di Romano Maria Levante
A Roma, Galleria Borghese, fino al 24 gennaio 2010 visita ai dipinti di Caravaggio e Bacon esposti negli splendidi saloni in un contrappunto ideale tra le geometrie dello spazio, le luci con le ombre e le corporeità distanti quattro secoli. Proseguiamo con i dipinti di Caravaggio: figure e composizioni.
Visitiamo la mostra dopo aver ripercorso i capisaldi della vita e dell’arte dei due protagonisti ed esserci fatta una visione personale di cui abbiamo dato conto di recente. La verificheremo di volta in volta dinanzi alle opere esposte intendendo riferirci, senza ripeterle, alle considerazioni già avanzate. Non abbiamo preoccupazioni di ortodossia critica, tanto più che dichiaratamente la mostra “non è un’esposizione sulla storia dell’arte, ma l’invito a compiere un’esperienza estetica”. E’questo, in fondo, il percorso che preferiamo, ci piace osservare e narrare ciò che abbiamo visto senza preconcetti, pronti a mutare convincimenti pregressi, secondo la grande lezione di Montanelli.
Gli accostamenti evitati in sede di presentazione e di guida alla mostra non sarebbe possibile farli direttamente, anche se lo si volesse: non a caso ma per una scelta coerente, i due Maestri sono su pareti diverse e lontane, i quadri non spiccano dato che sono inseriti nel fondale istoriato e lavorato delle sale della Galleria Borghese. Le rispettive opere vengono viste e considerate a sé stanti, senza comparazioni più o meno ravvicinate che sarebbero impossibile fare anche se fossero accostate.
Procediamo quindi nella continuità di ognuno dei due Maestri mettendo in rilievo, nelle tre caratteristiche salienti che abbiamo individuato nel precedente resoconto, quella che spicca nella linea pittorica dell’artista, declinandone i particolari salienti dinanzi a ogni specifica opera.
Nel raccontare la visita, per Caravaggio preferiamo considerare separatamente le opere imperniate su una figura e quelle dove invece sono in scena dei gruppi; per Bacon la distinzione sarà un’altra.
Le figure e i ritratti di Caravaggio
Cominciamo la galleria di figure e ritratti dal “Ragazzo con il canestro di frutta” e dall’“Autoritratto come Bacco”, entrambi della Galleria Borghese. Sono tra le prime sue opere, si collocano intorno al 1593-94: aveva ventidue anni o poco più, si era da poco trasferito a Roma, per qualche mese era stato nella bottega del Cavalier d’Arpino. Viveva nell’indigenza e per di più questi quadri furono tra quelli sequestrati per motivi fiscali alla bottega dal papa Paolo V Borghese. C’è la cura dei particolari in un naturalismo leonardesco, un altro elemento comune è la sottile malinconia che pervade i volti adolescenti mentre cercano di sorridere.
Si può notare una contraddizione tra questi aspetti, nel “Ragazzo con il canestro” la frutta assiepata nel recipiente tenuto stretto al petto contrasta con il volto assorto; che non evoca affatto l’allegoria dei cinque sensi o delle quattro stagioni, ipotizzata da qualcuno, ma piuttosto una donazione simbolica: forse anche di sé come traspare dall’espressione, nella coscienza che è un dono inutile per un’umanità condannata. E anche se i frutti sono ben delineati, con il fico aperto e la foglia gialla appesa, l’espressione del viso nella testa reclinata all’indietro non rientra nel naturalismo e trascende il lato psicologico. L’intera figura è rischiarata da un soffuso chiarore che viene dall’alto.
Analoghe considerazioni per l’“Autoritratto come Bacco”, nel quale la luce fa rilevare dal fondo nero la figura oltre alla quale schiarisce soltanto il piano dove sono poggiate le due pesche e il grappolo d’uva; un altro grappolo è tenuto nella mano destra, a differenza della ricca cornucopia del dipinto con il canestro. Con il serto in testa, il viso si sforza di sorridere quasi fosse una posa obbligata, mentre esprime tristezza, o almeno intensa malinconia. Forse è la sofferenza per la malattia che si aggiungeva alla miseria, fu ricoverato all’Ospedale dei poveri, per questo motivo è chiamato anche il “Bacchino malato”. Ma nel significato simbolico si può vedere sia la condizione umana senza redenzione; sia, secondo Rottgen, l’aspetto negativo e triste dell’ebbrezza bacchica.
In entrambi i dipinti restano elementi bucolici e arcadici legati alla natura che fanno pensare alla vana ricerca di un’oasi di quiete: il destino aggiunse ben più gravi traversie a quelle giovanili.
Ed ecco un altro capolavoro, “Maddalena penitente”, dipinto del 1595, poco dopo l’uscita dalla bottega del Cavalier D’Arpino; viene dalla galleria romana Doria Pamphili. E’ un periodo più tranquillo, è stato accolto in casa del cardinale Del Monte, suo protettore. Il taglio obliquo della luce e la collocazione della Maddalena, anche con l’ausilio di forti contrasti cromatici, ne fanno spiccare la figura il cui carattere penitenziale emerge sia dal capo reclinato sia dall’essersi spogliata del vasetto di unguenti, monili e collane di una vita da dimenticare. Questi elementi sono un segno della visione realistica che si esprime in un primo piano nello stesso tempo reale, quindi con il senso di profondità, e simbolico, evocando la presenza divina; lo spazio intorno alla figura è completamente vuoto, la percezione viene data dalle mattonelle che sfumano verso lo sfondo, la sensazione non è di solitudine ma di riposante quiete. La fedeltà al vero porta all’esibizione di quegli oggetti molto terreni che allontanano le astrazioni dinanzi a temi religiosi; e alla riproduzione della quotidianità, con una giovane che conosceva a fare da modella, ripresa in atteggiamento familiare. Nessun dramma nella scena, un ripiegamento dolce e tranquillo, non si sente l’angoscia del peccato.
Mentre la Maddalena penitente è raccolta in se stessa e dolcemente abbandonata, tutt’altro atteggiamento ha “San Girolamo scrivente”, opera della Galleria Borghese realizzata intorno al 1605, sembra su commissione del cardinale Scipione Borghese. Periodo tormentato, due anni prima era stato processato con altri artisti per avere diffamato il pittore Baglione, ora è arrestato per ingiurie e porto d’armi abusivo. Il santo è in posa innaturale con il braccio allungato per intingere la penna; l’espressione tesa, al posto dei monili dell’altro dipinto c’è il teschio poggiato sul libro aperto che nell’assetto ed equilibrio compositivo corrisponde al suo viso dalla parte opposta. L’insieme è stato associato alla natura morta, dando ai diversi elementi lo stesso valore nella figurazione simbolica; va ricordato che il santo aveva tradotto la Bibbia dall’ebraico al latino, di qui la penna. L’ambiente è spoglio, indossa solo un mantello che gli copre parzialmente il busto, quasi a rimarcare il pauperismo dell’ordine; il volto teso ne esprime il rigore. In questa fase della sua vita incontrava seri incidenti in un ambiente ostile, e aveva subito degli insuccessi: tutto ciò si legge nel volto chiuso del santo, quasi volesse scavare dentro di sé, nel fiotto di luce sul buio cupo dello sfondo, nel teschio per contrapporre la morte alla vita. Tutto dà drammaticità e pathos alla scena.
Ancora diverso il “Ritratto del cavaliere di Malta (Fra Antonio Martelli)” dello stesso periodo, 1607-09, viene da Firenze, Palazzo Pitti. Il Gran Maestro dell’Ordine è raffigurato con la croce bianca al petto e le mani poggiate una sulla spada e l’altra sul rosario, simbolo della doppia natura dei Cavalieri, cattolici osservanti e guerrieri. Dovrebbe essere stato realizzato nel soggiorno a Malta che coincise con quello nell’isola del personaggio ritratto nel 1607-08, oppure a Messina l’anno dopo; c’è l’evasione dal carcere, la fuga tra la Sicilia e Napoli dove è ferito in una aggressione; lo stile è quello rapido del periodo, il tratto è veloce. E’ ripreso di tre quarti, l’espressione calma quasi assorta, con la particolarità che guarda da un’altra parte immerso nei suoi pensieri: ci viene in mente la “Donna dell’ermellino”, allontaniamo l’associazione tanto ci sembra anomala. Il viso è scolpito dalle rughe, è stanco, ma la positura del corpo esprime energia, è a mezzo busto mentre il Gram Maestro dell’ordine sarà a figura intera. Ha sfumature rossastre, solo la luce fa stagliare il volto sullo sfondo scuro, l’abito è evidenziato dalla croce bianca sul petto. C’è anche il mistero del perché il Cavaliere si sia fatto ritrarre da lui in un periodo in cui il pittore era stato espulso dall’Ordine.
Con “San Giovanni Battista” del 1610, della Galleria Borghese, siamo a Napoli, è l’ultima fase del soggiorno partenopeo prima di rientrare a Roma dove spera di avere la grazia dal Pontefice, su intercessione del cardinale Scipione Borghese; morirà poco prima, nel luglio dello stesso anno. Anche qui un mistero ancora più intrigante di quello del Cavaliere; il quadro lo portò, con altri due, per donarlo al cardinale come segno di riconoscenza, rientrando clandestinamente a Roma, ma fu sorpreso a Palo dalle guardie pontificie che lo separarono dai quadri. Sembra che la morte lo colse mentre cercava di recuperarli a Porto Ercole; Scipione Borghese recuperò questo e lo fece restaurare dai danni della salsedine. Di qui forse nasce l’anomalia del mantello rosso, un panneggio morbido a volute a lui inconsueto; nel recente restauro si è riscontrato che nella parte sottostante ci sono i suoi tratti secchi e veloci. La luce della figura spicca sul consueto sfondo nero, la figura del santo nuda, con un panno sulla gamba, le mani intrecciate sopra al mantello che ricopre la sedia, la sinistra tocca il lungo bastone. Non c’è drammaticità, la luce è avvolgente e le parti oscure presentano come una velatura, i contrasti non sono marcati anche se il gioco luce-ombra è sempre presente.
Le composizioni caravaggesche
Con la prima composizione entriamo nel mondo delle commissioni importanti, per le quali occorreva cimentarsi con le “historiae”, temi leggendari e soprattutto legati alla fede anche per committenti non ecclesiastici per le loro cappelle. Quando erano temi religiosi nasceva il problema dell’ortodossia, perché le raffigurazioni che se ne allontanavano spesso venivano rifiutate.
Si ratta di “Giuditta che taglia la testa a Oloferne”, del 1599, è nella Galleria nazionale d’Arte antica del romano Palazzo Barberini. C’è il netto contrasto tra l’espressione serena della fanciulla pur concentrata nel gesto tremendo della decapitazione e la testa stravolta nell’urlo del soccombente, accentuate dalla luce che piove sulla prima, forse la Grazia, mentre l’ombra sembra inghiottire il secondo; e anche la vecchia in primo piano che osserva, in contrasto con la gioventù di Giuditta.
La galleria caravaggesca della mostra ci dà poi i temi strettamente religiosi, cominciando con la “Conversione di San Paolo”, del 1601-03. C’è un particolare gioco di prospettiva e luminosità, dovendo decorare una parete laterale della cappella; ma l’effetto principale è la luce che piove dall’alto rischiarando le figure fondamentali: il corpo del cavallo dal quale San Paolo è caduto, in una insolita inquadratura posteriore, poi il corpo del santo con le braccia larghe protese verso l’alto e il suo viso abbagliato dalla Grazia che scende dal cielo; e rischiara anche il viso dello stalliere che tiene il morso del cavallo per calmarlo. Guttuso scrive: “San Paolo, a terra, alza le mani: folgorato, si direbbe, dall’enorme massa luminosa del corpo del cavallo”. Atmosfera comunque estatica, forse era troppo drammatica quella del precedente quadro sul tema rifiutato dal committente Ospedale della Consolazione. Viene dalla romana Chiesa di Santa Maria del Popolo, nella famosa piazza del Popolo, cappella Cerasi, che contiene anche la “Crocifissione di San Pietro”, degli stessi anni.
Proseguendo nel tempo, troviamo in rapida successione due Madonne: la “Madonna di Loreto (Madonna dei pellegrini)” del 1604-05 e la “Madonna dei Palafrenieri” del 1605-06: la prima della chiesa romana di Sant’Agostino, la seconda della Galleria Borghese. Sono immagini molto diverse, unite dalla figura della Vergine, per la quale aveva posato una cortigiana del tempo, Maddalena Agnolotti, detta Lena, la cui riconoscibilità comportò quello che è stato chiamato lo “schiamazzo” popolare. Nel primo dipinto sono state trovate reminiscenze tizianesche nella particolare composizione e nel corpetto di velluto rosso della Madonna; c’è il realismo caravaggesco nella figura dei pellegrini prostrati in ginocchio con i piedi scalzi e sudici per il cammino. L’effetto di luci e ombre accomuna i due quadri come tutte le opere del Maestro, qui è la figura e il volto della Vergine sotto il fiotto di luce. La sua posa è languida, i precedenti della modella creavano problemi.
Ma se in questo poteva essere riferita alla classicità della figura, che si ispirava alla statuaria greca, era più difficile farlo per il secondo dipinto dove la classicità è soprattutto nella figura statuaria di Sant’Anna, pur se in penombra, ma fondamentale anche per la committenza. La luce cala impetuosa sulla Madonna e il Bambino nudo che schiacciano il serpente della tentazione. Il dipinto fu accolto entusiasticamente dagli amici di Caravaggio, ma fu molto contestato: ci fu anche il rifiuto con la rimozione da San Pietro per la fisicità attraverso la quale l’artista intendeva riferire il dogma calato nel dramma dell’esistenza. Così Maurizio Calvesi: “L’integrale classicità della testa e del busto della Vergine, la plasticità raffaellesca dei contorni, l’emergere delle figure dal fondo attraverso un procedimento tecnico che conferisce profondità ai volumi, sono accompagnati da una resa realisticamente conturbante della carnalità”. Ma non è fine a se stessa: “Il turgore delle carni riveste le figure di una incombente nudità che, piuttosto che trasporre in loro concetti di classicità e di antico, vi conferisce l’immanenza dolente e insostenibile dell’umana verità”.
Altri caratteristici temi cristiani nei dipinti esposti: vita di Cristo, il suo primo apostolo, una santa. Tutti e tre negli ultimi due anni della vita del Maestro, il periodo siciliano-napoletano. Della fase siciliana la “Resurrezione di Lazzaro”del 1609, dal Museo di Messina, fu una committenza ricevuta in questa città da un genovese che vi risiedeva e si chiamava Lazzari, l’idea del tema fu di Caravaggio. C’è tutta l’essenzialità della fase siciliana, ma ha caratteri diversi dalle altre composizioni, è concepito come un fregio classico per la cappella alla quale era destinato. La luce sfiora i corpi nel buio cupo dello sfondo, sembra un bassorilievo del quale emergono le parti ossute del corpo scheletrito e insieme quelle flaccide della carne in disfacimento. La classicità del fregio appare anche nei panneggi scultorei. La diagonale luminosa del corpo di Lazzaro prosegue una composizione che inizia con una figura nell’ombra ma potente: il Cristo con il dito puntato.
Del primo apostolo è in mostra, proveniente da New York, “La negazione di Pietro”, dal Metropolitan Museum of Art, dipinto nel 1609-10: è raffigurato in un momento del “mi rinnegherai tre volte”, con una donna e un soldato al quale nega di conoscere Cristo; non fa un torto all’apostolo, come abbiamo accennato aveva dipinto quasi dieci anni prima la sua crocifissione. La “negazione” è dell’ultimo anno, fase napoletana, con tratti brevi ed essenziali, toni rossastri, luce che ancora di più scolpisce i particolari da evidenziare: la figura del santo, rischiarata con evidenziati il volto imbarazzato e le mani raccolte, e soprattutto il viso della donna, testimone della scena, percosso dalla luce solo nella parte superiore lasciando in ombra il soldato segnato solo da un riflesso di luce sull’armatura. Attraverso le illuminazioni vanno in primo piano i moti dell’animo.
Terza opera sacra il “Martirio di Sant’Orsola” del 1610, dal palazzo Zevallos Stigliano di Napoli, una delle sue ultime opere. C’è la piena maturità artistica per come lo spazio è costruito con le ombre e come la luce costruisca le figure, mentre i protagonisti della scena rappresentata, la santa e il soldato, sono evidenziati anche con le vesti rosse. Lo spettro luminoso è molto ampio, ma sono il viso della santa e il suo busto ad imbiancarsi per la luce e la sofferenza, espressa nelle mani raccolte sulla ferita per il colpo infertole e nel viso rassegnato nell’accettazione del martirio, mentre il soldato aguzzino sembra quasi paralizzato a bocca spalancata con il braccio ritratto; c’è un altro viso accorato che guarda il soldato con rassegnazione mista a pietà.
Il dramma raggiunge il “diapason” con l’ultima opera esposta, tra le più significative anche sotto il profilo psicologico e autobiografico. Si tratta di “Davide con la testa di Golia”, della Galleria Borghese, tema che aveva già affrontato nel 1597-98, a ventisei anni, nel dipinto di Madrid con un Davide quasi bambino, in una visione astratta e naturalistica; e affronterà ancora, nella tavola di Vienna del 1607, intermedia tra i due dipinti nella tensione emotiva oltre che nella datazione.
Del dipinto esposto viene indicata la data del 1610, ci sono altre attribuzioni che lo fanno risalire al 1607 come quello di Vienna sulla base di considerazioni che non tengono conto dei significati simbolici i quali portano alla fase finale della sua vita. Tra questi il viso della testa recisa di Golia, un suo autoritratto disperato come a voler raffigurare la propria condanna a morte eseguita; la personificazione del male dove il bene è nel giovane Davide. Che ha la camicia lacera e lo sguardo intenso dove la determinazione è unita alla pietà, come in Giuditta che taglia la testa ad Oloferne, Qui la decapitazione è già avvenuta, Davide è come se emergesse dal buio, sembra che entri nella tenda di Saul con il macabro trofeo. Nel suo sguardo è stata vista, pure ai fini della datazione, anche la rassegnazione mista a pietà con cui il protettore di Sant’Orsola rivolge gli occhi sull’aguzzino. Così Anna Coliva, che dirige la Galleria Borghese “E’ anche quella profonda malinconia che velava precocemente lo sguardo del ‘Ragazzo col canestro di frutta’. E’ un’espressività di forza irripetibile che racchiude in sé l’intera poetica di Caravaggio, secondo il quale la coscienza contemplativa, dolorosa e piena di infinita commiserazione, compiange una umanità colpevole, impossibile da salvare”; come forse sentiva di essere lui stesso in quest’ultima fase così tormentata della sua vita.
Un mistero è stato risolto da Marini nel 1987, l’iscrizione sulla spada di Davide, con il motto agostiniano “H.AS OS”, cioè “Humiltas occidit superbiam”. Che sia il testamento spirituale lasciato volutamente da Caravaggio?
Con questo interrogativo, che aggiunge un altro mistero ai tanti sottesi alle sue opere si conclude l’excursus attraverso dipinti particolarmente significativi nella sua produzione, dove si ritrovano le espressioni salienti della sua arte nei diversi periodi della vita che abbiamo voluto ricordare per i loro riflessi sia sullo stile pittorico sia soprattutto sull’elemento psicologico. Aspetto fondamentale quest’ultimo considerando come la sua pittura renda in modo suggestivo i moti dell’animo.
Possiamo provare a immaginare i moti dell’animo nella vita travagliata che ha dato a Michelangelo Merisi l’appellativo di “pittore maledetto” oltre a quello di Caravaggio. Una vita tormentata non solo a livello esistenziale ma anche artistico, a stare ai rifiuti da parte delle Confraternite committenti delle sue opere non “ortodosse”. Ma non per questo veniva meno alle proprie scelte stilistiche così personali e di contenuto così drammatico reso senza forme teatrali ma con un gesto, una pennellata di luce; e marcando la sua distanza dalle rappresentazioni edificanti facendo diventare protagonisti i popolani, presi come modelli, che impersonavano le figure dei protagonisti, lo abbiamo visto per le immagini “schiamazzate” della Madonna.
Forse il migliore omaggio che possiamo rendergli dopo l’emozione che ci ha procurato, è concludere con le parole di Guttuso, anch’esse fonte di emozione. Ecco come ne ricorda gli ultimi momenti: “Dopo Siracusa: Messina e Palermo; sempre lasciando tracce operative del suo passaggio. Fino alla morte sul tragico litorale tirreno che rotolò anche le ossa di Palinuro, di Shelley, di Nievo.” Ecco, infine, come evidenzia il segno profondo che ha lasciato: “Ma Roma non seppe prendere coscienza di quella morte, né di quella vita. Per secoli lasciò in ombra la straordinaria occasione rivoluzionaria che l’opera di Caravaggio offriva. E toccò, da allora in poi, a rari uomini nuovi, a creatori solitari e convinti, riprendere in mano i fili di quell’occasione e perseguire l’dea della pittura come affermazione della verità delle cose, coscienza della vita e della morte”.
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1 Commento
- Giulietta
Postato giugno 20, 2010 alle 2:16 PM
non ho potuto visitare la mostra di caravaggio….l’hai fatto tu per me molto meglio di me…soltanto i miei occhi non hanno goduto quanto i tuoi. Grazie