di Romano Maria Levante
– 29 giugno 2010 –
Della mostra al Vittoriano dal 6 marzo al 29 giugno, abbiamo descritto l’innovazione iniziale rispetto al paesaggio tradizionale della scuola di Barbison, nelle stampe fotografiche d’autore d’epoca (da Cuvellier a Le Gray a Le Secq) e nei dipinti dei pittori trasferiti nella foresta di Fontainebleau per dipingere “en plein air” (da Daubigny a Courbet a Corot). Si trattava della “vitalità della natura”, l’ouverture della “sinfonia”. Passiamo ora al resto della “partitura” con un tema anche naturalistico, l’“economia della natura”, fino all’“utopia della natura” di Monet.
Sisley: La Senna a Saint-Mammès
L’evoluzione all’interno del movimento impressionista non solo vede approfondire lo stile tutto particolare in cui luce e colore erano dati da pennellate senza gradazioni e senza precisione di particolari con un tratto rapido che faceva sembrare i dipinti degli schizzi appena abbozzati; vede anche mutare i contenuti, legati pur sempre all’ambiente naturale e al paesaggio, ma non più rivolti solo a riprodurre la realtà dei luoghi scelti per la “vitalità della natura” piuttosto che per la bellezza idealizzata dei paesaggi; bensì estesi a ricomprendere l’intera “economia della natura”,
L’“economia della natura” nel naturalismo della seconda metà dell’‘800
Consideriamo il cuore dell’esposizione al Vittoriano, che la fa definire mostra-ricerca, e le dà un carattere rimarchevole: il tema dell’“economia della natura”, che avvicina l’impressionismo all’ecologia, approfondito da due personalità di Storia dell’arte, il curatore della mostra Eisenman, dell’Università di Chicago, e House dell’Institute of Art di Londra membro del comitato scientifico.
Entrambi ne hanno analizzato l’evoluzione, nella sua forma più matura, dall’aspetto solo naturalistico: “La ‘nuova pittura’ – afferma Eisenman – trattava del conflitto e dell’interazione dinamica fra natura e industria, svago e lavoro, libertà e costrizione, cambiamento e tradizione. Gli impressionisti rappresentavano in modi al tempo stesso ovvii e sottili l’impatto della modernizzazione sulle città e le campagne francesi”. “La decisione di concentrarsi su scenari di cambiamento – si chiede House – era un modo per celebrare i nuovi paesaggi e le forme di vita che rappresentavano, oppure i contrasti presenti nei soggetti scelti servivano a sottolineare gli sconvolgimenti provocati dalla modernizzazione costituivano pertanto una critica a quei processi di cambiamento?”.
E’ difficile dare una risposta univoca a questa domanda, perché anche nello stesso pittore i medesimi elementi di modernità possono assumere significati diversi da un dipinto all’altro. Allora, si chiede ancora House, “dovremmo distinguere la scena rappresentata dalla maniera in cui era trasposta sulla tela e considerare i dipinti come interpretazioni del paesaggismo anziché come commenti sui passaggi reali”? Ma anche in questo secondo caso la risposta sarebbe incerta: House cita come esempio le fabbriche di Pissarro – certe volte sono “relegate sullo sfondo”, altre sono“il fulcro della composizione” – che possono rendere appropriata o meno una “lettura ecologica” nei due estremi opposti, dalla “distruzione del paesaggio” alla “presenza benevola nel paesaggio”.
Quello che conta, e accomuna i due illustri critici ora citati, è la matrice filosofica-naturalistica della loro impostazione, che parte dalle concezioni che si vennero diffondendo in Francia dopo la metà dell’800 con il geografo Reclus il quale in “La terre”, del 1869, descriveva il pianeta come “un insieme di sistemi umani e naturali”, dai sistemi di fiumi e ghiacci inseriti nel “sistema delle acque” ai sistemi di montagne e geologico fino al “sistema agricolo”; tra loro interdipendenti (le acque vengono dai monti): “Gli esseri umani sono in grado di integrarsi con questi diversi sistemi e vivere in quasi ogni angolo del pianeta, ma sanno anche trarre ispirazione dai suoni e dagli ambienti naturali””; secondo lui “la bellezza artistica e naturale svolgerebbe un ruolo significativo nella creazione e riproduzione di sistemi ecologici complessi”.
E’ un concetto di ecologia espresso già nel ‘700 dal botanico svedese Linneo secondo cui “tutti gli organismi occupano un determinato posto nella natura assegnato loro da Dio e insieme al mondo inanimato formano un ordine grandioso e d equilibrato. In secondo luogo ogni elemento di natura inorganica – minerali, acqua, aria, terra – costituisce il sostrato essenziale per l’esistenza di piante e animali e non può essere rimosso e sconvolto se non sacrificando l’intero sistema ordinato da Dio”. Il tedesco Humboldt descrisse nei volumi del “Kosmos”, “la grande catena di connessioni mediante le quali tutte le forze naturali sono collegate e rese interdipendenti”.
Il termine “ecologia” fu introdotto nel 1866, e diffuso in Francia nel 1874, dal prussiano Haenkel che tra le leggi naturali poneva “l’ecologia degli organismi, la conoscenza della somma dei rapporti degli organismi con il mondo esterno, con le condizioni organiche e inorganiche dell’esistenza; la cosiddetta ‘economia della natura’, le correlazioni tra tutti gli organismi che vivono insieme in uno stesso luogo, i loro adattamenti all’ambiente circostante, le loro modificazioni nella lotta per l’esistenza”. Pensiero derivato da Darwin, di cui era seguace, che aveva parlato per primo di “economia della natura” intesa come insieme di “adattamenti reciproci di tutti i viventi fra loro .e con le condizioni fisiche di vita” in una “selezione naturale” che dipende dai rapporti degli esseri viventi con il rispettivo ambiente fisico e sociale in una continua competizione ad adattarsi meglio. Dell’equilibrio nel mondo naturale e della competizione come principio base del cambiamento aveva parlato anche l’inglese Lyell nei suoi scritti in materia geologica e antropologica.
Tornando a Reclus, va sottolineato che pur essendo evoluzionista non condivideva tale principio darwiniano secondo cui la natura e la società sono impegnate “in continue lotte per la sopravvivenza e per la dominanza”, ma riteneva “i due ambiti reciprocamente essenziali” e osservava “l’azione congiunta della natura e dell’uomo stesso, il quale agisce sulla terra che ha formato”. Lo scrittore Tissandier lo esemplificò nel 1967 in “L’Eau”, dove illustrò i”simultanei effetti distruttivi e riproduttivi” dell’acqua, che da un lato scava, dall’altro deposita sedimenti, azioni evidenziate in due dipinti di Courbet, del 1856 e del 1877: l’acqua è assimilata dallo scrittore al sangue laddove il ferro è lo scheletro della terra, la cui evaporazione, il flusso e riflusso “corrispondono al battito del cuore umano e alla sua linfa vitale”.
In questo contesto, filosofico-naturalistico prima che pittorico, ribadiamo che non si trova una risposta univoca all’interrogativo posto da House sull’approccio degli impressionisti al tema dell’ecologia, se solo descrittivo o anche di denuncia. Mentre concordiano con la conclusione di Eisenman: “Ma ancor più di Reclus, Tissandier e il realista Courbet, furono i pittori impressionisti a rappresentare l’’economia della natura’, avvero la terra come un insieme di sistemi umani e naturali collegati tra loro, con tutte le parti ugualmente vitali e reciprocamente vincolate”.
Questo approfondimento, che abbiamo posto come prologo alla “sinfonia della natura” dei quadri che illustrano “la nuova armonia dell’impressionismo” nel 1870-80, potrà essere ritenuto dispersivo oltre che noioso da chi è giustamente ansioso di passare ai dipinti e ai loro autori. Ma il grande pregio della mostra sta proprio in questa ricerca che dà un’immagine diversa, più colta e pertinente dell’impressionismo, altrimenti visto essenzialmente nei suoi aspetti coloristici e pittorici in generale, alquanto avulsi dalla sua vera matrice; è stata una scelta che può avere un costo per l’esposizione nel renderla meno spettacolare, come il nostro resoconto può apparire meno gratificante. Ma sono prezzi da pagare in nome della cultura. E chi supererà la soglia della conoscenza troverà un ben maggiore godimento quando vedrà le opere potendone apprezzare tutto il significato e il valore anche in termini di contenuti. Come è avvenuto per noi stessi.
Bazille: Veduta di un villaggio
La nuova armonia dell’impressionismo da Daubigny a Guillamin.
La sezione si apre con la “Veduta di un villaggio” di Bazile, 1868, una fanciulla seduta in primo piano che guarda fuori del quadro su uno sfondo che si propone all’attenzione con l’abitato nitido dopo il verde e il fiume, una compresenza quasi competitiva. Di autori rappresentati in mostra da una sola opera c’è anche Boudin, con “Etretat”, 1891, .il cui soggetto – una spiaggia con barche di pescatori che continua nelle monumentali falesie – era stato riprodotto molte volte da Monet, che aveva imparato da lui a dipingere all’aperto, ma sempre senza la cappella in alto sul monte a destra.
Come per i primi impressionisti iniziamo la visita dalle acqueforti e stampe all’albumina esposte in questa sezione, partendo dalle più antiche, le 16 acqueforti di piccole dimensioni di Daubigny, che fanno parte dell’album “Voyage en bateau” del 1861, una sorta di “reportage” disegnato con tratto sottile e forte chiaroscuro, per esprimere la gioia di vivere “en plein air” con i compagni di viaggio di cui sono descritti nelle singole acqueforti particolari divertenti come lo “scambio di volgarità con un’altra barca” o caratteristici come il “pranzo in barca” e il “traino con la fune da parte del mozzo”, ritratto anche “mentre pesca”, fino all’“incrocio di battelli a vapore”, la “ricerca della locanda” e “il ritorno”; e all’avvertimento ecologico “Attenti ai battelli a vapore!” inquinanti.
Troviamo anche 11 acqueforti di Guillamin, alcune con la presenza di persone, in tutte elementi non naturali, casette, ciminiere di fabbriche e fumaioli di barche a vapore inquinanti. Lo rileviamo nelle 6 piccole stampe all’albumina di Pissarro con vedute di un abitato e di chiatte e stabilimenti sulla Senna, e di un covone al centro e filare di alberi sul fondo, “Effetto di pioggia”, 1879, che ricorda il “Paesaggio a Gennevilliers” dipinto dalla Morisot nel 1875, quattro anni prima..
Di questi due artisti c’è una importante presenza di dipinti a olio su tela, per cui passiamo subito alla più spettacolare e ricca sezione della mostra.
Di Guillamin ci sono 7 quadri, in quasi tutti c’è la presenza umana, ma appare dominante l’invadenza delle opere realizzate dall’uomo: come nei dipinti “L’acquedotto ad Arcueil”, 1874, con la condotta e le relative arcate e un alberello in primo piano che configura scorci diversi alla sua destra dove corre la strada e a sinistra con in lontananza donne eleganti a passeggio; e “La Senna a Rouen”, 1899, per metà occupato da passanti con alcune carrozze in sosta; l’altra metà dal ponte sul fiume con barche e gru portuali, case lontane e ciminiere fumanti, la vita industriale moderna in piena attività sotto un cielo di pioggia che proietta i suoi riflessi sul lungofiume e sulla Senna, con tocchi di colore diversi, grigio, blu e rosa nella strada, azzurro, verde e bianco nell’acqua.
Li richiamano in qualche misura due quadri di Harpignies, che nel 1853 dipingeva l’arcadica “Veduta di Capri” che abbiamo visto aprire la mostra, e ritroviamo trent’anni dopo con “Ferrovia a Briare”, e “Il vecchio Pont du Carrousel, Parigi”, entrambi nel 1886-88, assimilabili per soggetto e stile ai due ora commentati.
Tornando a Guillamin, la vita non pulsa ma riposa in “Avamporto, Dieppe” 1881,. con le barche alla fonda e il cielo nuvoloso che lascia cadere una pioggia di luce straordinaria a strisce rosa e bianche sull’acqua mentre torna la natura ma vista nelle sue espressioni tormentate in “Le grotte di Prunal vicino a Pontgibaud (Alvernia) e in “La Forra della follia, Crozant”, 1894, dove muri di pietra e di rami spogli formano una rossa cortina alla forra e alle rovine in lontananza;.
Il “Paesaggio dell’Ile de France”, 1875-85, mostra equilibrio tra le due metà del quadro verticale, gli alberi che svettano sulla destra e la figura umana con le case dinanzi a sinistra la cui incertezza sul percorso sembra riassumere l’incertezza dinanzi all’“economia della natura” che si sta sovrapponendo alla “vitalità della natura”, qui in positivo. Mentre nei tre paesaggi di Cazin, dello stesso periodo, “Equiben sulla scogliera: bassa marea”, “Paesaggio con case, sera di settembre”, fino a “Fortezza”, la visione negativa:sembra che la vitalità si spenga in ambienti desolati e deserti.
Pissarro: Paesaggio a Pontoise
L’“economia della natura” in Pissarro e Sisley.
La vita operosa e la forza della natura spiccano nell’altro acquafortista e grande pittore Pissarro, 8 i dipinti esposti: Nei due più antichi, del 1863, il “Carro con tronchi” mostra la prima, “La Varenne Saint-Hilaire” la seconda con il prato e la quinta di alberi inseriti nella vita delle persone presenti dell’abitato in fondo, ma in uno stile dal primo Harpignes di “Veduta di Capri”. La natura dominante torna nell’ultimo, del 1885, “Il campanile di Bazincourt”, l’intreccio che si frappone all’edificio, fatto di cielo e nuvole, erba e rami, è contornato dagli alti tronchi degli alberi che svettano anche sul campanile, un rapporto simbolico in un suggestivo dipinto “verticale”.
Tra questi due estremi temporali abbiamo due dipinti del 1870, con la natura “abitata” da persone a riposo in “La foresta”, straordinario il folto fogliame nei tocchi impressionisti di verde, luci ed ombre, vero protagonista rispetto alla costruzione da un lato e alle figure centrali che, pur indistinte nello stile impressionista, sono identificati in borghesi per diporto e non in contadini al lavoro; e persone con animali al pascolo nella campagna davanti all’abitato in “Veduta di Marly-le-Roy”.
Sono “abitati” anche i tre dipinti del 1878. Con la presenza umana ben visibile in “Il viottolo di Le Chu”, una coppia chiacchiera, una capra bruca l’erba sulla destra di una campagna che appare desolata, forse per le ciminiere sul fondo, anche se appena accennate, ma il cui fumo bianco si mescola alle nuvole, e in “Riposo nel bosco”, tocchi di foglie e campagna che più impressionistici non potrebbero essere, come le tre figure, indistinte pur se centrali. E’ una presenza che si avverte in “Paesaggio a Pontoise” indirettamente,a parte una minuscola sagoma, nelle casette della fattoria al centro seminascoste dal verde, splendidi gli alberelli, e nel mucchio di concime in primo piano.
Con “Angolo del giardino, neve, Eragny”,1892, una visione intimistica, la nevicata a fiocchi su alberi e siepi con pennellate bianche di raffinatezza giapponese; che si ripete in “Dune a Knokke”, 1894,nel sentiero che porta alle piccole casette a destra, in un angolo riposto all’angolo estremo della composizione, incentrata sulla morfologia ondulata del terreno e sulle nuvole a cumuli.
Non c’è nel pittore una posizione univoca, né di denunzia della intrusione nella natura né di celebrazione positiva della feconda coesistenza, forse la presa d’atto di situazioni diverse la cui rappresentazione sottolinea i dati della realtà senza atteggiamenti precostituiti; il pittore “en plein air” non può che registrare le diverse forme della modernità nella natura che vede sul luogo.
Lasciamo Pissarro, una vera testimonianza la sua, questi quadri sono intrecciati alla sua presenza nei luoghi raffigurati dove ha abitato, e alle vicende della propria vita, nonché alle iniziative del gruppo di impressionisti di cui faceva parte: tra questi spiccano i grandi nomi di Sisley e Monet, di cui si ricorda l’abitazione a Bougival, vicino alla sua di Louveciennes, si erano conosciuti all’inizio del 1860 , anche con Guillaumin e Cezanne, all’Académie Suisse, la scuola di disegno di Parigi.
In Sisley nei“Covoni”, 1895, ritroviamo il tema di Guillaumin con le ombre lunghe, il contadino in riposo e gli uccelli in volo, icone simboliche di vita agreste; tema caro anche a Monet, c’è una sua serie del 1990-91 e due dipinti, tutti non esposti in mostra: “Covone presso Giverny”, 1887, analogo primo piano con ombre, e “Covone a Giverny”, 1886, nel quale il covone viene aggiunto all’uguale composizione, molto vasta, del “Campo di papaveri, Giverny” di cui si dirà tra poco..
Più indietro nel tempo, al contrario di Pissarro c’è in Sysleyunimpegno nel rappresentare i cicli naturali e anche i loro sconvolgimenti dovuti all’azione invasiva dell’uomo sulla natura, secondo quanto descritto da Reclus e Tissander: quando l’“economia della natura” diventa diseconomia.
“Neve a a Port Marly, brina”, 1872, esprime il primo approccio: la neve con tocchi sfuocati a sinistra, degli alberi in alto dietro i quali si intravede un’abitazione, e l’acqua a destra – dove sono a fuoco i riflessi degli alberi dalle foglie accese sulla riva opposta – esprimono visivamente la “poesia sensoriale impressionista”, fatta di sfumature e vibrazioni. Così “Brina in autunno, estate di san Martino”, 1974, due persone parlano al centro di una composizione dominata dalle case in alto e dal rosso delle foglie cadute e dell’intrico di rami, mentre la brina fa brillare l’erba del sentiero, sotto un cielo di nuvole e azzurro che illumina la scena: la presenza umana nella natura vitale.
La documentazione dell’evento idrologico nei due dipinti a distanza di otto anni, “Inondazione a Port Marly”, 1872, reiterato nella “Inondazione a Moret”, 1880, evidenzia la costanza nella denuncia, tenuto conto che la prima inondazione fu da lui riprodotta in altri tre dipinti da punti di vista diversi; tra i due quadri differenza anche nel clima, nel primo c’è rassegnazione attiva, le donne parlano sulla soglia della casa che emerge dalla strada inondata, gli uomini sulla barca che attracca; nel secondo non c’è presenza umana ma sembra che tutto si ribelli, dall’intrico di rami degli alberi spogli alle case poste in alto, con le due macchie nere nell’acqua e nel terreno.
Altrettanto tormentato “La Senna a Marly”, 1873, l’anno successivo alla prima alluvione, la pace non è tornata nella natura, a sinistra la riva scoscesa, a destra una quinta filiforme di alberi, in mezzo l’acqua limacciosa come il cielo, due imbarcazioni invasive, una terza con uno sbuffo di vapore, e una sorte di croce allusiva al centro: quanto basta per ricordare l’incubo recente.
Del 1872 oltre all’inondazione un’immagine molto diversa in “Pescatori che stendono le reti”, la presenza umana è nelle piccole figure sulla barca e a riva, dove le reti con la loro trasparenza velano lo sfondo e, insieme ai panni stesi, richiamano le nuvole che si specchiano nell’acqua nella tipica forma impressionista; come i fili d’erba in primo piano resi vibranti da piccole pennellate di colore.
Siamo così allo straordinario dipinto di Sisley, “La Senna a Saint-Mammès”, 1881, così simile nel titolo a “La Senna a Marly”, così diverso, lì c’era l’inquietudine, qui non solo si sente la pace ritrovata ma la maestosa bellezza della natura in cui le piccole figure umane nelle barche fanno corpo con il fiume, su cui si protende un ombrello di rami e vegetazione riflessa sull’acqua come una quinta teatrale sullo spettacolo della natura che trova la sua massima espressione in quelle acque increspate di tocchi bianchi e viola che le rendono vive e vitali oltre che espressioni della bellezza assoluta, un capolavoro che resta negli occhi e nell’anima.
Monet: Mattino a Fécamp
La natura nel primo Monet e il rifugio dell’ultimo Renoir,
Non a caso i riflessi sull’acqua riprendono il tema prediletto dell’amico Monet, in particolare in “Un ramo della Senna vicino a Vètheuil”, 1878, anche l’acqua è molto simile; mentre l’“Effetto di neve al tramonto”, 1875, di quest’ultimo segue quello di Sisley del 1872 ma è molto diverso, qui non è la natura protagonista ma un complesso di case e industrie con un velo di alberi sulla sinistra.
Siamo giunti così a “Il prato”, 1879, “Campo di papaveri a Vétheuil”, 1880, e “Campo di papaveri, Giverny”, 1885; approdiamo al culmine dell’impressionismo: nel primo due bimbi con l’amica di famiglia Germaine al centro e tre ragazzi più lontani sono letteralmente affogati in un verde con fiori gialli e sfumature d’argento che fa esplodere la natura nelle sue vibrazioni; nel secondo è affogata tra il verde degli alberi la chiesa del paese nello “spazio dietro lo spazio” formato dal prolungamento del prato in primo piano punteggiato dei fiori rossi con qualche fiore giallo e dei tocchi scuri che lo fanno vibrare; nel terzo la “sinfonia della natura” espressa dalle due fasce orizzontali, che stringono le case coloniche allineate nella striscia centrale, davanti quella rossa dei fiori mossi dalla brezza, dietro quella verde scuro degli alberi, e poi il verde chiaro della campagna; non è in mostra la versione del 1886 “Covone a Giverny”, con in più soltanto il covone.
Raffigurazioni stupende che fanno già pensare al “luogo dell’anima, un’utopia in cui abbandonarsi alla riflessione” di cui ha parlato Bondi; in particolare, ha aggiunto, per “occuparsi solamente delle infinite sfumature dei fiori riflessi sull’acqua”. Dalla “vitalità della natura” e dall’“economia della natura” siamo giunti così al “rifugio della natura”, un rifugio ideale che Monet rese effettivo nel giardino acquatico di Giverny, un eden artificiale che aveva tutto il fascino e la suggestione di un’esplosione irresistibile di bellezza della natura.
Un rifugio nella natura fu anche quello agreste di Les Collettes, nel quale Renoir si ritirò nell’ottobre del 1908 dopo avervi acquistato l’anno prima una proprietà agricola; in mostra ci sono due dipinti che ne danno testimonianza, riguardano gli alberi, i loro rami contorti corrispondono ai “fiori riflessi nell’acqua” di Monet, per l’amore che Renoir dedicò loro, espresso nella biografia “Renoir mio padre, scritta cinquant’anni fa dal figlio Jean, il noto regista cinematografico. Definisce gli olivi di Les Collettes “tra i più belli del mondo”, descrivendoli come “imponenti, maestosi e al tempo stesso leggeri come piume”. Ne vediamo alcuni in “Les Collettes”, 1908, dipinto poco dopo il trasferimento, sono contorti perché, sempre secondo Jean Renoir, “esistono da cinque secoli e l’effetto combinato di tempeste, siccità, gelo, potature e incuria ha conferito loro le forme più bizzarre. I tronchi di alcuni somigliano a strane divinità”; e forse per far notare la differenza affianca sulla sinistra un normale albero da frutta dal tronco diritto.
Altra comparazione in “Ragazza sotto l’albero”, 1910, lo stesso bosco di olivi del precedente in cui il raffronto è con un albero a terra, che forma una sorta di L con quello eretto. Un capolavoro di pennellate intense con arancio e verde, giallo e azzurro, e una figurina bianca al centro, piccola e chiara, appena abbozzata, che diventa il centro e il fulcro della scena; come nel quadro precedente per le due figure sulla sinistra che raccolgono i frutti, una china e l’altra in piedi, nel rigoglio arboreo e campestre delle sue pennellate magistrali con al centro il lontano abitato sullo sfondo.
“Se non coltivò la terra per dar vita a un giardino elaborato come quello che il suo migliore amico Claude Monet creò a Giverny negli anni novanta – scrive Stuckey nel bel Catalogo della mostra – anche lui visse la proprietà di Les Collettes come un paradiso privato che lo avrebbe ispirato per il resto della sua vita”. E conclude, riferendosi ancora a Monet: “Al pari di quest’ultimo, Renoir concepì Les Collettes come un’utopia agreste in cui avrebbe trovato un’inesauribile fonte di ispirazione e un rifugio dalla modernità”.
Monet: Ninfee, armonia in blu
L’ “utopia della natura”, il rifugio ideale dell’ultimo Monet.
Nell’anno in cui Renoir dipingeva “Les Collettes” nella sua “utopia agreste”, Monet scriveva così all’amico scrittore Geffroy: “Questi paesaggi d’acqua e di riflessi sono divenuti un’ossessione”. Si era nel 1908, aveva cominciato a dipingere le ”Ninfee” dopo il 1990, allorché si era trasferito nella proprietà di campagna appena acquistata: “Ciò che Monet cercava a Giverny – scrive il curatore Eisenman – non era una comunità solidale ma un’isola utopica, un modello di pienezza o totalità in natura che potesse diventare la base per raggiungere la totalità nelle opere d’arte”.
L’“isola utopica” era il suo giardino, da lui coltivato con grande cura e competenza, studiando i cataloghi, con il proprio capo vivaista Truffault, uno dei maggiori giardinieri francesi e alimentandolo con esemplari provenienti da tutto il mondo, utilizzando serre dove provava piante sconosciute e faceva esperimenti di ibridazione. Cerano insieme fiori locali ed esotici, assortiti per offrire una gamma di forme e colori varia e mutevole: iris viola e tulipani rossi, “non ti scordar di me” azzurri e tulipani gialli, campanelle blu e gerani rossi, con il verde delle foglie, in un paradiso di colori e un tripudio della natura per le fioriture e impollinazioni differenziate nelle diverse ore del giorno e nei differenti periodi dell’anno. Conosceva l’approccio pittorico al giardinaggio di Gertrude Jekill che in “Wall and Water Gardens”, 1903, aveva dedicato un capitolo alle Ninfee.
Monet dedicò loro uno stagno nel giardino acquatico, contornato da salici piangenti e alimentato dal vicino fiume Epte attraverso canali che aveva fatto scavare, superando iniziali opposizioni, per la circolazione dell’acqua necessaria alla vita delle Ninfee. Cerano pergolati e un ponticello di stile giapponese, da lui immortalato in diversi dipinti deliziosi del 1899-900 dai titoli “Lo stagno delle Ninfee”, rispettivamente “armonia verde” e “armonia rosa”più “Ninfee bianche” che potrebbe chiamarsi “armonia bianca”. Diversi colori, riflessi e visioni per le diverse luci del giorno, come nella vastissima serie di riprese della “Cattedrale di Rouen”, dal “primo sole” e dagli “effetti di luce mattutina”, a “mezzogiorno” e a “pieno sole”fino a “la sera. Anche i dipinti sulle escursioni in barca della compagna Alice e delle figlie Su zanne e Blanche nel fiume Epte rispondono a questa ricerca, come il luminoso “La barca blu” e l’ombroso “La barca a Giverny”. C’era tutto nella sua “isola utopica”, in una simbiosi assoluta tra arte e vita.
Nessuno dei quadri appena citati è in mostra. C’è invece “Il viale delle rose”, 1920, però come testimonianza angosciosa del buio nella vista degli ultimissimi anni; il tunnel fiorito diventa un vortice di colori scuri con macchie rossastre, in un disperato tentativo di vedere o almeno ricordare.
Introduzione ammonitrice del “clou” della mostra, che inizia con “Ninfee” del 1903: un arcipelago sparso di piante acquatiche immerso nelle ombre e nei riflessi degli alberi, in un’oscurità quasi notturna. E’ un quadro a olio di dimensioni normali, 70 per 90 centimetri, mentre i due successivi dipinti del 1914 sono molto più grandi, rientrano nel “ciclo delle Ninfee”, il suo sogno ecologico. Fu realizzato con immense tele panoramiche per novanta metri quadrati, esposte stabilmente dal 1927, l’anno dopo la sua morte, all’“Orangerie” di Parigi, il giardino delle Tuileries visibile dal Louvre. Nella sala ovale si è avvolti dai dipinti posti in circolo, sembra di essere su un’isola dello stagno e guardare lo spettacolo dal vivo, ma avvicinandosi, scrive Eisenman, “l’equivalenza visiva tra dipinto, materia osservata ed esperienza sembra svanire e si è liberi di entrare in uno spazio rarefatto di narcisismo o solipsismo estetico”.
“Ninfee” del 1914 , di 2 metri per 1,5, anch’esso piuttosto oscuro, raffigura i fiori esotici che galleggiamo aperti, tra i riflessi verde scuro dei salici piangenti e il viola dell’acqua; ce n’è una versione quasi identica molto più chiara, dai colori più brillanti e i fiori più bianchi, segno evidente che continuava a provare i diversi riflessi e le tonalità della luce come per la Cattedrale di Rouen.
Siamo giunti al culmine, della mostra e dell’arte di Monet, “Ninfee, armonia in blu”, dello stesso 1914, 2 metri per 2, una composizione compiuta anche se inserita nel disegno più vasto, con due notevoli pregi e particolarità: l’equilibrio tra gli addensamenti di ninfee nei due angoli opposti e l’abbandono della prospettiva, le ninfee all’angolo estremo sono più grandi di quelle all’angolo più vicino. La ricerca dell’equilibrio compositivo e della perfezione visiva porta sempre più avanti.
Ma per noi non si tratta di astrazione, siamo d’accordo con André Masson che di questa opera “di un grande maestro di cavalletto che abbia deciso di espandere la sua visione all’ampiezza del mondo” dice: “Lo specchio d’acqua diviene, per analogia, l’intero universo. Una visione cosmica”.
Concordiamo anche con la sua conclusione: “Per questa ragione mi dà un senso di profonda delizia considerare L’Orangerie la Cappella Sisina dell’Impressionismo”. Come per la “Cappella Sistina della Maiolica” della chiesetta di San Donato a Castelli, non c’è parallelo che possa esprimere in modo più compiuto e immediato che si è raggiunto il culmine. E’ il caso delle “Ninfee” di Claude Monet, poste a conclusione del lungo percorso dell’Impressionismo, dalla “vitalità della natura” all’“economia della natura” fino all’“utopia della natura”, che la mostra-ricerca al Vittoriano ha avuto il grande merito di proporre nella sua evoluzione non solo pittorica ma anche culturale.
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