Echaurren, 2. La natura e la ceramica, a Palazzo Cipolla

di Romano Maria Levante

Continua l’excursus sull’arte espressa dalla mostra, svoltasi dal 18 dicembre 2010  al 13 marzo 2011, di “Pablo Echaurren, Crhomo Sapiens”, a Palazzo Cipolla, a cura della Fondazione Roma Museo, che iniziando con questo artista ha riservato la sua storica sede espositiva all’Arte contemporanea, mentre all’Arte antica è stato destinato Palazzo Sciarra posto di fronte sull’altro lato di Via del Corso. Dopo aver parlato del suo anticonformismo trasgressivo, delle opere su Roma, e dell’horror vacui, ora la natura e l’arte ceramica; in seguito avremo la musica e il resto.

“Il mio ombelisco”, 2004, con davanti l’artista

La natura vista da chi voleva fare l’entomologo

Abbiamo parlato dell’approdo del suo inquieto itinerario di vita e di arte ad alcune certezze o almeno conferme; ora le cerchiamo nella sua pittura, in un percorso che non segue quello della mostra. Dopo Roma parliamo della sua natura, per seguire l’idea personale che ci siamo fatta.

Iniziamo dal più “antico” dei suoi dipinti esposti, “Volevo fare l’entomologo”, 1991,  un quadro con una trentina di riquadri colorati in acrilico su carta, quasi la trasposizione dei quadratini in acquerello che furono l’inizio della sua avventura grafica e sono anch’essi esposti, datati dal 1973 al 1976:  una bella coerenza nell‘”incoerenza”, più di quindici anni dopo. Rispetto ai quadratini di allora la forza subentra alla raffinatezza, “non fa” l’entomologo, ci ha rinunciato da tanto tempo, perciò intitola al passato “volevo fare”; quelle del 1991 sono figure inquietanti, sembrano insetti che diventano maschere rituali in varie pose e colori. I riquadri che compongono il quadro, di 20 cm di lato, si differenziano dai quadratini disegnati tanti anni prima, di 4 cm di lato, non solo perché non c’è più tratteggio tra un riquadro e l’altro – il segno distintivo dei fumetti quando si pensa e non si parla – ma perché immagini quasi da incubo hanno dilatato i primi ricami grafici di tipo giapponese.

L’aspirante entomologo classificava e raffigurava, nel 1973-75,  ne vediamo stupende immagini in 6 riquadri con lati di 9 per 6 quadratini, 24 x 18 cm, sul verde e sul rosso, sul bianco e sul blu, precisi e calligrafici: si resta incantati nell’osservare la vegetazione o i vulcani, i monti o gli astri,  quasi fossero fotogrammi da mettere in sequenza per dare il movimento mentre hanno raffigurazioni diversissime tra loro, con scrupolo certosino e maestria grafica, anzi calligrafica, stupefacente. Dei titoli fantasiosi citiamo quello del riquadro sul rosso, “Tra quarantatré secondi circa”. Nel 1972 il riquadro con 12 per 11 quadratini, 33 x 41 cm, la tinta pastello ocra e celeste con un po’ di nero per  “Il masso delle formiche a forma di cetaceo raggiunge la  rupe del cigno fossile”: grandioso e delicato nella composizione, fantastico e arguto nel titolo.

Invece l’entomologo mancato quasi venti anni dopo scolpisce i suoi incubi, sembrano api guerriere nelle proprie celle pronte a balzare fuori all’arrivo del maligno. Sono anch’esse la sua difesa contro l'”horror vacui”:  nel 1991 lo esorcizzava così, poi ci saranno degli sviluppi, seguiamoli.

“La pelle di Argo, 1993

La natura nei colori e negli incubi

Siamo ora nel 1995, proseguono gli incubi di vita: in “I doni del cielo” una pioggia  corrusca su un viluppo verde, una massa infuocata che si rovescia dall’alto come il magma incandescente di un’eruzione vulcanica. E  nel dipinto dello stesso anno,  “La pelle di Argo”, troviamo la cerniera tra i quadrati inquietanti con le maschere schierate nello loro celle  e i teschi che incontreremo dopo: 25 grandi occhi dalle forme e colori variati, con l’enorme pupilla su un verde quasi monocromatico. I teschi compaiono con occhi che non sono più liberi come nel dipinto precedente, ma nella cavità del cranio in “Il mio bosco genealogico” : sono in 14,  in  un viluppo rosso e verde  quasi a difesa. 

Nel successivo “The dark side of the light”, 2007,  non il teschio ma un grande ragno crociato al centro con un’aureola di luce su un magma rossastro non vulcanico, vegetale e animale: farfalle e insetti attratti dalla luce e presi nella sua ragnatela, commisti a steli in un viluppo di vegetazione quasi metallica e, per il colore, asfissiante come un’invasione di cavallette rimaste intrappolate.

Finché  nel 2010  troviamo i teschi per la natura  in “La consapevolezza della morte ci condanna alla vita”, bel titolo filosofico, Echaurren è anche questo:sono 14 che circondano, come “body guard” protettive, tre rose fragranti tenute in alto dai fili d’erba, ben difese; è come se i teschi dell'”Umbilicus urbis” del 2006 e quelli “Catacombelicali” del 2009 si fossero scrollati dal loro cerchio magico di ingresso all’Ade e dagli strati sovrapposti e fossero accorsi a proteggerne la vita che sarebbe stata aggredita: il maligno qui non verrà, evita i suoi simili, ce lo ha detto luistesso.

Con un passo indietro al 2009 la natura trionfa nel verde della vegetazione e dei frutti in “Pomo sapiens”  con mele, pere e altro su due colonne di quattro piani con due frutti a piano:  sono castelli di frutta su cui soffia da più lati un teschio sogghignante, l’“horror vacui” di nuovo esorcizzato.

Ma non è sempre presente in modo così vistoso, il 2007 è un anno di composizioni in cui trionfa la natura senza incubi, a parte qualche vaga presenza esorcizzante di ectoplasmi con occhi  indagatori nel monocromatismo verde “Il mio germe solitario/Allergia sul Tevere”. E’ di un verde che vira nel nero “Il vestito della festa”, ci sono le grandi ali di una farfalla al centro – che ha disseminato pezzi di ali smesse per indossare quelle della festa, come si faceva decenni fa con il “vestito della domenica” – tra fili verdi, ben più rassicurante dalla farfalla vista prima nel magma rossastro.

Nella natura irrompe “Colore e calore”, pioggia infuocata di rosse emissioni filiformi su una zona centrale oscura contornata di luce, un esplodere a terra di focolai luminosi. Come in “Pitture di spore” dove il tripudio di vita si esprime in una sinfonia di effluvi di forme vegetali variopinte, qualcuna con cerchi bianchi, soli senza raggi oppure occhi vigilanti, una sembra antropomorfa.

Ci piace chiudere il 2007, e con esso la “natura” di Echaurren, con l’esplosione di fiori della “Cattedrale vegetale” tra i 9 arbusti allineati come un colonnato di piante: sono 7 fiori così luminosi e irraggianti da sembrare altrettanti soli come quelli visti nei dipinti su Roma, un’esplosione di giallo e di rosso nel verde. Non servono protezioni scaramantiche esorcizzanti dal maligno, una natura così luminosa e florida è tanto forte da non temere minacce dall’esterno.

I colori sono commisti senza dominanze nell’inattesa quanto originale digressione nella materia. L’artista, dopo carta e cartone, tela e ceramica di cui diremo più avanti, utilizza la stoffa in composizioni fortemente colorate. E’ del 2001 il trittico in tarsia di stoffe imbottite “Con occhi di crisopa”: nel secondo e ancor più nel terzo pezzo tornano i grandi occhi che abbiamo visto  nel dipinto del 1993; sono delle specie di arazzi moderni dai 90 ai 130 cm circa. La mostra espone anche un intarsio di stoffe del 2010, il “Lessico terrestre”, molto più grande, 2 metri per 1 metro: su una base verde esprime un forte cromatismo nelle lingue colorate gialle e rosse che si innalzano per raggiungere l’azzurro del cielo; un’eruzione di colori anche questa, su stoffa e non su carta o su tela. 

E così abbiamo chiuso quello che per noi è il cerchio di Pablo Echaurren nel suo “horror vacui” e nell’esorcismo dei teschi e delle figure inquietanti che intervengono per Roma  e per la natura: vista in espressioni contrastanti, ma capace alla fine di liberarsi con i suoi colori da presenze oppressive.

Vi sono altri motivi nella sua arte poliedrica: uno contingente, le Ceramiche; l’altro persistente, la sua Musica; che ci riporta alla vita dove troviamo anche l’illustrazione irridente  e il  fumetto.

“La consapevolezza della morte ci condanna alla vita”, 2010

L'”horror vacui” nelle ceramiche monumentali

“Faenza”  è la terra della ceramica,  ruolo che condivide con  Castelli per l’Abruzzo,  e Vietri in Campania. Echaurrenvi fu chiamato nel 1991 per la collettiva “L’apprendista stregone”; in un certo senso lo è stato, ha appreso un’arte molto particolare fatta di pitture e anche di cotture, di artisti e di artigiani, di tradizione e di bisogno di innovazione. Lo chiamarono per portare novità in quel mondo tradizionale e non si fece pregare studiandone i risvolti tecnici ma anche i modelli artistici. Come l’entomologo per gli insetti e le farfalle – e lui voleva farlo, lo abbiamo visto –  così per le ceramiche compulsa archivi e codici, studia musei e chiese alla ricerca dell’ispirazione.

L’“eureka!” premia la sua ricerca, ha imparato l’arte della ceramica tradizionale e la metterà da parte, farà la “grottesca”. Nella bottega faentina Gatti, dove produrrà le opere in ceramica, è passato Balla, e sulle orme del grande futurista ci sono stati Baj e Ontani, Paladino e lui stesso. Andiamo alla ricerca delle opere del 1991, tra quelle esposte, una si intitola  proprio  “Grottesco”,  ci sono anche “Il tempo circolare” e “Il divoratore di se stesso”. Non è ancora ceramica, ma acrilico su carta da trasferire poi nella materia plasmabile che indurisce alle alte temperature dopo la pittura: in  tutti e tre, anelli uniti o intersecati negli occhi di maschere o teschi, in percorsi allucinati.

Il risultato non è da poco se Antonio Pennacchi; in una gustosissima presentazione, paragona le sue alle ceramiche di Luca e Andrea Della Robbia al santuario della Verna, sopra Chiusi. E non le ricordano i temi, religiosi quelli, profani questi, “ma proprio i materiali , i colori, i cromatismi, i nitori, lo splendore. Tale e quale ai Della Robbia i materiali. Ma le emozioni che ne partono – se mi si consente – sono le stesse. Intuizioni liriche, le chiama Croce”.

Vediamo i temi, che riprendono il “grottesco” prima citato dell’acrilico su carta nella preparazione, declinato in motivi più ordinati e stilizzati. Si comincia con  “Manimula”, del 1992, dalla carta alla “scultura maiolicata  in berettino, decorazione a grottesche in monocromia blu con lumeggiature”; dello stesso anno “Dal berettino risorti”,  con lo humor  per intitolare una scatola maiolicata e “Ce ci n’est pas une pipe”, stesse caratteristiche della prima, così descritta dalla curatrice Nicoletta Zanella: “Una grande mano, appunto, animata da serpi e rettili, moderni Quetzalcoatl, intrecciati in un melting pot di draghi del Mesozoico, serpenti piumati atzechi e mostri”.  Le dentature aperte dei draghi poste nella punta delle dita aggiungono l’esorcismo dell’artista all’effetto ornamentale.

Nel 1993 intitola “Bar-rito” l’alzata maiolicata con la coppa retta a mo’ di cariatide dalla proboscide che scopre un’imponente dentatura, lo humor non è solo nel gioco di parole del titolo; nel 1994 in “Nana blu” il “grottesco” prende la forma di una grande stella a cinque punte di 70 cm “scolpita” in maiolica; la colonna alta circa 80 cm dal titolo “Il custode” reca dipinte sul fustocinque teste di drago dentate dalle dimensioni crescenti e dalle espressioni inquietanti, completa l’idea della vigilanza la figura in piedi antropomorfa  con lunghe corna, l’incubo prende forma.

Saltiamo al 1999, le “grottesche” dei draghi, o meglio delle loro dentature spiccano nell’acrilico su carta  “Circolo prezioso” come tagliole in un viluppo inestricabile dove il viola si aggiunge al blu faentino; in tale anno il grande piatto maiolicato di 75 cm  “La pelle di Faenza 1” in una “grottesca” che ritroviamo nel 2003 con motivi diversi ma dello stesso tono in “La pelle di Faenza 2”;  è del 2006 la “Fontana muta”,elegante soprammobile di 36 cm  che reca incorporato un vaso in terracotta tra due code di animale marino e sotto un occhio indagatore, motivo che ritorna.

Ed eccoci al 2010, l’incursione nella ceramica lo accompagna ancora ed è passato un decennio dal colpo di fulmine a Faenza. Vediamo esposte due sculture maiolicate sempre in berettino, “The house of Ashes”, una  piccola casetta di stile infantile con decorazioni laterali e mostri quasi preistorici al centro, e “Il vuoto come cibo” , una grande sfera dal diametro di 50 cm con le dentature di teste di drago su corpi con le spire dei serpenti.

Tutto questo fa corona alla monumentale scultura  posta al centro della sala dedicata a “Faenza”, è tanto vistosa da calamitare subito l’attenzione, le opera descritte fin qui le fanno degna corona, è la protagonista, la star; e come le star l’abbiamo presentata in ultimo, qui andrebbe “bene gli altri”. Si tratta di un vero monumento, nella stessa ceramica fin qui descritta,  titolo “Il mio ombelisco”,del2004, la monumentalità non impedisce allo humor dell’artista di contrarre ombelico e obelisco,  L’obelisco  è sulla groppa di un elefante – pardon un rinoceronte, l’elefante è nell’ “originale” antico della “Minerva” del Bernini – qui non ha la proboscide ma il corno trasformato in un piccolo obelisco, figura già notata nel dipinto “I vertici azzurri di Roma”  in una pioggia di obelischi.

Che dire di una scultura blu “lumeggiata” alta quasi 2 metri e mezzo, lunga oltre 1 metro e mezzo e profonda 60 cm? Si resta colpiti dalla sua imponenza e dalla sua eleganza, e anche dall’intrico di draghi dalle dentature ancora più evidenti, con due novità rispetto ai “grotteschi” visti fin qui:

La prima è che nel bordo della base su cui poggia il rinoceronte ci sono sei animali con lunghe zanne alla carica per ognuno dei due lati lunghi e anche in quelli corti, come una barriera difensiva.

Ma è la seconda quella più interessante per noi: sulla gualdrappa del rinoceronte dove poggia l’obelisco ci sono i teschi finora non apparsi nelle ceramiche, ma visti nella prima parte della visita, sul “Catacombelicale” e sull’“Umbilicus Urbis”. Il titolo “Il mio ombelisco” indica che l'”Umbilicus urbis coincide con il proprio, e vi sono anche qui i teschi che esorcizzano il maligno.

Il cerchio di Echaurren , che abbiamo visto nella prima parte sotteso tra Roma e la natura, si chiude  per ora nella ceramica di Faenza, all’insegna dell’esorcismo verso un “horror vacui” temuto e sfidato; lo riapriremo prossimamente con la musica e gli altri temi della sua arte versatile e poliedrica.

Info

Catalogo della mostra: “Pablo Echaurren. Chromo Sapiens”, a cura di Nicoletta Zanella, Skirà, 2010, pp. 164, formato cm. 24×28. L’articolo precedente è stato pubblicato il 23 novembre 2012, con la presentazione dell’artista e la descrizione del primo tema, “Roma” e l'”horror vacui”; inserite tre immagini di opere sul tema e del grande mosaico visibile nell’accesso da Piazza di Spagna alla Metropolitana di Roma.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante all’inaugurazione della mostra, si ringrazia Civita, con la Fondazione Roma Museo,  gli organizzatori e i titolari dei diritti per l’opportunità offerta; e soprattutto l’artista Pablo Echaurren che ha accettato di essere fotografato davanti alle sue opere con una disponibilità di cui gli siamo molto grati. In apertura “Il mio ombelisco”, 2004, seguono   “La pelle di Argo, 1993, e “La consapevolezza della morte ci condanna alla vita”, 2010;  in chiusura “Lessico terrestre”, 2010.

“Lessico terrestre”, 2010, con davanti l’artista