di Romano Maria Levante
E’ tornato Caravaggio a Roma alle Scuderie del Quirinale fino al 13 giugno 2010, dopo essere stato alla Galleria Borghese in coppia con Bacon, ma nulla di ripetitivo sebbene dei quadri della Galleria, presenti ora alle Scuderie, fossero stati già esposti in quell’occasione. Ma non sembrano gli stessi, tanto è mutata l’ambientazione. Non era certo la presenza di Bacon a cambiarne la fisionomia, tanto era distinto e distante, quanto la ridondanza artistica della Galleria che incorporava i dipinti nel proprio contesto architettonico e scultoreo, pittorico e ambientale facendone parte integrante, poco evidenziata, di una residenza principesca tutta particolare.
L’impostazione della mostra
Alle Scuderie del Quirinale, invece, la scena è tutta per i dipinti del Maestro, ciascuno é alla ribalta investito da un fascio di luce nel buio come fosse l’occhio di bue del palcoscenico che illumina la star, lo sfondo è neutro, l’isolamento rispetto agli altri quadri ne fa dei solisti, non dei componenti di un’esposizione corale. E ognuno dei grandi dipinti esposti sembra voglia raccontare la propria storia, in un inedito “Spoon River” pittorico. Anche se qui non si tratta di un’“antologia”, anzi si è evitato volutamente il percorso antologico per seguire un percorso sintetico e mirato: la ricerca delle cosiddette “opere capitali”, cioè quelle accertate con sicura autografia del Maestro.
L’approccio è inusuale e per ciò stesso rimarchevole nell’anno delle celebrazioni del suo IV Centenario nel quale la ricerca esplora in profondità l’intera produzione sua e della bottega, cercando di definire i confini di un catalogo mutevole; e si estende ai Caravaggeschi, per disboscarne il bosco troppo folto e ricercando l’autenticità dell’ispirazione.
Si risale addirittura ai precursori, gli artisti milanesi che Michelangelo Merisi vide nell’adolescenza e nella sua prima giovinezza di cui non vi è nessuna sua traccia pittorica, e nei quali si possono trovare i semi del grande Maestro, tanto che Vittorio Sgarbi, alla presentazione delle iniziative del IV centenario ne parlò definendo la mostra che cercava di promuovere e il Maestro “Gli occhi e il buio di Caravaggio”: ci colpì al punto di farne il titolo del nostro servizio.
Qui invece la concentrazione su Caravaggio è tale da evitare le opere a rischio di “bottega” e le “ulteriori versioni” anche se generalmente accreditate a lui, ma soggette a pareri discordi; si sgombra il campo dalle dotte discussioni dei critici d’arte sulle attribuzioni, a “parlare” sono soltanto le opere sicure del Maestro, che raccontano la loro storia, e le loro storie allineate fanno quella di Michelangelo Merisi, intrecciandone la pittura con la vita. Non certo da “pittore maledetto” – immagine che gli si è appiccicata anche per la biografia per certi versi tendenziosa del suo rivale e avversario Baglione – ma pur sempre movimentata, la diremmo anzi “spericolata”.
Non è stata una scelta facile, ha richiesto una riflessione approfondita sul piano scientifico e un’azione non facile sul piano organizzativo trattandosi di prelevare per quattro mesi “quelle” opere, e proprio quelle, dai maggiori musei del mondo nell’anno del IV Centenario: dalla Biblioteca Ambrosiana di Milano e dagli Uffizi di Firenze sono arrivati la Canestra di frutta e il Bacco, dal Metropolitan di New York e dall’Ermitage di San Pietroburgo I musici e Il suonatore di liuto, dallo Staatliche Museum di Berlino e dal Kimbell Art Museum di Fort Worth l’Amor vincit omnia e I bari e così via dai più importanti musei.
Si è scelto invece di rinunciare all’operazione più facile, esporre i dipinti sicuri della chiesa romana di Piazza del Popolo e delle altre chiese, vicini e disponibili: si è voluta rispettare la loro collocazione storica, senza sottrarli al proprio ambiente e contesto ma facendone parte integrante di un percorso caravaggesco romano che non si esaurisce alle Scuderie: ma è nell’esposizione che trova il suo filo d’Arianna tra le vicende della vita e le diverse espressioni stilistiche di un’arte straordinaria.
La presentazione: Strinati e Paolucci
Come è nata questa impostazione lo ha spiegato all’anteprima l’ideatore della mostra, Claudio Strinati con tono commosso e parole non di circostanza, espressione di un immedesimarsi sincero e intenso: “L’idea ispiratrice, un po’ scientifica e un po’ fantasiosa, è stata che curatore della mostra fosse l’autore, Michelangelo Merisi, una pretesa giustificata da una lunga frequentazione nella quale si è tentati di trovare una sintonia. E allora, trattandosi di celebrarne l’anniversario, mi sono detto: se gli avessi parlato nel 1610 e gli avessi chiesto: ‘Maestro, come faresti la mostra?’ credo mi avrebbe risposto: ‘Facciamola con le opere più belle e sicure che sono queste, senza quelle incerte, e coinvolgiamo i miei estimatori. Quelle nelle chiese è bene lasciarle dove sono, le altre prenderle, ce n’è una che non la molleranno facilmente, ma alla fine la molleranno”. Previsione realizzata: il celebre Canestro di frutta è uscito così per la prima volta dalla Pinacoteca della Veneranda Biblioteca Ambrosiana di Milano; e si è potuta realizzare una mostra straordinaria.
Antonio Paolucci, al quale la posizione di direttore dei Musei Vaticani dà un’autorevolezza che si aggiunge all’elevato spessore di studioso, l’ha chiamata “la mostra di Strinati” , usando le parole “mai nulla di così bello, un Caravaggio puro, un Caravaggio essenziale, un Caravaggio vero” che “tocca tutte le espressioni dell’animo umano”. E non è stato facile, ha sciorinato le difficoltà che Strinati per modestia aveva taciuto: “L’idea è stata temeraria per due difficoltà: era problematico avere i prestiti e non era necessariamente gradita dai colleghi. E’ stata superata la prima, Strinati lo hanno accontentato; la seconda è caduta per il fatto che non deve essere gradita dai colleghi ma dalla gente, e questo si ottiene presentando i quadri che si conoscono dal liceo classico. Così facendo, pur se temeraria, è diventata la mostra più semplice e facile del mondo: siamo stanchi di mostre complicate e difficili, ci si rivolge alla gente mediamente colta che vi si deve riconoscere, non ai pochi addetti ai lavori”. E ha concluso definendola “il capolavoro di Strinati”.
Molto altro è stato detto alla presentazione da Croppi e Broccoli nell’ottica romana, da Emmanuele nell’ottica di presidente delle Scuderie e del Palexpo, e da Rossella Vodret e Francesco Buranelli nell’ottica di curatori della mostra. Ci sembra, tuttavia, che Strinati e Paolucci abbiano dato l’interpretazione autentica di un evento che ha messo in fila in paziente attesa folle di visitatori.
Con questa introduzione siamo entrati nel clima della mostra, la racconteremo ripercorrendo anche le tappe principali della vita del Maestro attraverso le 24 opere esposte nei periodi in cui è divisa. Premettiamo soltanto che al fascino dell’allestimento di Michele De Lucchi si aggiunge quello ottenuto dai curatori mediante il confronto tra opere e soggetti in modo da creare una dialettica autentica rispetto a quella, che si è evitata, tra i diversi atteggiamenti della critica sulle attribuzioni.
E mediante la collocazione in tre grandi settori contrassegnati da uno sfondo di diverso colore, che corrispondono alle differenti fasi della sua vita: così ci immergiamo nel verde della “giovinezza”, per poi passare al rosso del “successo” fino al grigio della “fuga”, alla quale segue la scomparsa.
La fase della “giovinezza”: la vita
La rassegna pittorica di questa fase inizia nel 1592, dopo il trasferimento a Roma. Dei primi ventuno anni – era nato il 29 settembre 1571 nella cittadina vicino Milano di cui Michelangelo Merisi prenderà il nome – non si conoscono sue opere, ma i particolari della prima parte della sua vita possono fare luce sulla formazione che si riverbera sulle opere pittoriche che nascono a Roma.
Il padre Fermo Merisi era architetto e amministrava la casa di Francesco Sforza, del ramo cadetto e marchese di Caravaggio. Questa posizione gli dava una certa stabilità e benessere economico e metteva in contatto la sua famiglia con la corte della marchesa, Costanza Colonna figlia di Marcantonio, un aristocratico molto vicino al papato. Ma durò poco, la peste di Milano del 1577 fece tra le sue vittime il padre Fermo e un fratello, e lui a soli sei anni restò affidato alla madre.
Sette anni dopo, nel 1584, lei lo fece entrare nella bottega di Simone Peterzano che si impegnò a insegnargli per quattro anni il mestiere del pittore, al costo non certo modico di 44 scudi d’oro. Si trasferì nella casa di Peterzano nella Milano che recava ancora i segni della peste ed era esposta alle scorrerie spagnole. Dalla quiete della provincia contadina al clima inquieto e tormentato di una città dominata dal fervore religioso di Carlo Borromeo, riflesso nelle opere delle chiese commissionate a Peterzano. Il giovane apprendista completò i quattro anni di tirocinio e apprese il realismo lombardo del suo precettore ma soprattutto si fece un’idea personale della pittura “fedele al vero”. Conobbe di certo il “Cenacolo” di Leonardo che lo istradò ulteriormente sul “vero”, in un viaggio a Venezia l’opera di un allievo di Raffaello con nuove forme di rappresentare l’espressione e la prospettiva; nonché conobbe i pittori milanesi suoi precursori con i tratti di umanità e di umiltà e l’uso delle ombre nei loro dipinti, lo sottolinea Sgarbi parlando degli “occhi di Caravaggio”.
Un’altra improvvisa accelerazione nella sua vita, muore la madre nel 1590, lui vende le proprietà e divide il ricavato con i due fratelli, poi nel 1592 si trasferisce a Roma, non si sa se perché già coinvolto in un fatto criminoso, come scrive Giovanni Bellori, o per esprimervi l’arte acquisita.
La città è in pieno fermento per le committenze religiose legate anche alla Controriforma, e lui in un primo periodo cerca di far valere il pregresso rapporto familiare con gli Sforza e i Colonna, i quali ultimi gli procurarono l’ospitalità di Pandolfo Pucci, dalle frequentazioni ecclesiastiche. Non resistette a lungo, lamentandosi per il vitto insufficiente lasciò la sua casa e andò a vivere da solo. Ancora nulla sulla sua attività, sembra che lavorò per un pittore, Lorenzo, venuto dalla Sicilia, poi ne conobbe un altro, Gramatica, e qui spunta la notizia di alcune “mezze figure” dipinte per lui.
Una malattia la fa ricoverare all’ospedale dei poveri della Consolazione, ma è subito ripagato di questa disavventura, entra nella bottega di Giuseppe Cesari, un colpo da maestro trattandosi di un personaggio molto vicino a Clemente VIII, da poco assurto al soglio pontificio, e come Cavalier d’Arpino pittore molto quotatoe nell’ambiente ecclesiastico e nobiliare.
Fin qui il cono d’ombra sul Caravaggio pittore, solo notizie sul giovane Michelangelo Merisi, del quale, anche se per quattro anni fa l’apprendista da un pittore e per altri quattro anni frequenta pittori – di tutti si sanno i nomi – non si conosce nessuna opera. Nella bottega del Cavalier d’Arpino, si legge nella biografia, “fu applicato a dipinger fiori e frutti”, arte ritenuta minore della pittura di figure, ma che per la sua ricerca del vero era sullo stesso piano di attenzione spinta alla
Le prime opere del periodo giovanile: 1593-94.
Siamo nel 1593, dal cono d’ombra che abbiamo cercato di rischiarare con notizie sulla vita si passa alla luce delle sue prime opere: il “Ragazzo con canestra di frutta” della Galleria Borghese, dove la natura morta si sposa alla figura con la stessa cura del particolare e intensità di rappresentazione. La mostra lo presenta per un raffronto con il “Bacco” del 1596-97 della Galleria degli Uffizi, anch’esso con il suo canestro, e con la “Canestra di frutta”, del 1597-98, in prima uscita assoluta dalla Pinacoteca della Biblioteca Ambrosiana.
Tre opere con tanti punti in comune riconducibili al naturalismo del primo periodo romano con una luminosità data da un cono di luce che taglia la composizione nel primo, oppure da un’atmosfera di chiarezza diffusa negli altri due. L’attenzione agli stessi particolari si nota per le macchie sulle foglie e, nelle due “canestre”, per la spaccatura naturale del fico troppo maturo.
Molto interesse suscita l’inconsueto accostamento delle figura alla natura morta, che troviamo nei due primi dipinti. In entrambi c’è pari cura per i particolari della “natura morta” e quelli della “natura viva”; come avveniva per i fiamminghi, molto seguiti a Roma, le forme venivano poste in risalto nei loro dettagli con la luce anche riflessa. Anna Coliva rileva “la diversità di stesura esecutiva della figura, più sfumata e imprecisa nella definizione”; la attribuisce “all’intenzionale sfida a rappresentare con diversa capacità mimetica la contrastante natura della realtà viva, dotata di anima, e quella morta, degli oggetti inanimati”. La fonte luminosa unica integrava i due temi riuniti, la persona e le cose.
L’arco dei soggetti doveva allargarsi presto dalla mitologia e la frutta a composizioni ispirate anche dalla realtà quotidiana. Il suo naturalismo diventa realismo ispirato alla vita che si svolgeva tra osterie e botteghe dove imperversava la svolta moralistica di papa Clemente VIII con il divieto dei giochi di bettola e l’ostracismo per mendicanti e zingari, oltre che per i delinquenti.
E’ di questo periodo “I bari”, del 1594-95, dal Kimbell Art Museum di Fort Worth anteriore a due delle opere prima commentate e anticipate per la comparazione. Il nostro ha lasciato la bottega del Cavalier d’Arpino, i soggetti rappresentati sono quelli tipici delle osterie, si tratta di uno dei suoi primi dipinti con più figure. E’ una composizione quasi triangolare, su più piani, sembra in rilievo, con tre soggetti, i due giocatori e il baro che sbircia di soppiatto le carte, e tre oggetti, carte, scatola con dadi e tavolo; i movimenti delle braccia sono avvolti dalla luminosità di matrice veneziana, con l’assonanza coloristica della giubba del baro con quella del giocatore suo compare. Ebbe molta importanza per lui perché fu acquistato dal cardinal Del Monte, che da allora cominciò a proteggerlo, e perché fu apprezzato dall’ambiente aristocratico.
1594-99: soggetti musicali, religiosi, biblici
Il nostro risiederà presso il cardinale e alcuni dipinti successivi saranno di argomento musicale, per così dire, essendo Del Monte non solo musicista e studioso della materia ma anche collezionista di strumenti e partiture che hanno un ruolo non secondario nei due dipinti in mostra, “I musici” dal Metropolitan Museum of Art di New York e “Suonatore di liuto” dall’Ermitage di San Pietroburgo: ambedue a cavallo del 1595.
Parla bene di entrambi i dipinti il suo biografo rivale Baglione, cosa alquanto rara: per il primo, che parte dal 1594, scrive di “alcuni giovani ritratti dal naturale assai bene”; per il secondo, che arriva al 1596, “che vivo e vero tutto il parea”. Naturale e vero, soprattutto nelle bocche socchiuse dei suonatori che in tutti e due sembrano prese dalla realtà e, per il secondo, anche nel movimento molto pronunciato e non convenzionale delle mani. E’ evidente la cura nel rappresentare gli strumenti, che nel secondo dipinto sono mostrati con la prospettiva di derivazione lombarda, e il panneggio che assume connotati classici, con le pieghe delle tuniche bianche rispetto ai rigidi corsetti degli abiti romani moderni dipinti nei “Bari”.
Ma qui, soprattutto nei “Musici”, è l’allegoria pagana a subentrare insieme al classicismo stilistico, tanto che la figura in secondo piano ci sembra richiamare il suo “Bacco”; e c’è un amorino che prende un grappolo d’uva; come lo richiama il piatto con la frutta alla destra del “Suonatore di liuto” anche nei fichi maturi spezzati e nelle foglie maculate, il realismo nella “natura morta”. La caraffa con i fiori di cui si intravede il riflesso dell’acqua, così nelle parole del pur severo Baglione: “Sopra quei fiori eravi una viva rugiada con ogni esquisita diligenza finita. E questo (disse) fu il più bel pezzo che facesse mai”.
Anche la partitura musicale in entrambi merita di essere sottolineata, perché torna nel “Riposo durante la fuga in Egitto”, degli stessi anni, dalla Galleria romana Doria Pamphilij, eseguito per un monsignor Petrignani che lo ospitò nella parrocchia di San Salvatore in Lauro nel 1594, quando lasciò la bottega d’Arpino. Ci sembra di vedere nella figura efebica con un leggero panneggio classico che ne avvolge il corpo un residuo pagano che accompagna la tenera immagine della Madonna stretta al Bambino mentre Giuseppe, quasi appartato, regge lo spartito per l’efebo angelo che suona il violino: è stato identificato il motto musicale “Quam pulchra es et quam decora, charissima in deliciis”, dal “Cantico dei Cantici”, la glorificazione della Vergine Maria. Il tutto immerso in una natura senza profondità né prospettiva, la luce fa spiccare l’angelo quasi pagano e la Madonna cristiana, quasi un passaggio di consegne all’insegna della sacralità della musica.
Passiamo al 1599, la scena cambia drasticamente, il naturale e vero delle figure, che avevamo identificato nelle bocche socchiuse dolcemente, assume espressioni di forte determinazione e straziante tragicità in “Giuditta che taglia la testa ad Oloferne”, dalla Galleria Nazionale romana d’Arte Antica di Palazzo Barberini. Anche questo è un dipinto di svolta, perché si cimenta con una scena particolarmente drammatica mostrando la sua capacità di rappresentare storie allora molto richieste. Il contrasto tra l’espressione decisa e ferma della giovane Giuditta e l’orrore degli occhi sbarrati della vecchia serva unita alla tremenda agonia di Oloferne – bocca spalancata e sguardo nel vuoto – mostrano il livello raggiunto nel rappresentare i moti dell’animo, di matrice leonardesca.
Il volto di Giuditta è quello di Fillide Melandroni, una cortigiana che diede le sue sembianze anche a sante ed eroine del nostro, e per il realismo rappresentativo era perfettamente riconoscibile, cosa che creò non pochi problemi all’artista nel suo nuovo ambiente, diverso da quello popolare. Ma ben altri problemi stavano per addensarsi sulla sua vita! Ne parleremo ripercorrendo le altre due fasi, il “successo” e la “fuga”, con la descrizione delle restanti 16 opere in mostra alle Scuderie..
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