di Romano Maria Levante
Un mosaico di quasi 13 metri di lunghezza per 1,75 di altezza è posto all’interno della stazione di Piazza di Spagna della Metropolitana di Roma: entrando dal vicolo del Bottino si incontra dopo una cinquantina di metri sulla sinistra nel lungo tunnel che porta ai treni. Superate le prime vetrinette pubblicitarie luminose si presentano, con la luce delle sue tessere bianche e celesti, i preziosi ghirigori nei quali si intravvedono dei motivi che ci richiamano qualcosa. E ne abbiamo conferma quando leggiamo il nome di Massa Echaurren indicato a lato del mosaico, con aggiunta la parola “donazione”. E’ datato 2000, lo abbiamo notato e ci ha fatto ripensare alla mostra di Pablo Echaurren, il figlio dell’autore di questo mosaico, a cura della Fondazione Roma Museo svoltasi dal 18 dicembre 2010 al 13 marzo 2011 a Palazzo Cipolla.
“La Grande Cipolla”, 2010
l mosaico, notato per caso, pur se del padre, ci ha fatto ricordato l’artista che ci aveva colpito per la versatilità e profondità dell’ispirazione, cui si è unita la disponibilità a parlare e ad essere fotografato con le sue opere. A quasi due anni di distanza raccontiamo la visita all’esposizione che mantiene tutta la sua validità, per i tanti motivi di interesse da sottolineare.
La mostra, dal 18 dicembre 2010 al 13 marzo 2011, era intitolata “Pablo Echaurren, Crhomo Sapiens”: veniva inaugurata la nuova destinazione di Palazzo Cipolla all’Arte Contemporanea; nello stesso periodo l’inaugurazione di Palazzo Sciarra destinato all’Arte antica con “Roma e l’antico, visione e realtà nel ‘700”, di cui abbiamo scritto a suo tempo. Queste prestigiose sedi espositive, entrambe della Fondazione Roma Museo, sono di fronte sui due lati di Via del Corso, vicino a Piazza Venezia, prima di Largo Chigi: un’accoppiata di grande valore proiettata nel futuro.
E’ stata una dedica corale senza tempo alla Città Eterna, con la visione classica e settecentesca di Roma nel primo, quella contemporanea nell’altro dove Roma era rappresentata con i “Colossei” di Echaurren da sfogliare strato per strato:, uno si intitola “La grande Cipolla”: e quale migliore omaggio si poteva fare al palazzo di questo nome con la visione romana del terzo millennio?
Non solo per questo motivo riteniamo abbia fatto bene il presidente della Fondazione Roma Emmanuele M. Emanuele ad ospitare l’opera di Pablo Echaurren per un momento così solenne come la consacrazione dello spazio espositivo alla nuova destinazione all’Arte contemporanea. Il motivo che ci sembra prevalente è che questo artista fa entrare nel mondo contemporaneo in tutta la sua complessità e molteplicità di stimoli e di fermenti senza lo shock delle installazioni più avanzate e trasgressive, preparando ai successivi sviluppi con un inizio graduale e istruttivo. Palazzo Cipolla ha poi continuato creandosi un proprio spazio, ben distinto dal Maxxi e dal Macro.
La trasgressione vitale del contemporaneo
La mostra, realizzata con “Civita”, ha inaugurato la nuova destinazione dello spazio espositivo con il suo anticonformismo spinto fino alla trasgressione, nell’arte e nella vita: ha preso parte attiva a movimenti estremisti e trasgressivi come Lotta continua e gli Indiani metropolitani e ha “trasgredito” loro avvicinandosi a Marinetti divenuto una icona coltivata con un collezionismo accanito che fa possedere ad Echaurren una raccolte completa sul futurismo. Perché si è avvicinato tanto a Marinetti collocato com’era nell’ultrasinistra? Vide in lui la trasgressione nell’ideologia e nell’arte unita all’intelligenza, e sentì di compiere una trasgressione egli stesso; ci vengono in mente, mutatis mutandis, le situazioni del film “La patata bollente” con Renato Pozzetto e Massimo Ranieri, il fervente comunista attratto dal “diverso” assolutamente impresentabile.
La trasgressione rispetto alle convenzioni nella vita e nell’arte è stata il pane per Pablo Echuarren fin dal rapporto con il “padre trasparente”, il famoso pittore espressionista Sebastian Motta, al cui stile non si è ispirato quando ha capito di avere vocazione per l’arte, ma ha seguito una propria strada apertasi nei banchi di liceo quando i suoi disegnini furono apprezzati e retribuiti da un gallerista, che li vide per caso; nell’arte ha trasgredito ai canoni elitari combinando varie forme espressive senza distinguere tra “alta” e “bassa”, passando dall’una all’altra in un continuum vitale.
Merito della mostra – curata da Nicoletta Zanella insieme al Catalogo di Skirà – è stato rendere conto in modo equanime dei momenti della poliedrica attività artistica di Echaurren, in un arco di quarant’anni, facendo scoprire risvolti suggestivi e ripercorrere un ciclo di vita contemporanea.
E’ stato questo mondo il protagonista della mostra, come il mondo antico lo è stato in quella dirimpetto: in entrambe, le opere esposte come testimoni, e alcune anche testimonial, di passaggi importanti nella civiltà delle due epoche: a Palazzo Sciarra il fervore per l’Antico nelle varie espressioni, le antichità con le copie e i falsi, le decorazioni e l’emulazione degli artisti, con centro su Roma; a Palazzo Cipolla il fervore per il nuovo, dall’editoria “seria” ai fumetti e ai manifesti, dalla pittura alla ceramica e stoffa, dalla musica alla natura, anche qui con centro su Roma.
Abbiamo visitato a suo tempo la mostra attirati dai termini usati da Emanuele nella presentazione, e sappiamo che non usa la retorica: ne riportiamo un florilegio, eclettismo e strade espressive sempre nuove, effervescente sperimentazione e libertà da ogni pregiudizio, vivace curiosità e spirito di osservazione, vena originalissima e taglio ironico, semplicità di linguaggio e immediatezza espressiva, grande vitalità e potente energia creativa che pervade come elettrizzandola ogni creazione. Li abbiamo allineati testualmente per farne un elenco – è una forma di moda – delle qualità riconosciute a Echaurren che, in definitiva, sono i requisiti del vero artista contemporaneo.
Sono proprio tali termini a farci ricercare una lettura particolare della mostra che faccia emergere tutti questi aspetti nello spigolare sui momenti di vita personale e insieme di vita contemporanea. La sua arte ci sembra proceda per accumulazione: dai primi riusciti tentativi giovanili sulla carta a forme più compiute professionali, anzi nel vivo del mercato e del dibattito non solo e non tanto artistico, quanto politico e sociale; fino all’esplosione nella pittura, una vera eruzione vulcanica. Ne siamo stati travolti senza aver potuto dare ordine al nostro percorso dopo il primo shock iniziale; ora raccontiamo la visita al presente, trasmettendo al lettore le nostre emozioni con immediatezza.
“I vertici azzurri di Roma” 2010
Roma, l'”Umbelicus Urbis” et orbis
In effetti il primo shock lo dà il titolo, quel “Crhomo Sapiens” bifronte, chiaro nell’homo sapiens, un ritorno alle origini, forse all’arte o all’anima primigenia; ma il Cr che precede? Nicoletta Zanella lo riferisce al “cromatismo”, e l’interpretazione autentica della curatrice della mostra si deve comunque accettare, del resto lo stesso artista parla di “cromoterapia” come rimedio alle ansie; noi ci aggiungeremmo un riferimento al tempo, al dio Crono, che sentiamo pervadere la sua opera sia nel fissare sul calendario le opere datate sia nel dare il respiro dell’eternità a tante altre.
Superato lo shock intellettuale – la sfida a “decifrare” l’insolito titolo – ecco lo shock visivo, l’eruzione vulcanica. Parliamo della prima sala, talmente nell’ombra che si vede a stento la pedana centrale nera intorno all’“Umbilicus Urbis”; un’ombra fitta solcata alle pareti dai bagliori di forme e colori che sembrano piovere dall’eruzione vulcanica di una pittura esplosiva: un’eruzione di Roma su Roma, non è un’altra Pompei, il magma che cala dall’alto prende forme ben delineate dai colori netti e decisi quanto enigmatici, sarà stato così l’antro della Sibilla? La sala è molto vasta, notevoli le dimensioni dei dipinti alle pareti in acrilico su tela: 2,5 metri di lunghezza per oltre 1,5 di altezza, in 9 grandi pannelli che bucano il buio formando una cintura luminosa e colorata.
I primi a piovere dal cielo spiccando nella suggestiva oscurità sono i “Colossei”: “La Grande Cipolla – The Big Onion” mostra 7 riproduzioni dell’Anfiteatro Flavio che sembrano planare per essere sbucciate strato per strato, così le stratificazioni di Roma; per New York, che non ne ha, “La Grande Mela-The big Apple” si può solo mordere, come fa la celebre “Apple” nel proprio marchio. C’è tanto oro oltre al marrone delle arcate e al verde dei contorni centrali, con del blu tutt’intorno.
Ma è un bordo sottile, il blu diventa il colore dominante, con una tonalità particolarmente intensa, in “I vertici azzurri di Roma”: una pioggia di 15 obelischi, ciascuno con il suo sole sulla punta, al centro l’obelisco sull’elefante della Minerva del Bernini, che diventa un rinoceronte il cui corno è fatto anch’esso ad obelisco. Dagli obelischi ai templi, li porta l’“Alba mammifera”: nella pioggia di 9 cupole dal cielo l’oro è dominante nei contorni e nei soli, in alto al centro una mano aperta; e dai templi alle croci in “Il sangue e l’oro”, titolo che esprime il cromatismo prevalente. Ancora la Città Eterna in “Il cielo sopra Roma”, questa volta come Aquila imperiale, su un trono con aureole dorate, è il simbolo dell’impero:ci fa ripensare alla mostra romana di Palazzo Venezia “I due imperi, l’Aquila il Dragone”, l’impero romano e quello cinese. Intorno alla grande Aquila fluttuano nell’aria inquietanti figure di lugubri uccelli neri dall’occhio rosso, traspare il lato oscuro dell’artista con le immagini angosciose, anche qui l’atmosfera da incubo è rotta dai soli dorati.
In “Liquide effusioni” non c’è Roma ma le figure inquietanti che fluttuano sì, non hanno più forme di uccelli, sembrano animali acquatici che si contorcono e si avviluppano, nel fondo sul verde, blu e nero c’è sempre l’oro a dare il senso della vita.
[4 IMMAGINE CD n. 3] Finché morte non ci unisca, 2009.
Dalle figure fluttuanti alle mani misteriose, l’una diversa dall’altra e ugualmente inquietanti come lo è il titolo: “Finché morte non ci unisca”, in controtendenza sul noto “finché morte non ci separi”; è un tripudio di colori e di simboli, sulla punta delle dita nella grande mano scheletrita spiccano anche qui i soli dorati, il più grande al centro sul dito ammonitore di una mano blu, che sembra la gigantesca mano marmorea dal pugno chiuso e dito alzato di Costantino ai Musei Capitolini; un grande occhio indagatore sulla sinistra del quadro, l’unica forma diversa dalle 10 mani dipinte.
Alla pioggia e all’ammonimento si accompagna qualcosa di ancora più diretto in “Guardia e Ladra”, irrompe lo scheletro con una spada fiammeggiante tra una pioggia di obelischi e colonne, monumenti ed edifici antichi: l’incubo ha preso una forma che evoca la morte. E prosegue con l’accumulo di teschi, ne abbiamo contati 150, stratificati in tre livelli dal viola al giallo al rosso, in “Catacombelicale”, un’inquietante adunata con espressioni diverse, quasi una muta assemblea; il titolo rimanda al cordone ombelicale della nascita mentre i teschi esprimono per tutti la morte.
Il richiamo catacombale riporta a Roma, a quell'”Umbilicus Urbis”, già citato, che merita di essere descritto nella conformazione e nell’origine. Si tratta di un cerchio di 1 metro in mosaico di marmo bianco, con punti d’oro nei 19 teschi aggregati nella composizione circolare, spicca luminoso sul pavimento al centro della sala come al centro ideale di Roma, nel Foro Romano, al “Mundus”, il varco dell’Ade riservato a Proserpina, inizio e fine nello stesso tempo, il vortice di alfa e omega. Precorre anche temporalmente la pioggia di Colossei e obelischi, cupole e croci, l’autore ha concepito e realizzato l’Umbilicus nel 2006, tutti gli altri sono stati ideati e dipinti nel 2009 e 2010, alcuni per la mostra che così alla contemporaneità ha aggiunto l’immediatezza, la “premiére”.
Queste immagini per Roma tornano anche nelle piccole preziose sculture della stessa sala, “In bocca alla lupa”, con due teschi al posto dei gemelli e “Parva larva”, uno scheletro inginocchiato che reca uno specchio barocco sfidando a guardare la propria immagine; “My Navona”, con l’obelisco della fontana dei “Quattro fiumi” tra pietre bagnate dalla luce nelle spire di un rettile e “I sette de-collati”, una colonna dal capitello ionico con 7 “pietre” costituite da teschi in argento. Segni inquietanti meno evidenti in eleganti oggetti e gioielli con materiali pregiati, come “Le Api Barberini” e “Happy New Ear”, “Gioielleria sottomarina” e “Vedi alla lettera C“: c’è qualcosa di allucinato nell’Ape, come nel gioiello a polipo e nella spilla a forma di pesce pronto a scattare.
Questo merita una riflessione, anche se ci piace notare subito come i titoli anche dissacranti aiutino a superare l’atmosfera certamente non gioiosa che alcune immagini creano. Ma l’arte non è fatta per gioire, e quella contemporanea a differenza dal classicismo non va alla ricerca del bello, forse piuttosto del brutto della realtà e dei propri incubi. Lo fa anche Echaurren, e capiremo perché.
“Finché morte non ci unisca”, 2009
L’esorcismo dell’horror vacui
Nel suo animo c’è qualcosa che nasce dai limiti della condizione umana di “insuperabile ignoranza”: invece di dargli la serena consapevolezza socratica del “so di non sapere” lo rende “artista malinconico” come lui stesso si definisce. Questo qualcosa gli ha dato una spinta verso la catalogazione e il collezionismo, una bramosia di “sapere tutto” di una certa materia e raccoglierlo, possederlo quasi temesse di perdere anche questa limitata sicurezza. “Volevo fare l’entomologo”, dice, oltre che suonare il basso, e si è accostato al mondo di Marinetti scoprendo il futurismo, un trittico di cui lo vediamo protagonista attivo: ha esplorato, scritto e collezionato sul mondo degli insetti, è stato suonatore di basso in un complesso e colleziona tale strumento musicale, è uno dei maggiori collezionisti del futurismo: tutte e tre le cose sono confluite nelle opere della sua arte.
La sua curiosità non si è esaurita nella ricerca teorica e astratta, ha avuto lo spirito dell’esploratore che percorre in lungo e in largo il territorio di suo interesse e ne diventa protagonista. Così nella sua vita oltre a Lotta continua e gli Indiani Metropolitani abbiamo anche Marinetti e il Futurismo, mondi opposti uniti dalla comune trasgressione che per lui è stata una potente molla di creatività e innovazione. Nessun opportunismo o convenienza lo ha fermato, ha fatto le contaminazioni impossibili tra la sinistra extraparlamentare e la destra futurista, la pittura seria e i manifesti dissacranti, le copertine colte e i fumetti disinibiti, la stoffa e la ceramica. E non in periodi successivi, anche contemporaneamente senza far scacciare la moneta buona da quella “cattiva”.
Eclettico e poliedrico, quasi inafferrabile, la sua continuità e coerenza forse si può trovare nella discontinuità e nell’incoerenza in un modo nobilitato dall’arte che ironizza anche su se stessa, e non solo nei titoli di molte opere. Ha ragione Emanuele quando nota “un vivace estro ludico, elemento più intimo dell’artista”: emerge prepotente da un corpus di opere vastissimo nel quale il segno distintivo sembra essere la leggerezza anche quando appare greve, per chi sa leggere in quei teschi e in quegli scheletri che possono diventare ossessivi se non si guardano nel modo giusto. La chiave di lettura è quella dell'”horror vacui” – ce lo ha detto proprio lui – derivante dalla consapevolezza del vuoto incolmabile di conoscenza, una notte della ragione che genera mostri, si potrebbe dire.
Lui stesso esorcizza questi mostri portando sul proscenio i suoi teschi e scheletri, i suoi animali inquietanti: siano raffigurati in volo o in acqua allontanano il maligno proprio perché ne sono l’immagine. “Il male va dove c’è il bene – ci ha detto – non va a trovare se stesso, quindi non viene dove ci sono queste figure”. L’orrore del vuoto si colma riempiendolo di spaventa-passeri, cioè spaventa-maligno, in un esorcismo pittorico che è un punto di arrivo: sono degli ultimi anni le espressioni più inquietanti per chi non ha la rassicurante chiave di lettura; vuol dire che la lunga esplorazione di quarant’anni di “ricerca sul campo” è approdata a certezze o almeno conferme.
Ma la sua leggerezza sfiora tanti altri temi e si serve di tanti altri mezzi e stili. Ne parleremo prossimamente raccontando la sua visione della natura e le altre sue espressioni multiformi.
Info
Catalogo della mostra: “Pablo Echaurren. Chromo Sapiens”, a cura di Nicoletta Zanella, Skirà, 2010, pp. 164, formato cm. 24×28.
Foto
Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra, si ringrazia la Fondazione Roma Museo, con Civita, gli organizzatori e i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. In apertura “La Grande Cipolla”, 2010; seguono “I vertici azzurri di Roma” 2010 e “Finché morte non ci unisca”, 2009: in chiusura il mosaico di cui è autore il padre dell’artista, ripreso da Romano Maria Levante nel tunnel della stazione Metro di Piazza di Spagna a Roma.
Il mosaico di cui è autore il padre dell’artista, nel tunnel della stazione Metro di Piazza di Spagna a Roma