di Romano Maria Levante
– 7 febbraio 2010
Prosegue il racconto della splendida mostra (rimasta aperta sino a oggi) che, al Vittoriano di Roma, ha permesso di ammirare quasi 700 opere di oltre 200 autori collocabili nell’ambito della corrente artistica del surrealismo. Tra essi va citato indubbiamente anche l’abruzzese Marco Boschetti, nativo di Chieti, che pur non essendo stato presente in questa mostra ha comunque esposto le sue opere a Roma lo scorso gennaio, sul filo di un rinnovato interesse della Capitale per questa temperie artistica.
Una breve introduzione alla visita delle opere per richiamare la caratteristica principale del surrealismo già illustrata nel servizio precedente. Nel superamento totale del passato, comune ai dadaisti, ne rifiutava il nichilismo per un “engagement” altrettanto radicale rivolto, però, non alla cancellazione fine a se stessa, bensì al rinnovamento non solo artistico ma anche etico e politico.
La forma stilistica era assolutamente libera, basata sul rifiuto della “funzione mimetica” dell’arte che ne avrebbe svuotato il significato e travisato la natura: “Un’idea molto limitata dell’imitazione – sono parole del fondatore e anima del movimento André Breton – indicata all’arte come fine, è all’origine di un grave equivoco che vediamo prolungarsi sino ai nostri giorni. Partiti dal presupposto che l’uomo sia capace soltanto di riprodurre, più o meno felicemente, l’immagine che lo tocca, i pittori si sono mostrati sin troppo concilianti nella scelta dei loro modelli”.
Il curatore della mostra Arturo Schwarz spiega cosìil superamento di tale limite: “Nell’arte dei surrealisti predomina l’esigenza della fedeltà al ‘modello interiore’, non vi è posto per una ricetta estetica o un cliché figurativo”. E lo esemplifica: “Niente accomuna la pittura dei surrealisti; niente salvo, appunto, una comune esigenza ideale, la preoccupazione di fare una ‘bella pittura’. Le esigenze estetiche passano quindi in second’ordine dal momento che primeggia la volontà di esprimere, con la maggiore autenticità possibile, i propri sogni e desideri, la propria visione del mondo”. E perché non ci siano dubbi sui risultati conclude: “E’ un fatto occasionale anche se non irrilevante che questa esigenza abbia prodotto alcuni tra i maggiori capolavori dell’arte moderna e contemporanea”. La quotazione record data a Giacometti nell’asta di Sotheby’s dei giorni scorsi, citata in apertura del primo servizio, è un’ulteriore conferma delle affermazioni di Schwarz.
Questo ci rende desiderosi di scoprire i “sogni e i desideri” che stanno dietro a forme incomprensibili, ci fa essere rispettosi di scelte sorprendenti, spesso sconvolgenti, ci fa apprezzare di più l’arte surrealista. Visitiamo le opere riferite agli “artisti presenti o attorno” alle sei grandi mostre surrealiste, di cui si occupò Breton, organizzate nell’arco di quarant’anni, dal 1925 al 1965.
La mostra iniziale del 1925
La prima mostra collettiva surrealista si inaugura alla Galerie Pierre di Parigi il 14 novembre 1925, l’esposizione presenta i grandi nomi, cominciando da Arp, già visto tra i dadaisti, qui con 9 opere ben diverse dai collage colorati. Abbiamo china su carta e dei rilievi in legno dipinto, forme senza colore che si stagliano sullo sfondo al quale sono applicate.
Di Breton una grande varietà: un bronzo dal titolo e dalla forma “Anche guanto di donna”, un disegno e un fotomontaggio, un collage e un assemblaggio, una decalcomania e una “Pagina oggetto”, nella realtà una scatola di legno e vetro.
Ancora Ernst, quasi una personale con 16 opere le più varie, dal “Dattiloscritto-manifesto” ad alcuni oli su tela come “Il mare” e “Uccello in gabbia”, “La bella stagione” e “Muro avanti a sole”, fino al grandissimo “Un momento di calma”, una vegetazione verde molto frastagliata.
Un’altra personale di Man Ray dopo quella “dada” con 9 opere, le “surrealiste” sono addirittura 18. Si va da disegni molto eleganti a un’originale fotografia di Breton con sullo sfondo una piazza metafisica di de Chirico, da collage ad oggetti assemblati come la collana su un minuscolo bigliardo, un “Monumento al pittore ignoto”, poi delle squadre e una scopa, una calamita con una chiave. e una bottiglia fino alle tre più note e caratteristiche: “Il violino d’Ingres”, l’aggiunta di due chiavi di violino al nudo femminile del pittore francese; la “Venere restaurata”, un torso femminile legato da una corda, e il celebre “All’ora dell’osservatorio – Gli innamorati” con le enormi labbra rosse femminili che occupano un cielo cosiddetto a pecorelle. Fino alla “Vergine indomita”, figura femminile lignea in piedi, con le catene della cintura di castità, rinchiusa in un armadietto ligneo dagli sportelli spalancati che lascia vedere il manichino.
Nelle dieci opere di Masson troviamo piccoli disegni su carta, in china inchiostro e acquerello, e due grandi oli su tela: “Il pittore e i tempi”, una composizione allucinante e “Goethe e la metamorfosi delle piante”, dove lo scrittore sembra trapassare forme misteriose con lo sguardo.
Con Mirò e Picasso si va completando la sezione. Di Mirò quattro oli su tela molto colorati, diversissimi l’uno dall’altro, con forme collocate in ambienti e spazi particolari. Poi due dipinti “Donna circondata dal volo di un uccello” e ”Donne, uccelli e stelle” dove i riferimenti ai soggetti del titolo sono visivamente molto deboli, ma l’arte del pittore ne fa sentire la presenza. Più evidenti in ”Donna (Personaggio)”, un bronzo con una figura distinguibile nella sua imponenza.
Da un grande a un altro, di Picasso due opere di ambientazione marina, se ne sente l’atmosfera e la leggerezza: “Bagnante”, un piccolo olio su tela, e “Sulla spiaggia”, una china su carta con scorci fugaci di figure disegnate con tratto sottile ed elegante, un rudere e una gamba, un braccio e un vaso di fiori. L’olio su cartone “Testa” riporta al Picasso più caratteristico dei volti con occhi, naso e labbra asimmetricamente disposti, ma che si ricompongono in una superiore armonia.
Concludono la sezione quattro opere di Roy, antropomorfe, diremmo, pur senza figure umane, perché con spazi a dimensione d’uomo e oggetti quotidiani, una sedia al centro di una piccola stanza con quadri alle pareti, una ruota di carretto dritta su un pavimento, cavolfiore e cipolle, pestelli, cestini e vasi in un vano di finestra. La mostra del 1925 termina nell’ambiente domestico.
Le mostre del 1936 e del 1947
In una successione ininterrotta, sfruttando tutti gli spazi nelle pareti di sale e salette, ecco le opere della mostra inaugurata l’11 giugno 1936 alle New Burlington Galleries di Londra., partecipano una sessantina di artisti, tutti presenti in mostra, alcuni dei maggiori visti già nella precedente.
Dobbiamo fare una drastica selezione, ci soffermeremo su alcuni tra i più noti ma, essendo la peculiarità della mostra di Roma la visibilità a tutti gli artisti delle esposizioni di Breton, nessuno escluso, citeremo tra gli altri quelli che colpiscono la nostra sensibilità o curiosità. Il primo è Armstrong con un “Nudo disteso” in una specie di alcova, le cui forme richiamano Botero. Quasi opposta una tempera di Bellmer “Senza Titolo”, la figura femminile sembra fatta con il filo di ferro come le opere iniziali “scolpite nell’aria” di Calder, presente in mostra con i suoi “Dischi bianchi nell’aria”, eterei e quasi incorporei. Quanto mai corposo è invece l’olio su tela “Il trionfo dell’amore” di Carlsson, un corpo femminile in un gambero gigantesco, nello sfondo un violoncellista suona; e anche “La famiglia Pino” di Colquhoun, a metà tra arti e tuberi affiancati, e “Cavalli” della Carrington, i due animali scalpitano in un ambiente tra il medioevale e il lunare.
Torna la delicatezza del tratto in Bucaille, i suoi collage sembrano xilografie, al pari di Castellon. Figurativi anche “Scheletri in un ufficio” di Delvaux, “Un mare celeste” e “L’onda” di Dominguez, i collage di Huguet e di Marièn, gli oli di Valentine Hugo. Il collage è la tecnica usata da Jennings per “Testa di leone in un comò” e il “Ritratto di lord Byron con un libro; mentre Maar ricorre alla “stampa alla gelatina d’argento”.
Delle 11 opere di Branner colpisce l’“Indicatore dello spazio”, una sorta di Pinocchio surreale, e “La sonnambula”, il tronco di un albero il corpo, un uccello sopra la testa; nei 2 oli su tavola e masonite di Mednikoff si notano i colori violenti e l’allucinazione delle forme; i 5 oli su tela di Lamba si ricordano per una certa vicinanza cromatica nella diversità estrema di stile e contenuto, Vicini anche i 5 di Ubac, senza colore, e i 9 di Toyen, invece coloratissimi, spicca il collage con una sorta di scacchiera rosa e nera con sopra dei cani accovacciati e riflessi a terra di teste di tigri..
Le ultime citazioni prima dei grandi riguardano i 9 collage di Styrsky, per lo più figure singole, come le 4 tempere e assemblaggi di. Oppenheim; e le 7 tempere di Tanguy, quasi dei bassorilievi.
Superati 12 Duchamp, mattatore della mostra – non senza aver notato il bozzetto del “Nudo che scende le scale” del quadro visto alla mostra sul “Futurismo” – ecco Dalì, Giacometti e Magritte.
Dalì non ha una considerazione nel mondo surrealista, in particolare da Schwarz, pari alla fama di cui gode per le sue stravaganze e la sua vita mondana: sono esposti il “Saggio surrealista”, la “Donna cassetto”, quest’ultimo è ricavato nel viso, la “Regina Salomè”, un busto nudo di donna che inquadra una testa maschile staccata.
Non c’è “L’uomo che cammina”, di Giacometti, venduto a Londra per 104 milioni di dollari, ma sono esposti tre suoi bronzi dai titoli importanti “Uomo”, “Donna” o suggestivi come “Donna distesa che sogna”. La figura femminile in chiave surrealista, quindi com’è pensata non com’è vista, è in due suoi gessi, ancora “Donna” e “Donna cucchiaio”.
Ed ora siamo ai 6 oli su tela di Magritte: tre inquietanti, ci sono delle fiamme e delle scarpe vuote con i piedi che vi hanno lasciato l’impronta, e due fantasiosi, “La Generazione spontanea” e “L’isola del tesoro”. Abbiamo lasciato per ultimo il più imponente nei suoi due metri per uno e mezzo dalla straordinaria forza espressiva: “Il castello sui Pirenei” , cisi sente portati in alto in quel maniero nella grande rupe sospesa miracolosamente sul mare, un rifugio e insieme una conquista, sembra di poter dominare la natura. Passano tutti gli incubi, si vola in cima al mondo.
Di qui dobbiamo ridiscendere per passare in rassegna le quasi 100 opere della mostra del giugno 1947, alla Galerie Maeght di Parigi. Sorprende la rapidità nell’organizzare una rassegna così nutrita quando era così vicina la tragedia epocale della seconda guerra mondiale. La volontà dei surrealisti di cancellare il passato per ricominciare ha trovato un potente alleato in un evento distruttivo al quale è seguita la volontà di ricostruire; di qui è scattata un’immediata sintonia.
La prima opera in cui ci si imbatte, in senso stretto, è il vero pianoforte rovesciato su un altro con fascia dai colori dell’iride di Cage e il titolo “Suona per favore o la madre, o il padre o la famiglia”.Tra le altre “sculture-oggetto”, evidentemente di minori dimensioni, troviamo le 3 di Henry, un violino, una pistola e un telefono, tutti fasciati , cui si aggiunge un olio su tela con una macchina da cucire sotto un ombrello, perfettamente figurativi.
Ma ecco il nostro Enrico Donati, morto a 99 anni il 27 aprile 2008, con due oli su tela e un inchiostro su carta dai titoli impegnativi come “La Pietra filosofale”, “Corte d’appello” e “Téte a Téte”; e si sa quanto siano importanti titoli che esplicitano la motivazione interiore, essendo spesso arduo decifrarla dalla forma.
Vogliamo liberarci subito delle immagini più ansiogene, per esplorare poi lidi più sereni e attraenti. Iniziamo con lo “Studio di gufi” di De Diego, ne abbiamo contato circa 20 i cui occhi sbarrati spiccano sul fondo scuro; un’ansia diversa nasce dagli “Occhi di Edipo”, di Gottlieb, qui sono 17 gli scomparti con sagome di teste molto diverse. Una certa ansia suscita la testa di donna con un bavaglio nero in bocca su una spiaggia, di Malet, ma il titolo è rassicurante, esprime “L’abolizione dei privilegi”. Mentre il fondo nero delle 4 composizioni fotografiche di Heisler può dare inquietudine nelle due in cui emerge un cappello su un manichino trasparente o una figura radiografata come San Sebastiano trafitto da ramoscelli. Due ansie diverse da due dipinti uno sul verde, l’altro sul marrone: il primo, di Frances, intitolato “Composizione con un uccello, un uomo e una ragazza”, è da incubo per le spine e la testa a uccello; il secondo, di Duvillier, può inquietare soltanto se pensiamo al titolo, “Abisso tanto bramato” o all’intrico di arbusti che può soffocare.
Più che in queste immagini le angosce della guerra si riflettono sulla “Morfologia psicologica” di Matta, e in modo traslato sulle tempeste turbinose di Vulliamy in “La liberazione di Andromeda” e “La mano di Dio”; di questo autore è anche il “Concerto fantastico” dove le volute non sono più tempestose ma chiare e armoniose, rispetto alla livida atmosfera delle altre due.
Maddox ci fa entrare nella psicologia con “Intenzioni segrete”,una grande foglia verde appoggiata a una colonnina, “Pied à terre”, un pesce verticale alto quanto i pantaloni di un uomo in piedi a lato, e “Poltergeist”, una donna dai lunghi capelli neri seduta con delle fiammate intorno. Un’altra immagine femminile ben evidente è nell’“Oracolo” di Henry, un bel viso con capelli al vento, bocca aperta e tre occhi che sarebbero piaciuti a Giovannino Guareschi, creatore dei “trinariciuti”, lui li vedeva come minorati, qui invece è un potenziamento della vista dell’oracolo. Immagine femminile ben diversa la “Sirena del Niger”, di Lam, una forma quasi picassiana.
La “Cosmografia del mondo interiore” e “La struttura della luce del cosmo interiore emanata dal sole della poesia erotica” di Henry, grafiche su carta con una serie di elementi che svolazzano su un fondo nero, ci portano in un mondo nel quale emerge il richiamo della donna, l’amore. Ecco “Amore nella foresta” di Hérold, quasi una dissolvenza, e l’allusivo quanto inquietante “Ginandrologia, di Serpan.
Ma la donna balza fuori nei due “Senza Titolo”di Teige, di cui c’è anche “Sulle rive di Baudelaire”, un seno nudo guardato da una severa testa di manichino. E nei due oli su tela di Trouille esplode l’erotismo: “La mummia sonnambula” scoperchia addirittura il sarcofago e si dimena attaccata a un obelisco in tutta la sua sensuale e procace nudità figurativa, mentre una grande testa bionda di giovane cerca di guardare lontano in un’altra direzione; dalla mummia egizia a “La religiosa”,tanto di crocifisso al collo, seduta su una cassapanca in abito rosso ma da suora, viso ammiccante, sigaretta accesa, scosciata, con le gambe invitanti inguainate nelle calze di seta.
Dopo quest’escursione nell’erotismo surrealista, prima di passare alle opere della mostra successiva è bene guardare il “Paesaggio surrealista”, ce ne sono due esposti: il primo, di Herold, il cui titolo specifica “in riva al mare”, ha le onde sullo sfondo e due figure arboree in primo piano; l’altro, di Bjerke-Petersen, senza ulteriori titolazioni, è una doppia immagine arborea con i tronchi e le chiome che si stagliano nel cielo e sono protese verso la vallata. Un paesaggio, sì, diremmo riecheggiando un’antica barzelletta del malizioso Pierino, ma le forme arboree sono in effetti umane e non sembrano in atteggiamento contemplativo. Come non lo sono i due bronzi della Waldberg dal titolo allusivo “Seguito da…”; un uomo e una donna si inseguono anche nel surrealismo.
Le ultime tre mostre del 1959-60, 1960-61 e 1965
Ed ora le opere della mostra del 1959-60, inaugurata a Parigi alla Gallerie Cordier il 15 dicembre 1959 che restò aperta fino al gennaio 1960. Il movimento surrealista ha fatto molta strada, le immagini sono colorate e colorite, le forme hanno un forte impatto emotivo, muovono l’inconscio: delle volte somigliano alle figure fatte decifrare nei test psicologici e psichiatrici, altre volte propongono immagini evocative di allucinazioni, rappresentano intrecci che coinvolgono chi le vede oppure riportano a una dimensione più serena, anche lontanamente figurativa.
Alla prima categoria appartengono “Cercatrice di agata gemella”, un fotomontaggio colorato di Benayoun e, in misura minore, i tre oli su tela di Elleouèt, nonché la “Colata rossa” di Loubchansky, “Delizioso” di Molinier e “Situazione rossa e arancio” di Morris.
Evocano allucinazioni alcuni “Senza titolo”:di Bona, un gatto nero con gli occhi sbarrati su un pavimento e un pennuto appeso per i piedi; Halpern, una piccola figura rinchiusa in una sorta di batiscafo con ectoplasmi filiformi ai lati; Hirtum, immagine totemica con in più tre enigmatici porcellini su un trespolo; e “Amore” di Eluard, un fotomontaggio di due nudi femminili in pose ed espressioni inquietanti. Anche “La veggente” e “L’arcivecchia” di Silbermann, con i loro colori violenti e le forme particolari possono muovere l’inconscio, così il “Ritratto analogico di Mimì Parent”, di Ivsic fa sentire il brivido di una folgorazione e il “Monumento ai viventi” di Legrand, con una mano tagliata che spicca in un ambiente dantesco.
Intrecci e viluppi nelle tre “Senza Titolo” di Dax, che sembrano aprirsi “Col cielo sereno” di Benoit; mentre torniamo alla dimensione più serena con i due assemblaggi di Parent (“La Vittoria di Samotracia” e “L’amore in visita”), il “Dittico dell’Atlantide riemersa” di Falzoni. Ci riporta ad una realtà urbana rielaborata in forma quasi onirica “L’occhio della città (magnetico)” di Le Marechal, suo anche “Il palazzo dell’angoscia n. 3”, un vero incubo.
La dimensione pittorica rasserena con l’astrazione delle due versioni di “Sguardo” di Rotsda e soprattutto del “Prometeo”di Seligmann, dove si ricompone un cavaliere figurativo.
Dal 28 novembre 1960 al 14 gennaio 1961 si espone alla D’Arcy Gallery di New York, 12 opere in mostra, prime tra esse due del nostro Baj: “Donna”, un collage che ripropone gli spiritelli filiformi e “Generale trombettiere”, l’altro tema dissacratorio prediletto dall’artista.
Cornell sorprende con una “Colombaia”, vera pulsantiera, e due “Senza Titolo” figurative, l’una un nudo femminile su spiaggia con nello sfondo un castello, l’altra con piccole sculture soprammobili in una stanza con tracce di costellazioni; torna nell’insolito l’autore con “Eclisse di terra”, un assemblaggio in legno e vetro, acciaio e gesso, sabbia blu e fotografia. Molto particolari le tre tempere su carta di Svanberg,, dalle “Donne Minotauro” agli “Uccelli”.
Per concludere la rassegna del 1960-61 vogliamo citare “L’amore di Venezia” di Copley. un quasi figurativo con un uomo dal volto e le braccia nere a maniche corte che bacia una donna la cui figura si mimetizza con il pavimento dalle mattonelle di un minuzioso disegno a quadretti.
Delle trentaquattro opere dell’ultima mostra, tenuta nel dicembre 1965i, alla Galerie L’Oeil di Parigi, citiamo innanzitutto le due in legno: “Antropomorfo I” di De Sanctis e Sterpini, e “La Regina Mariana” di Girondella. Mentre di De Sanctis è esposta anche “Le delizie di Kadali”, in ferro, materiale utilizzato pure da Duprey e Hiquily; e di Sterpini l’ammiccante “Non bisogna pensare alle preghiere” dove si vedono richiami che, se non siamo maniaci, ci sembrano sessuali.
Torna Elleouèt, incontrato nelle opere della mostra del 1959-60, ma qui nella pienezza espressiva con sei collage su carta coloratissimi e movimentati, figurazioni fantastiche o allucinate che emergono da uno sfondo nero caravaggesco; i titoli sono evocativi, da “Sotto la corteccia” a “Valle addormentata”, da “Il tagliafuoco” ad “Argonauti II”.
Evocativo anche l’olio “La lunga valle” di Dangelo, mentre Del Pezzo espone due assemblaggi di legno e metallo. Diversissimi i tre oli su tela ciascuno di Klapheck e di Lacomblez. Il primo riproduce con forti stacchi di colore e segni marcati degli oggetti veramente rivelatori di quanto indicano i titoli: “Lo spirito della notte”, “La rivolta”, “Terrorista”. Il secondo autore ci dà dipinti allusivi come “La cosa che viene” e “Rito di esorcismo: l’acqua” attraverso enigmatici labirinti.
Dopo tanta pressione sull’inconscio e sulla percezione visiva, quieta contemplazione con i due “Senza Titolo” di Zurn, ectoplasmi raffinatissimi, quasi di fattura giapponese, dove si è incantati dall’arabesco e non inquietano occhi e visi che fanno capolino tra le volute calligrafiche.
Le sorprese surrealiste del curatore della mostra e il ricordo di Eva
Un ulteriore giro della mostra in senso inverso ripropone il caleidoscopio di sorprese, in alcuni casi sconcertanti. Ma non è così la vita? E l’arte e la vita unite nell’anticonformismo libertario quando possono lasciare spazio all’estro creativo non hanno limiti né confini. Surrealismo è sorpresa dell’insolito, che può operare nelle due direzioni, perché può essere sorpresa positiva e negativa.
Il nostro percorso a ritroso ci ha riportati all’ingresso, in un vano si proietta ininterrottamente un brevissimo filmato, parla un signore con occhiali e barba bianca, è Arturo Schwarz, il curatore della mostra. Dice di essere “l’ultimo dei Mohicani avendo vissuto la cultura surrealista dal 1944” a stretto contato con il padre del movimento André Breton. Ne ha una tale venerazione da avere ammesso soltanto gli artisti che hanno esposto almeno una volta nelle sue grandi mostre collettive.
Ebbene, le domande che ci ponevamo hanno trovato risposta nelle dichiarazioni di Sandro Bondi sull’esposizione, promossa dal Ministero per i Beni e le Attività culturali:”La mostra non è curata da un semplice studioso, per quanto dei più illustri, ma da un vero protagonista di quel tempo e di quei movimenti, Arturo Schwarz, che nel corso di una vita lunga e intensa si è occupato di cultura in tante molteplici forme. Storico dell’arte, saggista, poeta, conferenziere, filosofo e gallerista, il professor Schwarz è stato compagno di strada di personalità come, tra i tanti, André Breton, Marcel Duchamp e Man Ray. E’ davvero una prospettiva unica la sua per descrivere Dada e Surrealismo”.
Cerchiamo la sua biografia e la bibliografia, sono impressionanti gli innumerevoli saggi sulla pittura surrealista, almeno venti i più importanti, i tanti cataloghi di mostre curate sullo stesso tema, le oltre cinquanta raccolte di poesie, l’attività didattica e di studio, fino agli incarichi e riconoscimenti accademici in America, Israele e anche in Italia. E’ autore unico del ricchissimo Catalogo della mostra, quasi cinquecento pagine con riprodotte in bei colori e adeguatamente commentate tutte le opere con monografie sui movimenti dadaista e surrealista ed accurate schede singole.
Ma le sorprese surrealiste del curatore non finiscono qui, ce le rivela ancora il ministro Bondi: “Arturo Schwarz non è, però, solo uomo di studi e questa mostra testimonia un altro aspetto eccezionale di questo personaggio. Due nuclei importanti di opere qui esposte, infatti, provengono dalle donazioni che il professor Schwarz ha fatto della sua collezione personale alla Galleria Nazionale di Arte Moderna di Roma e all’Israel Museum di Gerusalemme”. L’iceberg del personaggio, come impegno culturale diretto da protagonista, sta per svela tutta la sua profondità: “Oltre millecinquecento opere divise tra il suo paese e il suo popolo, donate con straordinario disinteresse a due istituzioni che ne potessero divulgare la conoscenza e l’apprezzamento, un modo per perpetuare in eterno la memoria di quegli artisti che sono stati i suoi compagni di viaggio”. Non possiamo che unirci all’elogio del Ministro “per il suo valore assoluto e la sua generosità”. Anche questa è una sorpresa surrealista, in un mondo dove si perdono i valori e manca la generosità.
Ci prepariamo a lasciare l’esposizione fortemente colpiti da questa scoperta, e ne facciamo un’altra singolare. L’addetto che ha per noi un prezioso gesto di gentilezza si chiama Gattuso, di nome Giorgio, di modi e di aspetto sembra l’opposto del calciatore soprannominato “Ringhio”; commentiamo la cronaca calcistica del giorno prima su Sky: “Pirlo in panchina, regista è Gattuso”: chi segue il calcio ne coglie come noi la vena surrealista, due sorprese surrealiste in un incontro.
Usciamo dalla mostra, finora le sorprese sono state gustose e positive. Abbiamo già confrontato l’affermazione riportata all’inizio del “Manifesto Dada” di Tzara secondo cui “l’opera d’arte non deve rappresentare la bellezza che è morta”, con la vista dalle vetrate del Vittoriano della Roma monumentale e antica. Concordiamo con il sindaco Gianni Alemanno: “Roma risponde con il suo fulgore eterno, con una serie di immagini di bellezza assoluta che sembrano voler contraddire il pensiero dadaista”.Il Colosseo è dinanzi a noi in fondo a via dei Fori imperiali nella sua maestosità.
Ma nel marciapiede destro dello stradone notiamo un insolito assembramento: oltre un centinaio di ciclisti pronti a salire in sella, c’è un cartello “con la scritta “In ricordo di Eva, uccisa da un’automobile a 28 anni”. Chiediamo conferma, dicono che l’incidente mortale c’è stato un paio di mesi fa. Comincia a piovere, inizia la mesta sfilata, è una sorpresa vedere il dolente corteo di bici occupare interamente la mezzeria verso il Colosseo, una sorpresa surrealista; come è surrealista morire a 28 anni nel centro di Roma per andare in bicicletta. Lo abbiamo premesso, le sorprese surrealiste possono essere positive o negative, nell’arte come nella vita, per loro strettamente unite.
E’ la sera del 29 gennaio 2010, una data che non dimenticheremo. A Eva dedichiamo questo nostro racconto dell’evento “unico” di Schwarz: la mostra “Dada e Surrealismo riscoperti” al Vittoriano.
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