Afghanistan, quattro volti in 60 foto al Palazzo Esposizioni

di Romano Maria Levante

“Obiettivo Afghanistan. La terra oltre la guerra”, 60 fotografie a Roma, al Palazzo Esposizioni, dal 27 settembre al 28 ottobre, 15 per ciascuno di 4 fotografi internazionali, nell’ambito del “V Festival della letteratura di viaggio” che si svolge con una serie di iniziative a Villa Celimontana, organizzato da National Geographic e Federculture. I fotografi sono Monika Bulaj di National Geographic Italia, Reza, franco-iraniano di National Geographic, Riccardo Venturi vincitore di due World Press Photo, Zalmai, nato a  Kabul fuoruscito in Svizzera.  Curatore Riccardo Venturi, ideatori  Nicola Minasi e Donata Pacces per l’associazione culturale “Dialogando”.

Opera della polacca Monika  Bulaj 

Il volto dell’Afghanistan sotto il burqa

E’ ben nota la tormentata vicenda dell’Afghanistan. Il suo territorio è stato ed è un campo di battaglia  nel quale si sono fronteggiati nemici diversi: terminata la resistenza sanguinosa all’invasione sovietica c’è stata una violenta restaurazione tribale seguita a sua volta da un nuovo conflitto dove ai terrorismi fondamentalisti si è contrapposto un altro esercito straniero di segno opposto a quello sovietico in una guerra infinita che strazia il paese con combattimenti e attentati.

Sono cronache di tutti i giorni che entrano nelle case di tutti, l’ultima ferita per il nostro paese la morte dell’alpino italiano nel conflitto a fuoco nel quale i nostri soldati impegnati nell’addestramento delle forze afghane sono stati l’obiettivo dell’agguato terroristico.

Non sempre si ricorda come il conflitto endemico, che con poche interruzioni tormenta e devasta il paese da oltre trent’anni, abbia generato, oltre a un’ecatombe di morti, il maggior numero di rifugiati, ben 8 milioni. Intimidazioni, contrasti e scontri provengono anche dalla gestione di una situazione umana e sanitaria allarmante. E non sono in vista miglioramenti sebbene qualcosa si sia fatto sul piano delle infrastrutture, anche perché il pur auspicato ritorno alla pace con la partenza degli eserciti di stanza nel paese non viene visto come risolutivo, si teme un’ulteriore fase di profonda instabilità con la fine dell’economia di guerra e dei suoi pur perversi stimoli dati dalle risorse impiegate dagli occupanti e con l’abbandono del paese alla sua arretratezza endemica.

Nonostante sia alla ribalta da un trentennio per le sanguinose vicende belliche e i raccapriccianti episodi terroristici, il vero volto dell’Afghanistan è rimasto nascosto dagli eventi eclatanti, con l’immagine di arretratezza e integralismo religioso espressa nell’imposizione del burqa alle donne. E’ meritevole, quindi, la mostra che ne rivela il vero volto togliendo il burqa virtualmente imposto al paese, con le immagini scattate da quattro grandi fotografi di diversa nazionalità ed estrazione.

Ognuno di loro ne ha dato la sua visione , che non è la sua verità, bensì la sua interpretazione di una realtà quanto mai complessa e multiforme. Sono quattro verità compatibili, anzi complementari, perché considerano angolazioni diverse e compresenti nella complessa realtà afghana. C’è l’Afghanistan al femminile, con la condizione della donna in primo piano e l’Afghanistan di ieri, dopo la guerra di liberazione contro i sovietici,  l’Afghanistan di oggi ancora squassato dai conflitti, fino all’Afghanistan senza età, nei suoi connotati umani e naturali, identitari e pittoreschi.

La fotografia ha la capacità di rendere con immediatezza situazioni per le quali occorrerebbero fiumi di parole senza avere la stessa efficacia. E’ come se si materializzassero, tanta è l’evidenza spettacolare, donne e uomini, giovani e anziani, gente al lavoro o in riposo, in preghiera o in lotta; e i grandi spazi, gli ambienti che sono il teatro della loro vita, monti e altipiani, accampamenti e villaggi. Sono scenari e fondali di grande fascino che diventano protagonisti di una vita difficile.

Questi i motivi che balzano subito agli occhi nel visitare la mostra. Un primo gruppo di 5 immagini ciascuno vede affiancati i 4 fotografi nella rotonda centrale dello Spazio Fontana, poi il “racconto” di ognuno continua con altre fotografie nei corridoi laterali. Dopo la visione corale al centro, il visitatore segue i diversi percorsi tornando poi nella rotonda per una sintesi visiva finale.

Tanti sono gli aspetti evocati dalle 60 fotografie, quelli che sono rimasti dietro gli eventi e ora si possono intravedere nelle immagini di ambienti e persone, ripresi in istantanee suggestive. Emergono la storia e la cultura, la religione e la spiritualità, le arti e i mestieri, la vita quotidiana e le tradizioni, la povertà e l’orgoglio, gli individui e le etnie, i diritti negati e i conflitti; e gli ambienti in cui si dipanano le vicende, i grandi spazi aridi e le montagne, le vallate e le città, gli accampamenti. Sono visti dalle diverse angolazioni degli autori dietro la cui caratura internazionale ci sono differenti personalità legate alla loro storia e alla loro nazionalità: polacca, iraniana, italiana, diary.

Opera del franco-iraniano Reza 

Sotto l’obiettivo di 4 grandi fotografi

Visitiamo la galleria espositiva  iniziando dal percorso di Monika Bulaj, polacca, che  dà un’immagine al femminile, secondo la sua sensibilità per tale angolazione. Le donne sono viste negli esterni e in interni molto intensi, cercando di portarne alla luce la sensibilità, spesso compressa se non oppressa: donne sole o in gruppo, che negli sguardi e nelle pose esprimono sentimenti di gioia o dolore, fanno pensare ai sogni e alle speranze, alle delusioni e alla disperazione, alla fatica del lavoro e al sollievo di ritrovarsi insieme per condividere momenti felici.

La loro immagine va ben oltre quella risaputa del burqa, anche se questa veste medievale non manca nelle fotografie esposte: in una di esse la donna che lo indossa stringe in braccio un bambino, vicino a lei delle ragazze a viso scoperto, ma c’è anche la risata che la fotografa è riuscita a cogliere sotto la corazza di stoffa.  Scopriamo l’intimità e la vita familiare, come anche l’impegno e la sofferenza. Ma anche l’immagine delle due donne accucciate nel carcere, che sembra mostrare una penosa segregazione, rivela a ben guardare un atteggiamento sereno, intente come sono a raccogliere dei grani in una piccola ciotola. Il viso di una giovane donna alla finestra è radioso, assorti altri visi, ma colpiscono soprattutto due immagini in primissimo piano: il volto di donna anziana, quasi un simbolo identitario di etnia, e la tenera composizione della madre che stringe il piccolo, un quadro di madonna con bambino. E poi occhi socchiusi e spalancati, scene di vita.

C’è un uso del colore molto particolare, con un’intensità cromatica anche violenta, e forti contrasti di luci e ombre. E’ un importante contributo alla conoscenza del mondo femminile che ha un’importanza capitale nel progresso del paese, perché chi cerca di fermarlo lo fa mantenendo l’oppressione sulle donne e impedendo loro di emanciparsi. La loro lotta, espressa anche con poetesse ed eroine antiche contro l’ostracismo alla loro istruzione che risale al 1800,  è la lotta per l’uscita del paese dal medioevo, perciò va ben oltre la pur fondamentale emancipazione della donna.

Il franco-iraniano Reza,  storico fotografo di National Geographic, mette in campo la sua profonda conoscenza dell’Asia di reporter attento ed esperto, con immagini dai colori sfumati e delicati che spaziano in un ventennio tra altipiani e montagne, città e villaggi. Sono gli scenari delle guerre senza fine in cui gli afghani hanno combattuto contro i russi e i talebani, ed ora sono presi tra il terrorismo fondamentalista e gli eserciti stranieri  ancora presenti sul territorio. Scene di grande suggestione, che esprimono una profonda umanità.

Foto di persone, come quella impegnata nel periglioso passaggio su una sconnessa e instabile passerella o il ragazzo sull’altalena, e ancora l’uomo col turbante bianco che avanza,  in uno scenario di neve, a lato del cavallo con sopra una figura avvolta nel mantello, un’immagine del mondo islamico che richiama la “fuga in Egitto” del mondo cristiano. E scene di ambiente, accampamenti e sfondi naturali, un’antica spettacolare costruzione che sembra un miraggio, una cavalcata nell’altipiano,  fino all’eroe della resistenza Massoud in un interno con due finestrelle ripreso mentre legge. L’umanità nelle persone viene fissata al di là degli aspetti pittoreschi di un’etnia antica e indomita.

Documentano gli anni ’90 le fotografie di Riccardo Venturi, in un bianco e nero che ne evidenzia il carattere retrospettivo anche se sono quanto mai attuali perché in forme e modi diversi il clima non è mutato di molto. E’ un paese medievale, dove è calata una cortina, non si legge la gioia di vivere neppure nei volti e nei giochi dei bambini, anche se è cessato il conflitto armato.

Il paese è sopravvissuto all’invasione russa, ma ci sono i talebani con l’imbarbarimento primordiale della loro ideologia che comprime ogni libertà e toglie alla donna qualsiasi possibilità di emancipazione,  escludendola dallo studio e al lavoro,  dalla libertà di pensare e quindi di sperare e di sognare.  L’eco della guerra infinita si sente nel guerrigliero con il kalashnikov in spalla, nei soldati in corsa che si lanciano verso un obiettivo in un’istantanea magistrale; si vive l’orgoglioso arroccarsi su una tradizione espressa dalle barbe e dai turbanti, oltre che dai burqa, in scene arcaiche e anche calligrafiche, come le due figure chiara e scura che si allontanano riprese di spalle.  C’è il lavoro e la sofferenza, la poesia e il dramma della guerra nella resistenza all’invasore.

L’afghano Zalmai chiude la nostra rapida panoramica,  l’obiettivo è penetrante, lui sa dove cogliere  sofferenza e dignità, degrado ed orgoglio, e come esprimerli nella fotografia.  Il suo è il paese odierno che cerca con grande fatica una propria strada diversa da quella bellicosa fin qui percorsa, magari aprendo spazi di libertà con le nuove generazioni; e in questo mostra dignità e orgoglio, la perdurante povertà e arretratezza riflette tradizioni ataviche, una cultura e una storia su cui costruire.

Vediamo immagini di sfollati a Kabul e di mendicanti con il burqa, un uomo accasciato su un carretto in attesa di un lavoro, questa l’umanità sofferente; ma non finisce qui, un volto che sprigiona forza e determinazione  si staglia su uno sfondo deserto, la barba bianca del vecchio ne esprime la dignità. E poi il misero accampamento e il fondale naturale di calanchi con la persona minuscola ripresa in lontananza, quasi una metafora del peso schiacciante di un ambiente avaro sulla vita di un popolo.

Le immagini sono accompagnate da testi di Nicola Minasi che raccontano la scena fissata nell’obiettivo come una sceneggiatura cinematografica. Tutto è documentato, località e protagonisti, in una sorta di narrazione collettiva che merita di essere fissata anche su carta per non disperdersi.

Opera delll’italiano Riccardo Venturi 

La terra oltre la guerra

Al termine della visita una sorpresa: dopo aver raccontato l’Afghanistan con le immagini fotografiche, la Sezione multimediale della mostra racconta il viaggio, o meglio l’odissea di chi ha lasciato il paese nel “cammino della speranza” per l’Italia, avendo come meta l’Europa. E qui sono raffigurati tanti ragazzi afghani, minori di età, che arrivano a Roma dopo una marcia di 6000 chilometri, spesso camminando a piedi. Le loro storie, riprese da video maker e fotografi italiani e afghani, sono impressionanti: tra gli autori dei reportage citiamo Martina Chichi e Paolo Martino, Francesca Mancini e Dawood Yousefi, il montaggio è di Matteo Minasi, con testi di Carla Ciavarella e Paolo Martino..

Quale sensazione finale si ricava dalle visione delle 60 immagini di quattro artisti della fotografia? Un’emozione forte per aver assistito a una rappresentazione della commedia umana che va al di là della collocazione geografica: il senso della vita emerge da situazioni apparentemente primordiali, nella forza della disperazione come nei barlumi di speranza, nella gioia e nel dolore, nella miseria e nella desolazione cui si accompagna il desiderio di riscatto e la volontà di conquistarlo.

Non è questo che ci ha mostrato e insegnato, in fondo, la storia dell’uomo?  Qui lo si vede con chiarezza in un’area che ha conservato connotati primordiali, è stata ed è come un laboratorio delle prove più severe cui l’umanità può essere sottoposta, guerra e terrorismo, fame e arretratezza, fondamentalismo e oppressione. Ma dalle quali riesce ad emergere mobilitando le energie più riposte, che vediamo negli occhi della gente e, perché no, anche nella risata colta sotto il burqa.

E’ vero ciò che evoca il titolo della mostra dopo “Obiettivo Afghanistan”;  “la terra oltre la guerra” c’è sempre, in ogni tempo e latitudine, ed è vittoriosa. E con la terra l’umanità che ne è espressione.

Info

Palazzo delle Esposizioni, entrata in via Milano 13, Roma. Tutti i giorni ore 10,00-20,00, tranne il lunedì chiuso. Ingresso gratuito.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante al Palazzo Esposizioni, Spazio Fontana, si ringrazia l’organizzazione della mostra con i titolari dei diritti, in particolare i quattro fotografi espositori, per l’opportunità offerta: sono dei 4 fotografi  inserite nell’ordine della citazione nel testo: la polacca Monika  Bulaj, il franco-iraniano Reza, l’italiano Riccardo Venturi, l’afghano Zalmai.

Opera dell’afghano Zalmai