraddittorio, vale a dire che di volta in volta è segno di una grandezza infinita e di una miseria infinita”. Nella comicità che suscita il riso ed è lo scopo della caricatura “l’elemento angelico e l’elemento diabolico funzionano parallelamente”. E lo spiega: “L’umanità si eleva e acquisisce per il male e l’intelligenza del male una forza proporzionale a quella che guadagna per il bene”.
Anche per questi illustri precedenti non deve sorprendere che si attribuisca alla caricatura un ruolo significativo nell’espressione artistica, di un’arte non minore o subalterna, se Leonardo è stato definito “il padre della caricatura moderna”. E si assegni ad essa un ruolo senza dubbio ancora più significativo per il manifestarsi della libertà di espressione nel senso più ampio del termine.
Ne fa fede la fioritura di caricature politiche fin dal ‘600, moltiplicatesi nell’800 e ‘900, che hanno preso a bersaglio personaggi e ideologie, soggetti e situazioni; la mostra ricordata ne ha dato uno spaccato italiano per il soggetto poliziotto e le situazioni estreme in cui è coinvolto, fissato nella storia della cultura con il Catalogo curato da Fabio Santilli, dove si analizza in modo compiuto il rapporto tra “satira e polizia tra otto e novecento” con i “complementi di ricerca” su “la figura del poliziotto nella letteratura e nel fumetto” e “origini e cambiamenti nella Polizia di Stato.
Satira alla polizia, satira al potere in generale
Una satira impersonale sul potere, viene di definirla, perché non prende di mira soggetti ben identificati, come potrebbero essere il Ministro di polizia e altri potenti; ma il poliziotto qualsiasi con un ulteriore paradosso: mentre “appare come un ottuso esecutore e mero strumento del potere” – così Antonio Laurito, direttore dell’Ufficio storico della Polizia di Stato – e, quindi, impersona il potente che lo gestisce, ne è lontano anni luce sotto il profilo antropologico e anche fisionomico.
Ecco i “giudizi autorevoli del tempo” riportati da Santilli: “Senza alcuna specializzazione tecnica, culturalmente rozzo, scelto a caso, privo di una consapevolezza sia pur rudimentale dei problemi sociali emergenti, svincolato di fatto dall’obbligo di rispettare la legge, insensibile al rispetto dei più elementari diritti di coloro che sono oggetto delle sue attenzioni, è considerato un nemico, inflessibile e spesso crudele, da cui bisogna guardarsi e così si impone, radicandosi questa immagine nella mentalità comune”. E’ un’immagine reale, dunque, quella che troviamo nella satira.
Maurizio Zinni la ripercorre attraverso le vignette pubblicate in settant’anni da una molteplicità di giornali umoristici che abbiamo già ricordato nel resoconto della mostra. Qui vogliamo approfondire una figura divenuta una maschera dalla quale dovrebbero trasparire, quasi in modo lombrosiano, i caratteri interni. I baffoni, anche se in linea con i costumi delle epoche attraversate, avevano un che di ridondante e quasi minaccioso, anche i particolari anatomici venivano ingigantiti, si parla delle braccia e delle mani, del naso e delle orecchie. Così il portamento e la positura statuaria, anche se per evidenziare di più gli sberleffi subiti: come il bimbo che fa pipì, già da noi accostato al simbolo bruxellese della trasgressione innocente ma comunque libertaria in positivo.
L’enfatizzazione dei particolari esteriori era ancora più evidente nelle cartoline satiriche, perché restavano a lungo negli scaffali e venivano conservate dai destinatari una volta spedite, per cui avevano una vita molto più lunga dei giornali. C’era una cura maggiore nell’evidenziare i segni dell’istituzione, laddove la caricatura giornalistica si soffermava essenzialmente sull’individuo.
I caratteri interni non sono monolitici, ma al poliziotto cattivo non si contrappone quello buono, il potere non lo tollererebbe. Piuttosto al poliziotto violento si affianca quello stupido e incapace, quindi si va dalla padella alla brace: l’uno è pericoloso come i delinquenti, l’altro non protegge.
Aspetto esteriore e caratteri interni attraverso la rappresentazione del loro modo di agire confluivano, perciò, nel senso di minaccia o perlomeno di sfiducia che ne derivava. In effetti era la reazione del pensiero liberale agli autoritarismi del potere, politico ed economico, che si vedeva contrapposto al semplice cittadino, oppresso ed inerme. La reazione era la satira graffiante contro chi era lo strumento di questo potere lontano e irraggiungibile, e alzava le mani sull’individuo.
Ciò che colpisce è il capovolgimento dei ruoli e dei caratteri: la satira sul poliziotto gli attribuisce tutti gli aspetti e i comportamenti che non dovrebbe avere, dato che si richiedono da lui onestà e correttezza, solerzia e sagacia perché sia all’altezza dei compiti affidatigli. Caratteri negativi evidenziati non come deviazioni occasionali, ma come radicati e diffusi, senza alcuna eccezione.
Non si limita all’oppressione e alla sbadataggine la satira sul poliziotto cattivo oppure sciocco. C’è anche la sferzante allusione ai due pesi e due misure, all’ossequio per i ricchi mentre vengono perseguitati i poveri; come all’interno della polizia l’agente corretto e moderato viene sacrificato a vantaggio di quello prevaricatore e violento. Spesso è più evidente la satira al potere che arma la mano al poliziotto, e comprime le libertà: allora si esprime senza il tramite di questa figura ma direttamente, oppure nel poliziotto visto come agente provocatore con mandanti ben precisi. C’è al riguardo una galleria di sovversivi veri o presunti ai quali si affiancano i poliziotti a loro assimilati.
Abbiamo già ricordato la satira che mette alla berlina i poliziotti senza il sorriso della caricatura ma con la forza della denuncia, così per le morti in carcere o per gli attentati terroristici, e ne abbiamo sottolineato le similitudini con episodi odierni che, però, non fanno scattare la satira quanto la mobilitazione di cittadini e politici, almeno quelli più sensibili ai diritti umani e alla sicurezza. Ma è bene che sia così, vuol dire che oggi i canali della democrazia sono agibili, e non ci si deve rifugiare nella satira per esercitare quel controllo impossibile per vie istituzionali nei sistemi autoritari.
Paradossalmente il poliziotto oggi è lasciato in pace perché la satira può puntare direttamente al potere, senza interposte persone. E anche, come hanno sottolineato le alte autorità della polizia – e lo abbiamo già ricordato – per l’evoluzione che ha avuto questo corpo, anch’essa in linea con il radicamento sempre più solido e stabile della democrazia: evoluzione nel ruolo e nel personale.
Come passaggio intermedio tra il poliziotto bersagliato e il poliziotto ignorato dalla satira c’è stata la sua assimilazione agli altri sfruttati e angariati dal potere. Figli del popolo anche loro, come del resto qualche decennio dopo constaterà Pasolini con la sua lungimirante lettura dei cambiamenti nella società italiana dove la polizia non era più espressione del potere; lo erano di più i giovani manifestanti ai quali doveva opporsi, in quanto rampolli viziati dei grandi potenti dell’economia e della finanza, e in generale della ricca borghesia, che sfogavano nelle piazze le loro allucinazioni.
In effetti ci fu anche una presa di coscienza dell’inadeguatezza delle forze di polizia ai propri compiti proprio per le carenze di preparazione e istruzione che la satira aveva preso a bersaglio ingigantendole ma che esistevano veramente. Fu migliorata l’integrazione nella realtà urbana del poliziotto proveniente dalla campagna, mediante corsi di formazione e di addestramento, si elaborarono disegni di legge di riordino del corpo di Polizia. Il Ministero dell’interno, per migliorare “la loro posizione specialmente morale”, prese una decisione: “Liberarli da tutti quei servizi che, pur essendo indispensabili, menomano la loro autorità in faccia alla pubblica opinione”.
Fu creato addirittura, per tali servizi, un nuovo corpo, “le guardie ausiliarie, con ferma di un anno”, così il Manuale del Funzionario di sicurezza pubblica di polizia giudiziaria” del 1887. La satira aveva vinto. .Non solo aveva mosso le coscienze, aveva prodotto anche effetti concreti. E positivi.
Siamo tornati sulla satira al poliziotto – della quale nel nostro recente commento alla mostra abbiamo percorso una ricca galleria di vignette e disegni satirici – per completezza e per dare il giusto merito a un’importante tessera nel mosaico della caricatura e della storia del costume.
Aggiungiamo un’altra piccola tessera, che riguarda il livello internazionale, accennando alla guerra di caricature tra disegnatori satirici inglesi e francesi sull’“Intesa cordiale”. Ci fu una vera e propria offensiva dei caricaturisti nei confronti di Napoleone, dileggiato in modo feroce quanto equanime da inglesi e francesi, nelle forme più disparate.
Nell’ultimo periodo, 1814-15, è ricorrente raffigurarlo nelle vesti del diavolo, o sulla sua groppa, o tra le sue braccia come infante oppure gettatovi dalla morte, fino alla discesa agli inferi con i propri seguaci; prima il dileggio era meno crudo, ma altrettanto sferzante, come le sculacciate a un Napoleone monello in una vignetta del 1803.
Anche Chamberlin fu bersagliato dalla caricatura fino ad essere raffigurato con la falce sterminatrice su un campo di cadaveri, e la stessa morte di Rodhes fu salutata ritraendolo nel “giacimento di teschi” dei boeri da lui fatti massacrare. Il nostro poliziotto era in buona compagnia.
Dalla caricatura al disegno satirico
Diego Buzzalino l’ha analizzata tecnicamente, selezionandola come sul tavolo anatomico, e nel suo “La caricatura meccanica: Teoria e pratica”, del 1948, ha scritto: “La caricatura non trema. Sfida i governi e ne mostra i tarli. Ascolta i popoli e ne formola i voti. Sempre e dovunque con il miracolo del riso. Riso amaro o beffardo, volgare o violento.
Sempre! Riso, cifrario del mistero umano; riso, erma bifronte del travaglio quotidiano; riso, singulto, arcano disprezzo, forma veneranda dell’ingiuria. Riso, riso, riso”. Per concludere così dopo l’elogio del riso: “Substrato della caricatura è l’umorismo. L’umorismo è la poesia del riso lievitata ai fermenti del ridicolo mordace. Parla al cuore ed al cervello, lenisce ed incenerisce”.
Della satira di costume scrive che “le piaghe del proprio tempo sono denudate. E si ride. Ma quel riso è detergente. Quel riso fa guardare intorno a sé, fa guardare in sé. E redime”. La dissacrazione è scherzosa e beffarda e assolve a un compito fondamentale: “castigat ridendo mores”. E’ anche un fatto di cultura, esprime libertà di pensiero e di critica, fruga nei ripostigli nascosti della società superando la coltre spesso soffocante di perbenismo.
Perciò l’associazione culturale “L’oleandro” di Brescia, nelle edizioni del “Festival dell’Umorismo Riviera del Garda”, con la direzione artistica del grande Osvaldo Cavandoli, oltre alla Sezione letteratura, ha dato speciale rilievo alla Sezione grafica, con la partecipazione di centinaia di disegnatori satirici italiani e stranieri e di migliaia di visitatori alla mostra delle opere presentate.
Ed è istruttivo leggere come “L’oleandro” interpreti i disegni umoristici nella presentazione del volume del 1994, primo anno della rassegna: “In essi traspare la coesistenza più o meno pacifica dei contrari insiti in quasi tutte le cose umane, per cui si viene a scoprire il comico nel tragico e nel solenne, e il tragico e il solenne nel comico, la saggezza nella follia e viceversa”. Riguardo alla resa grafica aggiunge: “In talune opere caricaturali i personaggi colti con l’enfatizzazione fisionomica sono restituito con tratti rapidi e secchi, nei loro atteggiamenti più espressivi, con grande ironia, con segno perentorio e icastico: risultato di tecniche raffinatissime, messe a servizio della straordinaria capacità di leggere fuori e dentro l’animo umano”. Per concludere: “Anche la semplicità di certi disegni è frutto di un complicato processo di segnali coordinatamente trasmessi che vuole risolversi in una coraggiosa sintesi formale, a tratti persino ardita viso il pubblico generalmente popolare”, Definizioni che, com’è naturale, sono applicabili all’intera produzione umoristica e satirica.
La caricatura in senso stretto risponde di fatto alla libertà di reinterpretare graficamente con tratti grotteschi le sembianze del personaggio; non per far leva sui suoi difetti fisici ma per esasperarne, deformandole, le peculiarità in modo da metterne a nudo l’essenza. Collegando sempre più queste particolarità al contesto, si è passati al disegno satirico e l’espressione caricaturale ha trovato nella vignetta politica il suo ideale terreno di coltura; un vero e proprio lievito che ne ha accresciuto l’impatto e il valore. Così la vignetta politica non va più ricercata nelle riviste umoristiche, rarefattesi fino a scomparire, ma si trova nelle prime pagine dei grandi quotidiani d’opinione.
Oggi si parla meno di caricatura e molto più di disegno satirico, di espressione caricaturale nella vignetta politica. Sono varianti grafiche della satira i cui confini spesso vengono superati per cui si passa facilmente dall’una all’altra, l’umorista puro diventa satirico soprattutto quando si indigna.
Scrive Fabio Santilli nel citato catalogo “In nome della legge”: “Il buon disegnatore satirico è certamente un raffinato artista della comunicazione che, al contrario di quanto si creda comunemente, non si pone l’obiettivo di far ridere. Quello è l’obiettivo del comico”. E lo precisa così: “Il satirico si pone innanzi tutto l’obiettivo di far riflettere mediante lo smascheramento delle contraddizioni.
Per questo fine il satirico usa sovente l’arma della caricatura (che non deve essere confusa col ‘ritratto caricaturale’) cioè una forma di rappresentazione che utilizza lo stravolgimento abnorme e grottesco di personaggi, azioni o situazioni attraverso la scientifica e premeditata alterazione delle loro caratteristiche intrinseche ed estrinseche per far emergere le qualità morali dell’oggetto ‘caricato’ (sia esso personaggio, azione o situazione) sulla base del personale codice etico dell’artista”. Santilli fa anche una netta distinzione: “In questo senso si comprende perfettamente la differenza con il ritratto caricaturale che, infatti, generalmente non ha alcuno scopo derisorio o moralizzatore, consistendo essenzialmente nell’accentuazione di quegli elementi fisionomici che caratterizzano il soggetto ritratto e che solo il vero artista sa cogliere”.
Aggiunge Maurizio Zinni nel ricercare le radici dello stereotipo negativo del poliziotto: “La grafica satirica, per sua stessa natura, maschera, asciuga, esaspera i temi da essa affrontati. Non vuol essere obiettiva, tutt’altro: è sbilanciata in un senso o nell’altro, ferocemente di parte e per questo non indietreggia di fronte a nulla, si burla di situazioni estreme, nascondendo spesso le lacrime sotto un riso più di pancia che di testa”.
E spiega come avviene tutto questo: “Le vignette accentuano caricaturalmente e allegorizzano il soggetto dileggiato costringendo il lettore ad una doppia azione: da un lato prendere le distanze da quanto mostrato, dalla realtà descritta; dall’altro, obbligarlo a mantenere sul mondo circostante uno sguardo dritto e impietoso, capace di decrittare l’essenza del visibile e di decifrarne i diversi gradi della rappresentazione grafica.”. Così viene visto, in definitiva, il contenuto della satira: “Apparentemente, quindi, solo una rappresentazione faziosa dell’oggetto criticato, a ben guardare, invece, uno specchio di umori diffusi e speso repressi, distillati con sapiente abilità a diversi livelli di comprensione e lettura dai disegnatori satirici”.
Della caricatura c’è una definizione all’inizio del ‘900 di Luigi Rasi, attore, drammaturgo e storico del teatro la cui collezione di documenti e cimeli è stato il primo nucleo della grande biblioteca e raccolta teatrale del Burcardo a Roma, ne abbiamo parlato di recente: “E’ l’arte di dire le cose più atroci di questo mondo col mezzo della immagine a una persona, senza che questa se ne offenda, per modo anzi che se ne compiaccia; anzi: per modo che, più atroci sono le cose dette, più grande ne sia il compiacimento”. Rasi si era illuso o aveva sottovalutato la reazione che può suscitare la vera satira, quando non solletica la vanità dei protagonisti di apparire con mere deformazioni di facciata, ma “castiga” con essi un costume, soprattutto se si tratta di costume politico, anche ricorrendo nella rappresentazione esteriore a iperboli paradossali del tutto diverse dalla realtà che si intende evocare. E forse si era illuso anche Baudelaire quando scriveva: “Il riso causato dal grottesco ha in sé qualcosa di profondo, di assiomatico e di primitivo, che si riavvicina alla vita innocente e alla gioia assoluta molto di più del riso causato dalla comicità di maniera”.
Tutto questo porta a valorizzare quanto in passato era visto un “divertissement” fine a se stesso, per cui si parlava di caricatura piuttosto che di satira, come se fosse un gioco grafico volutamente deformante di una realtà invece ordinata e compiuta. Gli artisti di strada i quali fanno caricature dei passanti che si sottopongono ai loro schizzi non vogliono evocare realtà nascoste, ma esagerare quelle evidenti con un compiacimento dell’amplificazione che ha in sé la propria giustificazione.
La caricatura del personaggio, tanto più se politico, invece, fin dai tempi passati, cercava di rappresentare con la deformazione del tratto esteriore la vera essenza del carattere, del ruolo, dell’azione del soggetto. E quando ad essa si è aggiunto il contesto in cui si muove nel più ampio spazio della vignetta, questo intento è diventato esplicito e trasparente senza che la caricatura, rimasta alla base, cessasse di identificare nell’immediato i tratti del soggetto. Considerati, però, non come fattezze da riprodurre bensì come espressioni di una visione del tutto soggettiva dell’umorista.
Anche certi caratteri somatici e l’abbigliamento portati all’estremo hanno caricato di comicità il soggetto reso immediatamente riconoscibile nella sua essenza satirica. Il maestro è sempre Forattini, con il suo duce e la sua scimmia, il suo barone in pantofole fino al premier senza volto, segni identificativi folgoranti di noti personaggio e nel contempo dei loro caratteri. Deformati, sì, ma per portarli all’essenza vista dall’autore in estrema sintesi: del resto, non ebbe a dire Pablo Picasso che “l’umorismo è l’unico filo conduttore, immediato e irreversibile, verso la strada della verità”?
A questo punto non suscitano più il sorriso nel soggetto bersagliato e neppure il riso nei destinatari della comunicazione. Santilli è molto esplicito: “Credo che sia ormai chiaro che la satira non vuole divertire. Le caricature di Goya non fanno ridere per nulla, quelle di Daumier molto raramente, quelle del nostro Scalarini meno che mai. Anche le figure grottesche di Galantara difficilmente strappano un sorriso”. Però non finisce qui. Sempre secondo Santilli, “la volontà ribelle della satira può trovare anche canali alternativi di espressione e, prima di tutto, di comunicazione”. E come? “Trovandosi in quella paludosa disposizione mentale in cui s’incontrano la commedia e la tragedia, la satira per raggiungere i suoi scopi può decidere di utilizzare – anche attraverso l’uso spregiudicato della caricatura e della sua carica trasgressiva – l’arma della comicità, del buffonesco, della risata devastante e ‘terribile’ che tutti i potenti temono”.
Il discorso si fa delicato quando si passa dalla teoria alla pratica, dalle generose impostazioni alla cruda realtà. Perché in alcuni casi eclatanti si è constatato che il vecchio avvertimento “chi tocca i fili muore” può valere anche, e forse soprattutto, per la politica. E’ il caso di tornarci presto. L’appuntamento è per delle storie esemplari, e quel che più conta, vere.
Tag: Satira
1 Commento
- Fabrizio Iacovoni
Postato gennaio 9, 2010 alle 10:15 AM
Articolo interessante dell’amico R.M. Levante
che anche per le cose apparentemente futili
si rivela un ottimo divulgatore e trasmette cul-
tura. Il sottoscritto non ha riso mai per le
barzellette sui carabinieri ritenendole vol-
gari e razziste. Mi considero un precursore
di Pasolini, la cui citazione di Levante mi e’
molto piaciuta. E stando ai giorni nostri
ritengo volgare Forattini quando ,forse-
esaurita la vena umoristica,rappresenta in
forma animalesca(scimmia, rinoceronte..) certi
politici.