di Romano Maria Levante
– 18 febbraio 2011 – Postato in: culturainabruzzo.it, mostre, pittori, trasferito qui
Dopo aver raccontato la prima fase fino al 1886 passiamo all’ultima fase dell’“ascesa infinita” nell’arte come appare dalla mostra al Vittoriano su “Vincent Van Gogh, Campagna senza tempo – Città moderna”, aperta dall’8 ottobre 2010 al 20 febbraio 2011 dopo la proroga; e della “discesa infinita” nella vita seguendo la ricostruzione del libro “Follia? Vita di Vincent van Gogh”, di Giordano Bruno Guerri che ha curato le iniziative di approfondimento parallele, dai dibattiti ai film, alla performance teatrale; il libro è stato una guida preziosa per il nostro racconto.
La svolta di vita e arte nel 1886 con gli impressionisti
E’ il 1886, la “discesa infinita” corre veloce, ha meno di cinque anni da vivere intensamente, va a Parigi. Compie un’altra trasgressione delle sue, anche se il suo trasferimento nella capitale francese è stato concordato con il fratello; a marzo parte senza avvertirlo, temendo che ci ripensi. E’ troppo importante per lui, Parigi è una metropoli, e qui prevale il fascino della città che incarna la novità e il movimento, l’altra faccia della natura che finora ha visto soprattutto nell’aspetto della campagna eterna e senza tempo, anche se ha rappresentato qualche opificio. Ma, quel che più conta, ora si trova nella capitale della pittura, con l’impressionismo e i suoi massimi esponenti di cui può finalmente conoscere da vicino le opere e frequentarli: Renoir e Cezanne, Pissarro e Toulouse-Lautrec, Corot e Monet, Sisley e Signac. Va anche a lezione con sessanta altri allievi, per imparare la tecnica, dal pittore Fernand Cormon, che ha insegnato a Toulouse-Lautrec e Gauguin. Gli bastano due mesi in cui si applica con più serietà degli altri, sente che il tempo gli manca, ha fretta.
L’impressionismo interpreta la realtà come la sente l’artista che la vede “en plein air” nel suo fulgore rivivendola dentro di sé. Per due anni Van Gogh sarà nella Ville Lumiére e vivrà in un ambiente per molti versi straordinario con la sua capacità di interpretare e assorbire senza subire gli influssi ma recependoli come stimolo al suo eccezionale talento. Vedremo poi che con Gauguin – l’artista che affascina e stordisce tutti con i suoi racconti delle bellezze dei paesi esotici e delle loro donne – ci sarà un rapporto più stretto e tormentato, quando la “discesa infinita” si farà rovinosa.
In una sorta di caffè degli artisti c’è la proprietaria Agostina Segatori, posa come modella per i pittori, sta anche con loro; Vincent trova in lei qualcosa che gli è mancato, ma per poco, a lui serve per esporre quadri e le fa un ritratto, “L’Italienne”, non in mostra; si lasciano in modo turbolento. Anche con gli altri pittori i rapporti personali non sono buoni, Cezanne gli dice “la sua è una pittura da pazzo”.
E’ il tema della “follia”: la diversità di un’indole indomabile, nella frenesia di vivere a modo suo e di dipingere. Espone nel negozio di Pére Tanguy, che vende articoli per belle arti, litiga anche con lui che pure lo stima ma non riesce a vendere i suoi quadri. Come Theo, sebbene nell’ultima fase preferisca tenerli attendendo tempi migliori; anche Vincent chiede al fratello di non esporli più, sente che la stagione propizia arriverà presto e non vuole disperderli per troppa fretta..
E qui la mostra diventa didascalica, propone una serie di pitture di riferimento per creare l’ambiente nel quale si venne a trovare Vincent. Immergiamoci anche noi nel mondo degli impressionisti, c’è la campagna vista nei giardini pubblici e privati e c’è la città in movimento. Ecco l’“Orto a Auvers su l’Oise” del 1852 e il “Chiaro di luna su l’Oise” del 1870, entrambi di Charles Francois Daubigny, dai colori ancora spenti, mentre esplodono “Nell’orto” di Pissarro del 1878 e nei due di Paul Gauguin, “Fattoria La Groue, Osny” del 1883 e “Stalla vicino a Dieppe II” del 1885. Dello stesso anno 1885, di Vincent c’è “Veduta di Amsterdam dalla Stazione Centrale”, piccolo olio su tavola nel quale le tinte cominciano a schiarirsi.
Le sollecitazioni coloristiche degli impressionisti vengono ulteriormente proposte in mostra con “Lavori al Pont National” di Armand Guillaumin del 1874 e “Sobborgo” di George Seurat del 1882-83 fino a “Scambio ferroviario a Bois-Colombes” di Paul Signac del 1886.
L’eco in Van Gogh dell’apertura alla luce e al colore è nel dipinto esposto dello stesso 1886, “Persone che passeggiano in un parco”: vediamo un numero inconsueto di figure quasi sempre accoppiate e con bambini, l’occhio di Vincent è mosso dalla sua dissimulata aspirazione alla famiglia nel continuo contrasto con la libertà anche anarchica dell’artista che da lui è sempre rivendicata.
Ancora persone, “Due signore al cancello di un parco ad Asnières”, un sobborgo parigino dove Vincent riassaporava gli umori della campagna pur nella città pulsante di vita, tanto che il motivo dominante, a parte il muro con il cancello e le due figure, è il verde con gli alberi. Lo stile è decisamente impressionista, la pennellata fluida, ancora nessun accenno puntiforme.
Così vede la città con l’occhio alla natura, mentre “Il Moulin de Blute-Fin” riporta agli impianti legati al lavoro dei campi presenti anche nella modernità cittadina. Lo stesso incrocio che si aveva nei dipinti degli impressionisti citati, dove gli orti e la fattoria, la stalla e il fiume si incrociavano con la stazione ferroviaria, paesaggistica anch’essa, e i lavori al ponte, fino al sobborgo con la ciminiera che segna il confine tra città e campagna. Temi incrociati anche nei disegni esposti dei pittori citati, dagli “Alberi con cervi” e “Il boschetto” di Daubigny al “Crepuscolo sui covoni” e “Fabbrica a Pontoise”di Pissarro. Soprattutto troviamo i disegni di Francois Millet del ciclo giornaliero del lavoro nei campi, da “La partenza per il lavoro” del 1863 al precedente “Contadino che raccoglie il fieno”del 1855, a “Mezzogiorno/Il riposo” e “La fine del giorno” con il contadino che si infila la giacca, entrambi del 1873; fino alle figure di “Donna che carda la lana” del 1855-56 e “La grande pastorella” del 1862.
Il 1887, anno cruciale per il trionfo della luce e del colore
Abbiamo anticipato nell’articolo precedente l’autoritratto del 1886 senza cappello, nel 1887 ne troviamo due molto diversi e non solo perché ha il cappello: le pose, il segno e il colore sono totalmente differenti. I circa quaranta suoi autoritratti lo vedono anche come “cavia” delle prove pittoriche, quando per farle ripiegava su se stesso rispetto ad altri modelli viventi troppo costosi.
Il primo “Autoritratto” del 1887 lo ritrae in veste cittadina, forse come esempio di ritrattistica da proporre ai professionisti parigini, in un abito dignitoso che si ritrova in altri suoi dipinti. Colpisce lo sfondo azzurro, come un cielo trionfante, e le pennellate impressioniste, con segni anche del neo impressionismo di Seurat e Signac; sia nell’abito e nel cappello che nel volto queste pennellate vistose segnano la luce e l’ombra con un effetto coloristico straordinario.
Veste da artista trasandato nell’altro “Autoritratto” dello stesso anno, un’acconciatura da contadino che aveva adottato nel periodo olandese dipingendo il lavoro nei campi, abbigliamento che tornerà in altri suoi ritratti. Il cappello di paglia è anche degli impressionisti che lavoravano “en plein air”, ma Vincent dipingeva all’aperto anche prima di frequentarli. L’arrossamento del volto fa sentire la forza del sole da cui si ripara, il dipinto è sostanzialmente di tre colori, verde l’abito, giallo il cappello e rosso-marrone la barba e la pipa, il tutto con pennellate rapide e distanziate.
Nel “Ritratto di Alexander Reid”, un mercante d’arte scozzese, l’influsso di Seurat e Signac è ancora più evidente, con pennellate piccole quasi puntiformi dai forti contrasti cromatici. Lo stesso appare in “Interno di ristorante”, immagine cittadina linda e pulita con la tecnica puntiforme.
Dalla città in interno alla città in esterno. La visione ristretta di “Strada con sottopassaggio (Il viadotto)”e lo scorcio prospettico di “Ponte sulla Senna ad Asnières”, fino alla panoramica urbana di “Strada parallela ai bastioni di Parigi”, una visione straordinaria in cui le figurine umane e le costruzioni sono soprattutto in lontananza, mentre nel primo piano c’è la grande strada fatta di alcune forti pennellate bianche.
Lo sguardo si allarga nelle due visioni di Montmartre, il sobborgo parigino nel quale poteva materializzarsi l’incrocio tra l’amore per la campagna e l’attrazione della modernità cittadina. Sono in sequenza, quasi due “pendant”. “Montmartre: dietro al Moulin de la Galette” si richiama a “Parigi vista da Montmartre” dello stesso anno di Maximillien Luce, in mostra; analoga l’inquadratura con un angolo di muro in primo piano dinanzi al verde, e sullo sfondo i tetti della città in basso. In “Orti a Montmartre” trionfa la campagna, un piccolo mulino a vento sul fondo, mentre in un analogo dipinto del 1886 il mulino e le case avevano una posizione preminente che invece nel quadro del 1887 diventa secondaria rispetto allo spazio agreste. La pittura con i colori
complementari distinti per essere riuniti dall’osservatore viene riferita al neoimpressionismo per l’uso del colore e l’applicazione dei pigmenti; non c’è vero divisionismo perché più che puntiformi le pennellate sono spezzate. E preannunciano gli sviluppi successivi di un’arte tutta personale.
L’escalation del 1888
Non è di svolta come il 1886 a Parigi, ma certo il 1888 ad Arles segna l’escalation, della “discesa infinita” nella vita come dell’“ascesa infinita” nell’arte. Vincent vi arriva in treno il 20 febbraio, dopo le sollecitazioni ad andare in Provenza, al sole del Sud della Francia, dove troverà luce e calore per la sua pittura: anche Toulouse-Loutrec – che gli ha fatto un severo ritratto di profilo -lo spinge, artisti come Delacroix e Monticelli avevano cercato il sole del Sud, in Francia e nel Nord Africa, Gauguin lo trova in Martinica.
Alloggia in un albergo vicino alla stazione, poi a maggio in un’abitazione tutta sua: “Di fuori è dipinta di giallo, mentre dentro le pareti sono sbiancate a calce. E’ in pieno sole.”, scrive al fratello mandandogli dei disegni. C’è lo splendido quadro “La stanza di Vincent ad Arles”, con il letto, il tavolo e le sedie e “La Casa Gialla”, non in mostra ma nella memoria. Scrive a Theo anche sulla sua nuova vita in Provenza: “Mi sembra che, a intervalli, il sangue abbia più o meno intenzione di rimettersi a circolare, contrariamente a quanto accadeva negli ultimi tempi a Parigi” Dopo la svolta, quindi, non si era appagato, ha avuto un nuovo turbamento: non vi soggiace, cerca sempre di più.
Quel di più è intanto il sole, poco rappresentato, ma presente nel giallo accecante che illumina la sua pittura, primo esempio “La mietitura” non in mostra come non c’è “Seminatore al tramonto” nel quale spicca un grande sole all’orizzonte.
E’diverso da “Il seminatore” che è esposto: sullo sfondo fabbriche e ciminiere in questo, il sole e il grano nell’altro, mentre è simile la figura umana e somigliante il blu del terreno in primo piano; la mostra opportunamente vi accosta il dipinto dallo stesso titolo di Jean Francois Millet, però con colori smorti rispetto a quelli rutilanti di Vincent.
La campagna trionfa in “Albicocchi in fiore”, quasi vi trovasse la rigenerazione dopo l’ultimo periodo parigino: la natura viene sempre più “sentita” imprimendovi la propria sostanza umana e non soltanto “guardata” e percepita con la sola sensibilità artistica. Per questo, secondo Guerri, non va considerato soltanto nel mondo impressionista, ma come anticipatore dell’espressionismo. E’ una campagna che vediamo da vicino in “Ulivi”, il dipinto dove il grande albero in primo piano e il sottobosco sembrano offrire un rifugio sicuro per chi si smarrisse nel sentiero appena tracciato; e nel disegno “Ulivi/pini a Montmartre”, una quinta quasi teatrale dopo la radura, sorvolati da alcuni uccelli, diventeranno corvi minacciosi nell’ultimo quadro del 1890. Una campagna, infine, che si immagina nel disegno “Capanne a Saintes-Maries-de-la-Mer”, le primordiali capanne dal tetto di paglia, ormai dimesse dai contadini, ma per Vincent ne restano un simbolo cui è affezionato; è esposto anche il quadro di Gauguinintitolato “Il campo Lollichon e la chiesa di Pont Aven”, che a forti colori riproduce uno di questi tetti con una scena campestre di buoi al pascolo; dello stesso Gauguin è esposto “L’abbeveratoio”, .quasi un primo piano del precedente.
Dall’aperta campagna alla sua espressione all’interno dell’abitato, di cui abbiamo già parlato nell’inquadrare la sua pittura in termini generali: “Giardino pubblico con prato appena falciato e salice piangente”” e “Vialetto nel giardino pubblico” sono due dipinti con il verde inframmezzato da tocchi di giallo che esprimono la pioggia di luce, sia nell’erba e sia nelle foglie degli alberi. In entrambi c’è il sentiero, nel primo si sente la gente anche se non c’è, nel secondo è rappresentata la società arlesiana. Ma Vincent non dimentica l’azione dell’uomo: la mostra ce lo ricorda con i due disegni: “Il ponte di Langlois” e “Strada con palo del telefono e gru”.
Non mancano i ritratti, da “La vecchia Arlesiana” a “Madame Roulin con la figlioletta”,in mostra, ne ricordiamo altri non esposti, da “Joseph Roulin” a “Eugène Boch”, da “La Mousmé seduta” a “Milliet”, persone con cui ebbe rapporti di amicizia, Boch era un pittore e scrittore belga.
Il 1888 non è solo questo, nell’arte come nella vita, tanto che abbiamo parlato di “escalation”. Ebbene, anche se la mostra non può presentarli, è l’anno dei due celebri dipinti urbani, “Terrazza del caffè la sera” e “Caffè di notte”, sempre ad Arles, immagini dalla suggestione incredibile; l’anno di “Spettatori nell’arena”, inconsueta raffigurazione di folla nella cavea romana di Arles dove vede la corrida. E, soprattutto, è l’anno del “Vaso di girasoli”, tema a lui molto caro che nel dipinto del 1888 raggiunge il diapason, in quanto, come è stato detto, trasforma la “natura morta” in “natura viva”. Un natura ravvivata dai colori del Sud della Francia: “In realtà il sole della Provenza non è così forte come lo raffigura Van Gogh, e i colori non sono vivaci come quelli dei suoi quadri. Vincent esasperò tutto perché voleva raccontare la forza e la violenza della natura”, nota Guerri. E lo si vede proprio nei girasoli che sembrano esplodere e nei rami degli alberi che sembrano contorcersi; ci fanno pensare alle temute piante carnivore, forse sono loro che hanno divorato il grande artista. Per ora premonizione nel dipinto “La sedia di Vincent”, vuota e impagliata con pipa e occhiali, come “La sedia del padre” morto; “La sedia di Gauguin” invece sembra una poltrona.
L’”escalation” nella “discesa infinita” vede la sua vita presa da nuovi e più gravi tormenti. Ad Arles le sue apparenti “stranezze” turbano gli abitanti, a ottobre chiama a sé Gauguin che entra presto in contrasto con lui, nell’ordine domestico, nell’arte, in tutto. Raffigura Vincent in modo impietoso mentre dipinge dei girasoli secchi, Guerri lo definisce “il ritratto di un demente”; e lo confronta all’autoritratto” dedicatogli da Vincent che invece “si mostra come un bonzo, raffigurandosi al meglio”. Gli fa lo sgarbo di andare al bordello con la “piccola Raquelle”, la preferita di Vincent. I dissapori montano, e anche le stranezze di Vincent che una notte lo guarda torvo mentre dorme, l’altro se ne accorge e lo teme; e quando Gauguin gli annuncia che partirà a Natale, la vigilia lo segue silenzioso col rasoio in mano. Viene fermato dal suo sguardo, torna a casa e con lo stesso rasoio si taglia di netto la cartilagine dell’orecchio destro mutilandosi, e la porta a Raquelle, come fosse l’omaggio dell’orecchio del toro abbattuto: aveva assistito alla corrida nella locale arena, le tradizioni della vicina Spagna erano vive anche lì, sarebbe lui stesso il “toro” sconfitto dall’amico.
In ospedale, è nella sezione dei pericolosi, incatenato al letto. Secondo Guerri più che di follia si tratta di un effetto allucinogeno dell’assenzio, bevanda in voga tra gli artisti. Termina così il 1898, l’anno del “Vaso di girasoli” e del gesto autolesionistico. Violenza nella natura e nell’uomo.
L’esplosione del 1889
Il 1899 inizia con il ritorno a casa il 7 gennaio. La vita è ancora più tormentata, la diffidenza degli abitanti di Arles diventa ostilità per il vicino pericoloso; nuovo ricovero dopo un mese per una crisi.
Per il dottor Rey è dovuta al timore di una ricaduta, secondo Guerri teme gli attacchi e le irrisioni di “bambini e adulti”; dice al sacerdote che hanno l’ardire “di “circondare la mia casa e di scalare le inferriate come hanno fatto, come fossi un animale strano”.Al dottore confida che “per raggiungere l’alta nota gialla che ho raggiunto quest’estate ho dovuto montarmi un po’”. Ce ne saranno ancora di “alte note gialle”, fino alla fine, anzi all’ultimo quadro che vedremo al termine.
Torna di nuovo alla vita di sempre, e ai tormenti quotidiani, c’è stata una petizione dei cittadini perché fosse internato. Ma questo non avvenne in modo coattivo, fu lui a chiedere di entrare nel manicomio di Saint-Paul-de-Mausole presso Saint-Rémy a 25 chilometri da Arles. Potrà dipingere in pace, c’è anche un giardino e si vede la campagna. Ricordiamo quattro quadri che lo raffigurano: “Davanti al manicomio di Saint- Rémy” e “Il giardino di Saint-Paul”, “Il dormitorio di Saint-Paul” e “La ronda dei carcerati”, l’immersione progressiva fino al tremendo girotondo nella cella, lui però presto potrà uscire fuori dall’istituto per dipingere. Nel giardino c’erano gli “Iris” che dipinse in veri capolavori sia in fioritura nel loro squillante blu su steli verdi che nei vasi. E poteva rimirare il cielo, che gli ispirò “La notte stellata”, capolavoro accostato da Guerri a quella dipinta ad Arles: “Nella prima, le stelle palpitavano nella calma del firmamento, ma erano immobili. Nella Notte stellata di Saint-Rémy le stelle si muovono, non hanno più quell’aria viva ma tranquilla, sono parte di una corrente celeste, indecifrabile”. Sgomenta pensare che “dopo averla dipinta, Vincent tentò di ammazzarsi ed ebbe una crisi di pazzia che durò più di un mese”, ricorda Guerri.
Ma andiamo ai dipinti esposti in mostra, anche se non potevamo omettere quelli ora citati nel nostro excursus vita-arte. C’è il disegno “Campi fuori dalla casa di cura”, con tratti e punti decisi, un’immagine di apertura. E un olio su tela invece molto tormentato, “Montagne a Saint- Rémy, lo dipinse dopo due mesi di internamento, quando poteva già uscire e anche allontanarsi dalla clinica: sembra un ammasso montuoso deserto, ma si intravede una capanna e un angolo con girasoli. Al quale si contrappone, in un certo senso, “Cipressi con due figure femminili”, per la grazia delle loro eleganti siluette contrapposta alla potenza delle grosse chiome dei cipressi: il maschile e il femminile, l’antico e il moderno, il romanticismo e il realismo, la critica qui si sbizzarrisce.
L’ultimo dipinto esposto di quest’anno è “Il ritratto di giovane contadino”, o il “Giardiniere” di Saint-Remy, com’è anche intitolato, più che il lavoratore qui interessa il gioco dei colori dell’abito dimesso come la sua espressione, e dell’erba: è considerata quasi una prova di espressionismo.
Il 1890: la discesa e l’ascesa infinita al loro epilogo
A Saint-Remy è sottoposto alle terribili cure di allora, ha delle crisi, tenta il suicidio, poi quando sente che Theo sta per avere un figlio, temendo che non lo protegga più e lo lasci per sempre in manicomio gli torna la smania per la vita normale, anche se non ci crede, e vuole uscire: Alla nascita ha una crisi più forte, poi convince il fratello a farlo tornare a Parigi: “Sì. Bisognerà farla finita, con questo posto. Non posso fare contemporaneamente le due cose: lavorare e faticare per riuscire a vivere con questi strani malati. Ne sono sfinito”. Non si considera uno di loro, non si sente malato, d’altra parte ha scelto lui di entrare in quel luogo per dipingere con tranquillità: ora basta.
La notte del 16 maggio arriva alla stazione di Parigi, Theo lo porta a casa, c’è la moglie e il piccolo di tre mesi e mezzo, si chiama Vincent: ha cercato invano di impedirlo, aveva l’incubo del fratellino con quel nome nato e morto l’anno prima di lui. E qui immersione nei suoi dipinti, appesi alle pareti, ammucchiati sotto i letti, ovunque, in bella mostra i capolavori e gli autoritratti. Chissà se ha provato la sindrome – come di Stendhal – che Guerri così descrive: “Vedere insieme troppi quadri di Van Gogh fa male: ci si sente minacciati e in pericolo, si ha paura che tutto quel mondo catturato sulle pareti ti salti addosso e ti divori.” Aggiunge: “Ma Vincent è abituato ai suoi figli selvaggi: li tratta con la confidenza di un domatore che spazzola il suo leone”. Notiamo: non è possibile che in questi tre giorni tra le sue tele abbia maturato inconsciamente la convinzione, esposta dallo stesso Guerri, di aver dato tutto, aver raggiunto il culmine, e quindi avere esaurito il senso dell’esistenza?
Ma ancora non è finita, “l’ospite dopo tre giorni puzza” è un detto popolare, anche per questo Theo lo convince a partire dopo tre giorni per Auvers sull’Oise. E lo affida al medico Gachet, che non capirà nulla di lui né in senso clinico (“è più malato di me, a quanto mi è parso” – scriverà Vincent – o almeno altrettanto”), né artistico (snobberà il suo ritratto capolavoro, oltre a lui ritrasse la figlia Marguerite in giardino e al piano). Settanta giorni, settanta quadri: ha fretta, l’epilogo è vicino.
L’8 giugno visita ad Auvers di Theo e famiglia, il 5 luglio Vincent ricambia e va a Parigi. Il 27 luglio, domenica, esce senza cavalletto e va incontro al suo destino: entra in una buca e si spara dal basso in alto, ferita non mortale, almeno immediatamente.
Torna a casa sanguinante, non viene operato e lo curano male, mentre forse si sarebbe potuto salvare. L’indomani arriva Theo: “Non piangere. L’ho fatto per il bene di tutti”, gli dice, e alle rassicurazioni del fratello aggiunge: “E’ inutile, la tristezza durerà tutta la vita”. Non molto per Theo, morirà sei mesi dopo, sarà la moglie Johanna a valorizzare Vincent e l’enorme fortuna che ha in casa con il gran numero di suoi dipinti: dei mille forse prodotti, almeno duecento si sono salvati.
Nella mostra, di questi mesi finali vediamo “Donne che attraversano i campi”, predomina il giallo luminoso sul poco verde in un’immagine chiara, lineare e serena; invece il disegno “Strada chiusa con case” dà l’idea di un epilogo senza uscita. Torna il tema del duro lavoro nelle figure chine, ma le “Contadine che zappano un campo innevato” sono ormai evanescenti; erano invece violenti i colori di Gauguin in “Lavandaie al Canal Roubine du Roi” del 1888, nella stessa posa delle contadine, confronto ravvicinato reso possibile dall’esposizione..
Quasi volesse tornare agli amati tetti di paglia simbolo della campagna immutabile dipinge “Fattoria” e “Fattorie verso Auvers”, tutto è tetto, onnicomprensivo, forse anche oppressivo. Mentre non fa storia “I bevitori- Le quattro età dell’uomo”: pur nella potenza delle sue linee nervose e del colore ripete l’identico motivo dell’omonima xilografia di Honoré Daumier esposta anch’essa. Un estremo momento di svago si vede in “Sponda dell’Oise ad Auvers”, la borghesia parigina che si diverte presentata con impasti violenti di colori allineati come lo sono le barche lunghe e strette, un’oasi naturalistica. Due letteredel febbraio 1990, a Joseph Ginoux e ad Albert Aurier, questa fitta fitta e lunghissima, esposte insieme alle due ad Arnold Koenig del maggio 1888 e del gennaio 1889, indicano come fino all’ultimo amasse trasmettere i suoi pensieri.
Non sono in mostra la “Chiesa di Auvers” che precede di un mese la morte e “Campo di grano con corvi” che la precede di venti giorni ed è l’ultimo pervenuto. Il blu che spesso accoppiava al giallo per la forza vibrante del contrasto, qui sembra sopraffarlo quasi comprimendo il colore del grano anch’esso appesantito e meno brillante. C’è il largo sentiero al centro che offre una via di fuga dall’oppressione, il grano si apre come le bibliche acque del Mar Rosso; ma il volo radente dei corvi che si addensa proprio lì come per contrastare la fuga, appare il segno di un infausto presagio.
Si è compiuta la “discesa infinita” nella vita e l’“ascesa infinita” nell’arte; come la “missione impossibile” di Alessandro Nicosia nell’organizzare la mostra e quella anch’essa ardua di Giordano Bruno Guerri nel ricostruire la vita del sommo artista in modo così suggestivo.
Concludiamo anche il nostro viaggio nei gironi della mostra e non solo, con un Virgilio come Giordano Bruno Guerri, che ci ha restituito il vero Vincent mediante la parola e lo scritto, il cinema e il teatro. Riportiamo due citazioni tratte da “Follia? Vita di Vincent van Gogh”, la nostra guida.
La prima è la descrizione che l’artista dà del suo “Il falciatore”, nel quale vede “l’immagine della morte, nel senso che l’umanità sarebbe il grano che si falcia”. Quel grano dell’ultimo suo dipinto con la premonizione dei corvi. “Ma in questa morte nulla di triste, tutto succede in piena luce, con un sole che inonda tutto in una luce d’oro fino”. In un’altra riflessione sempre Vincent va ancora oltre: “Sono talmente convinto che la storia delle persone è come la storia del grano: se non ci seminiamo in terra per germinare che cosa importa? Ci macinano per diventare pane”.
Due inni alla speranza, nonostante il lugubre volo di corvi finale. “Spes contra spem”,un messaggio positivo che ci viene dal sommo artista.
E’ un ulteriore merito della mostra che – per usare le parole di Sandro Bondi – ha permesso di “vedere, come in uno specchio, la straordinaria sensibilità di Vincent Van Gogh, la dolcezza tenerissima della sua anima fragile”.
Info
Complesso del Vittoriano, Roma, via dei Fori Imperiali. Ingresso lunedì-giovedì ore 9,30-19, 30, venerdì-sabato 9,30-23,30, domenica 9,30-20,30, la biglietteria chiude un’ora prima. Interi euro 12, ridotti euro 9,50 per le categorie agevolate. Catalogo: “Vincent Van Gogh”, a cura di Cornelia Homburg, pp. 280, ottobre 2010, formato 28 x 30. Info tel. 06.6782664. Il primo articolo è stato pubblicato in questo sito ieri 17 febbraio 2011.
Photo
Le immagini, tutte di opere di Van Gogh, inserite in ordine cronologico, sono tratte dal Catalogo per quelle esposte in mostra, si ringrazia l’Editore con i titolari dei diritti, e “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia per l’opportunità offerta; sono state aggiunte altre immagini di opere non in mostra particolarmente significative commentate nel testo, dall’apertura con la “Camera di Vincent ad Arles”, alle conclusive del 1890, “Ritratto del dottor Gauchet” e la visione tragica del “Campo di grano con volo di corvi”, precedute dalle due “Notti stellate”. Nel primo articolo le ultime 7 immagini sono di opere dal 1886 al 1888 commentate in questo articolo. In apertura, “La camera di Vincent ad Arles” 1888-89; seguono, “Autoritratto” 1887, e “Il Seminatore” 1888; poi, “Ritratto di Madame Roulin con la figlioletta” 1888, e “Albicocchi in fiore” 1888; quindi, “Giardino pubblico con prato appena falciato e salice piangente” 1888, e “Vialetto nel giardino pubblico” 1888; inoltre, “La casa gialla” 1888, e “Veduta di Arles con iris in primo piano” 1888; ancora, “Notte stellata sul Rodano” 1888, e”Notte stellata” 1889; continua, “Ritratto del dottor Gauchet” 1890, e “I bevitori.- Le quattro età dell’uomo” 1890; infine, “Campo di grano con volo di corvi” 1890 e, in chiusura, “Autoritratto” 1887.