Abate, le foto a Carmelo Bene, al Palazzo Esposizioni

di Romano Maria Levante

Al Palazzo Esposizioni di Roma, dal 4 dicembre 2012 al 3 febbraio 2013, la mostra “Benedette foto! Carmelo Bene visto da Claudio Abate”, 120 fotografie di 10 spettacoli del grande uomo di teatro,  “Cristo ‘63” e “Salomè da e di Oscar Wilde”, “Faust o Margherita” e “Pinocchio ‘66”, “Il Rosa e il Nero” e ” Nostra Signora dei Turchi”,  “Salvatore Giuliano” e “Arden of Feversham”, “Don Chisciotte” e “Salomè”, per l’ultimo tutto a colori, per gli altri il bianco e nero con poche eccezioni.

Carmelo Bene in “Faust e Margherita”

Un grande fotografo che ha scelto l’arte e un grande uomo di teatro che ha scelto l’invenzione continua ed esasperata fino alla trasgressione: dal loro incontro è nato un “corpus” fotografico di tremila scatti, il fondo di Claudio Abate dedicato al teatro di Carmelo Bene, dal quale sono state selezionate le 120 immagini della mostra al Palazzo delle Esposizioni, curata da Daniela Lancioni con Francesca Rachele Oppedisano.  Che presentano una caratteristica: non sono soltanto immagini del teatro, sono teatro esse stesse; non si limitano a riprodurre momenti toccati dall’arte, sono arte esse stesse con una propria autonomia, che prescinde dalla loro origine documentaria.

L’incontro tra il fotografo d’arte e il mattatore nel teatro d’avanguardia

L’arte fotografica è stata indubbiamente aiutata dall’arte teatrale: le scene di Carmelo Bene, secondo Claudio Abate, presentavano “grandi squilibri e grandi differenze tra il buio  e le luci”, peculiarità valorizzata dalla maestria del fotografo: “Ma questa oscurità – scrive la curatrice della mostra Daniela Lancioni – tradotta in fotografia diventa qualcosa d’altro. Il nero che avvolge le figure, e che la stampa analogica restituisce in tutta la sua brillantezza, sembra svolgere la stessa funzione dello sbalzo d’oro o d’argento che nelle icone bizantine isola e magnifica i volti sacri”.

Nascevano così delle sacre rappresentazioni anche nei temi profani, mentre quelli sacri erano percorsi da ardite trasgressioni, che nel caso di “Cristo 63” portarono all’incriminazione di Carmelo Bene, poi prosciolto per la prove a favore costituite dalle fotografie scattate con il flash da Abate su una scena, definita “delirio destruens”, che in teatro era stata oscurata spegnendo le luci per sottrarla alla vista del pubblico. Una sezione della mostra espone 9 preziose fotografie del 1963 recuperate da un foglio di provini a contatto scampato dal sequestro della magistratura che chiuse il “Teatro Laboratorio” il primo giorno, il 4 gennaio. Il titolo ripete l’esclamazione dell’autobiografia “Il  Cristo che fui”: “Benedette foto! Causa della mia assoluzione per non aver commesso il fatto”.

Si tratta di immagini da “reportage”, cosa che Abate non gradiva preferendo la fotografia d’arte con pose studiate. Diceva che a teatro occorre attendere due “possibilità”: “Prima si individua la scena che piace, poi bisogna stare attenti che i personaggi non si muovano più di tanto”. 

Nel caso di “Cristo 63” l’emergenza lo portò a scatti improvvisati, perciò le foto sono meno curate delle altre, ma hanno il pregio di documentare un evento irripetibile. Ci sono la mangiatoia e il crocifisso, nonché la nudità sotto la cintola dell’apostolo Giovanni che fu il vero protagonista dello scandalo teatrale con atti ritenuti sacrileghi in particolare verso l’Ultima cena e comunque osceni e scurrili verso il pubblico; Carmelo Bene impersona Cristo che nell’indifferenza della gente alla fine cerca di crocifiggersi da solo. Al finale si arrivò per le richieste del pubblico dopo l’oscuramento e l’interruzione per l’offesa al’ambasciatore d’Argentina seduto in prima fila nel piccolissimo teatro in un’ex falegnameria, dove il pubblico veniva “maltrattato” per scelta anche con lunghe attese.

Il fotografo che gli avrebbe portato le foto “a discarico” aveva incontrato 4 anni prima l’attore quando era ventiduenne, esattamente nel 1959 in un bar romano tra Piazza di Spagna e Piazza del Popolo, ritrovo di artisti della vicina via Margutta e nottambuli. Abate aveva solo 16 anni ma già aveva aperto uno studio fotografico in via Margutta, frequentava Pericle Fazzini e lavorava per lui e  altri scultori e pittori. Si serviva delle luci esistenti per non alterare le condizioni nelle quali l’opera  era stata realizzata; continuerà a farlo coerente con il suo rispetto dell’autenticità dell’immagine.

Solo nel 1963, a quanto si conosce, con “Cristo”  cominciò a fotografare il teatro di Carmelo Bene, in un periodo in cui questa forma di spettacolo attraversava un periodo felice, come espressione di  libertà e nello stesso tempo di adesione alla realtà.  Venivano rotti schemi e convenzioni: all’estero con il “Living Theatre”, che abbattendo le barriere tra palco e platea intendeva fare lo stesso tra arte e vita; in Italia con  la “scrittura scenica”, secondo cui la scena aveva il rilievo assoluto  come “immagine-azione”,  lo scrisse Giuseppe Bartolucci, lo mise in pratica Carmelo Bene.  Abate cominciò a fotografare il teatro da indipendente vendendo le immagini alla rivista “Sipario”.  Nel 1969 fotografò il mitico “Living Theatre” a Roma realizzando effetti di sovrimpressione in un rullino con doppia esposizione che rese la scena ancora più affollata ed evidenziando in tal modo la filosofia di questo teatro in cui gli attori si confondevano con gli spettatori per sollecitarli.

Nel rispetto dell’ambiente, e avvicinandosi in questo alla logica del “reportage” per altro verso, fotograferà gli spettacoli teatrali con la Leica senza cavalletto, per essere più libero nelle inquadrature e non dare fastidio nei piccoli teatri; data la semioscurità usava tempi di posa prolungati, fino a un quinto e un ottavo di secondo, e portava la pellicola a 3000 ASA. I sui servizi li farà di norma con il pubblico per rendere l’atmosfera dell’incontro con gli spettatori. Sviluppava, stampava e ritoccava le fotografie manualmente la sera stessa per vedere subito i risultati, e poterle esporre nelle vetrine del teatro il giorno dopo. Anche qui agiva senza volerlo come un “reporter”!

Che dire di Carmelo Bene, il soggetto prediletto dell’arte fotografica di Abate?  Ad introdurne la figura bastano le parole di Jean-Paul Manganaro: “I numerosi episodi che riferiscono della beatificazione e dell’agiografia di C. B. riportano, al di là della sua precocità nel fatto teatrale, di una forma estrema d’aristocrazia che sconfina con un certo dandismo, che diventerà col tempo aristocrazia d’artista”. Non era interessato  alla realtà umana nella sua essenza profonda, ma alla posizione dell’uomo, quindi alla sua “messa in scena”, che viene spiegata così: “Le modalità del vivere non sono che un’‘illusione’ di cui il corpo  è situazione  e luogo – il tempo  e lo spazio, se si preferisce – cioè la scena. Solo quest’ultima è irriducibile, il resto è e diventa il ‘resto’, ovvero la banalità di ogni biografia”. Per finire: “La scrittura, la poesia e qualsiasi altra forma non sono più che funzioni subalterne, piegate a quest’invasione totale della scena, e del teatro, al fine di farne risaltare la funzione principale – perché la più illusoria e inafferrabile – ovvero l’attore”. Di qui il suo protagonismo assoluto, come il titolo impagabile del suo libro “Sono apparso alla Madonna”.

Aveva fatto bene Abate a individuare in lui il mattatore della scena a cui dedicarsi nell’intero decennio 1963-1973. Lo fa negli spettacoli sempre a Roma, in diversi teatri fino al “Teatro Carmelo Bene” che fu un  approdo per il grande artista. Di eccezionale è proprio la scena, dove si sviluppa la ricerca costante delle forme e del loro apparire, tra luci e ombre caravaggesche, mentre la “macchina attoriale” recita con una voce modulata da strumento musicale nei falsetti e nelle variazioni tonali: Un sigillo inconfondibile, un “unicum”! Come è un “unicum ” la rappresentazione delle fotografie di Abate, un’autentica reinterpretazione di un teatro e di un mondo da ricordare.

Carmelo Bene con Ornella Ferrari in “Il Rosa e il Nero da di a G. M. Lewis” 

Salomè di Wilde, Faust e Pinocchio

Dopo il primo “servizio”  su “Cristo 63” – di cui abbiamo ricordato la storia tutta particolare, con immagini di grande intensità scattate in condizioni di emergenza e recuperate dopo il sequestro – ecco nell’anno successivo “Salomè da e di Oscar Wilde” al Teatro delle Muse dal 2 al 10 marzo 1964 che lui definì “partorita da spensierata sofferenza”. Una scena affollata di oggetti e ospiti come in una festa, la protagonista una “bambina caratteriale, volubile, ninfomane” e capricciosa  con l’ossessione di volere in dono la testa del Battista. Nelle 5 immagini esposte, sul nero del fondale spicca Carmelo Bene come Erode con la testa coronata e, di volta in volta, Vincenti nei panni di Erodiade e la Scerrino come Salomè. Franco Citti interpreta Jokanaan, suggestiva l’immagine in cui lui a torso nudo e Carmelo Bene in casacca scura sono ripresi in primo piano fino alla cintola con una lampada bianca sopra la testa di Citti che proietta la luce sulla sua figura.

Trascorrono quasi due anni, dal 3 al 30 gennaio 1966 va in scena al Teatro dei Satiri “Faust o Margherita”, le 7 immagini di Abate devono rendere “un Faust ispirato ai fumetti. Mefisto era l’Uomo mascherato. Un disgraziato a cui non gliene va bene una”, sono le parole di Franco Cuomo  che collaborò con Carmelo Bene nella scrittura del testo. Non vendeva l’anima al diavolo, lo aveva già fatto, cercava di riaverla indietro dando in cambio Margherita che lo amava ignara.  E’ esposto un primo piano del viso allucinato di Carmelo Bene come Faust, poi immagini tagliate oblique alla Rodcenko, eccezionalmente riprese durante le prove nella sua abitazione mentre abbraccia un manichino; ci sono poi  Lydia Mancinelli in Margherita, che ritroveremo in tutti gli spettacoli,  e Tempesta. Non sono le abituali foto durante lo spettacolo con il fondale scuro, il taglio delle luci e le altre suggestioni di una ripresa da foto artistica, a parte il viso allucinato di Faust; ma hanno un valore documentario anche per la presenza di inquadrature dal taglio inconsueto. Su un’altra immagine di scena la Lancioni osserva che “il bacio tra Faust e Margherita è un’apparizione che il nero tutto intorno fa lievitare”, e “risucchia” il vestito di lei in uno dei noti effetti caravaggeschi.

Dal dramma alla favola si passa dopo solo un mese e mezzo con “Pinocchio ‘66” al Teatro Centrale, dal 17 marzo al 20 maggio 1966: la parola nella forma spontanea popolare con scarsa aderenza alla sintassi diventa un teatro in cui si rovesciano i valori tradizionali. In primo piano vanno quelli del burattino che difende i diritti dell’infanzia rispetto agli schemi perbenistici dei doveri da libro Cuore. E come in De Amicis si celebra la morte del ragazzo per la patria, così il finale di “Pinocchio” segna la morte della fanciullezza nel tripudio generale. E’ un momento fondamentale  nel teatro di Carmelo Bene che diceva: “Tutti i miei spettacoli sono versioni di un Pinocchio, anche Amleto”. In una delle 8 immagini esposte la Lancioni ritrova l’effetto notato nel “Faust”: “Pinocchio compiange i suoi piedi bruciati, risucchiati nella fotografia dal nero che li avvolge“. Le altre sono spettacolari, alcune con l’insolita coloritura in rosso di Carmelo Bene come Pinocchio dal lungo naso posticcio: il fondale è nero, la luce punta sull’icona del burattino. Sono in bianco Florio nei panni di Geppetto, Mezzanotte come Lucignolo  e la Mancinelli nella Fatina dai capelli turchini. Pinocchio torna ragazzo con un Carmelo Bene giovane compunto tra i tricolori.

Carmelo Bene con Margherita Puratich in “Nostra Signora dei Turchi

Il Rosa e il Nero, Nostra Signora dei Turchi e Salvatore Giuliano

Con “Il Rosa e il Nero da di a G. M. Lewis”, versione teatrale n. 1 da “Il Monaco”, al Nuovo Teatro delle Muse dal 7 al 31 ottobre 1966, il teatro innovativo di Carmelo Bene prende quota come “sfogo dell’inconscio”, ma dietro il disordine apparente c’è, nelle sue parole, un “disegno geometrico” che emerge all’improvviso mantenendo al suo interno “spazi irrisolti molto ampi”.  Per cui ne sottolinea involontariamente gli intenti espliciti  – lo sradicamento dalla realtà quotidiana – la critica che lo accusa di essere un “collage di brani letterari sconnessi e incomprensibili”: Ennio Flaiano parla di un insieme convulso di “travestimenti, pratiche magiche, incesti, matricidi, processi, appuntamenti notturni, apparizioni di fantasmi”. Ebbene, le 13 fotografie di Abate rendono l’atmosfera in cui – come scrive Carmelo Bene – “la luce filtrava attraverso gli spiragli di due portali a lato del boccascena come se ogni scena fosse spiata da qualcuno. Lame di luce come sguardi umani”. Effetti speciali ottenuti con l’accorgimento di non mettere in sala alcun riflettore. Le immagini sono di un classicismo elegante e raffinato nelle figure con ampio panneggio da statuaria antica di Carmelo Bene come Ambrosio con la Mancinelli come Matilda o con la Monti come Agnese e la Ferrari come Antonia, il bacio con quest’ultima sembra una statua di Canova. E in volti in primissimo  piano dei protagonisti con forti chiaro-scuri che ne marcano i connotati e anche con perline colorate che, secondo Manganaro, “li squamano, conferendogli qualcosa di animalesco”.  Sono immagini ravvicinate riprese nelle prove, solo così i visi potevano essere isolati dal resto.

Dopo soltanto un mese, dal 1° dicembre 1966 al 16 gennaio 1967, al Teatro Beat 72, “Nostra Signora dei Turchi”, che ripeterà 6 anni dopo dal 10 ottobre al 4 novembre 1973.  E’ l’opera in cui l’arte di Carmelo Bene si esercita sui tre versanti della scrittura, del teatro e del cinema. Ugo Volli, nell’introdurre la riedizione del libro, lo considera “una grande metafora del teatro, di quell’impasto di follia, imbroglio consapevole, destrutturazione della realtà, ironia, ciarlataneria, trucco  esplicito e magia che è il teatro secondo Carmelo Bene”.  Lo spettatore è sconcertato dall’assenza di trama, secondo la coprotagonista Mancinelli “l’idea centrale è quella di una quarta parete, chiusa, in vetro, oltre la quale il pubblico spia”. La documentazione fotografica è ricca di 16 immagini soprattutto di Carmelo Bene con la Mancinelli come santa Margherita, in primi piani intensi e riprese da lontano, sempre nella caratteristica immersione nel buio sottolineata dalla Lancioni: “Il nero isola ed esalta il bel volto di Lydia Mancinelli in alcuni scatti”.  Ce ne sono alcuni a colori, straordinario quello in cui Carmelo Bene si china sul corpo nudo di Isabella Russo distesa su un letto dalla coperta celeste con la testa reclinata e le braccia che si aprono all’indietro come in croce.

Scarna ed essenziale la foto story di “Salvatore Giuliano. Vita di una rosa rossa”,  al Teatro Beat 72  tre mesi dopo, dall’11 al 18 aprile 1967.  Carmelo Bene è regista e voce fuori campo mentre Giuliano è interpretato in scena da Luigi Mezzanotte e la madre da Lydia Mancinelli. “E’ la prima volta che allestisco uno spettacolo senza cambiare una virgola dal testo”, dice lui stesso; mentre Nino Massari, che lo ha scritto dopo una ricerca di sette anni, aggiunge: “E’ spettacolo e basta. Ma è anche uno spettacolo che vuole rompere  con certi miti su questo ‘eroe’alimentati dai giornali. I rischi sono molti, l’unica garanzia che ho è l’autenticità della mia documentazione”; i giornali creatori del mito Giuliano sono chiamati “detriti di una alluvione di notizie futili e durevoli”. Una normalizzazione del teatro di Carmelo Bene su un testo non suo? Tutt’altro, se la critica sottolineerà “una gran concitazione di ‘a solo’, di duetti e terzetti con frequenti attacchi epilettici del fuori legge e assiduo martirio per le orecchie degli spettatori percosse così dal dialogo diretto come dalla sua registrazione su nastro, tra reciproci rinforzi e interazioni”, Carmelo Bene è sempre lui. Nelle 5 immagini i protagonisti sulla scena si muovono in fondali con i giornali dai titoli forti ed esaltati.

Arden, Don Chisciotte e Salomè a colori

Da un dramma inglese del 1500, “Arden of Feversham”, dal 13 al 28 gennaio 1968 nel nuovo “Teatro di Carmelo Bene”, descritto dalla  critica come “una cripta avvolta nell’oscurità”.  L’artista descriverà la storia imperniata sulla crisi del pittore Clarke come una “pattumiera  deprimente, ossessiva e traboccante di passioni, amorazzi, tradimenti coniugali e delittuosi”. Le citazioni di Oscar Wilde, Schopenhauer  e di Schiller rendono la problematicità dei rapporti tra soggetto e oggetto, spazio e tempo, tale che Carmelo Bene arriva ad affermare che con lo spettacolo si è verificata l’impossibilità del teatro “e dell’unica possibilità rimasta di raccontarne l’impossibilità”.  Delle 11 immagini esposte 4 sono primi piani di volti, c’è una statuaria Kell come Susanna e – per la Lancioni – “in una foto in posa, la stessa Lydia Mancinelli, ieratica, con il volto tagliato da una lamina di luce, si scaglia sul nero del fondo”. In un’altra scena “l’accoppiamento tra la giovane donna dall’incarnato latteo (Lydia Mancinelli) e il vecchio canuto (Franco Gulà) affiora con diamantina incisività dal buio della scena”. I contrasti luminosi sono prodotti con un cono di luce che penetra da uno spiraglio a destra del palcoscenico e in un’immagine “coglie e rivela l’affinità della scena con quella dipinta da Caravaggio nella Vocazione di san Matteo“. Il massimo dell’arte!

Nello stesso 1968, dal 26 ottobre, nel Teatro Carmelo Bene, è in scena “Don Chisciotte”,  liberamente tratto da Cervantes in collaborazione con Leo De Berardinis. La critica restò delusa non trovandovi la dissacrazione né la “geniale carica di irriverenza”, ma una “esasperazione fonetica”  con interpreti che “masticano  triturano e salivano e inghiottono”, in uno “spettacolo-concerto-narrazione” ridotto a “pura concitazione verbale”.  Si è trattato di un “racconto di piazza alla maniera popolare” , secondo Faldini, nel “confuso accavallarsi delle due parti narrate da Leo e Bene”, il primo sul piano musicale, il secondo sul “bestiale farfugliamento della ragione che alla razionalità tende con tutte le sue forze”. Le 4 immagini esposte sono spettacolari, una rende la scena in campo lungo,  le altre in pose ravvicinate della Colosimo e D’Arpe con un primo piano di Carmelo Bene come Don Chisciotte, colto con gli occhi spalancati  e la  bocca aperta.

Infine la nuova “Salomè” cinematografica, un lungometraggio del 1972, in seimila inquadrature. Le fotografie esposte sono diapositive a colori, circa 20 sulle 500 presenti nella raccolta di Abate dopo le copiose vendite ai giornali data la presenza delle top model del momento Veruschka e Donyale Luna. Piacque ai pittori De Chirico e Turcato oltre a Flaiano ed Arbasino, il regista vince la “scommessa del colore”. Così parla la Lancioni delle foto di Claudio Abate: “Restituiscono con generosità il tripudio di piume, di fiori e piante finti, dei vetri colorati e dei metalli di cui son fatti bicchieri, coppe, vasi e vassoi, delle mani ingioiellate, dei capi coperti dai cilindri inghirlandati, dei volti trasfigurati dalle maschere mosaicate di bigiotteria, tutto espresso con un registro di toni che eccedono per intensità e brillantezza quelli che generalmente percepiamo a occhio nudo”. In questo caleidoscopio spiccano i corpi nudi di Verushka e Donyale Luna come delle opere d’arte.

E’ una sorta di batteria pirotecnica finale multicolore nei fuochi d’artificio, prima in bianco  e nero, della mostra di Claudio Abate. Abbiamo ripercorso, con le sue fotografie, il tragitto del teatro di Carmelo Bene cercando di rendere alcuni dei motivi prevalenti dei suoi spettacoli, la cui complessità e problematicità non può essere neppure sfiorata. Ulteriore merito della mostra è aver consentito questo tuffo nel recente passato in un’arte teatrale d’avanguardia, unica e irripetibile.

Info

Palazzo delle Esposizioni, Roma, Via Nazionale 194, domenica e da martedì a giovedì ore 10,00-20,00, venerdì e sabato 10,00-22,30, lunedì chiuso. Ingresso intero euro 12,50, ridotto 10,00,  consente di visitare tutte le mostre in corso nel Palazzo Esposizioni, come la contemporanea  “La via della seta”. Biglietto integrato con le Scuderie del Quirinale; intero euro 20,00, ridotto 16,00. Prenotazioni 06.39967500, scuole 848082408. Info.pde@palaexpo.ir, http://www.palazzoesposizioni.it/.

Catalogo “Benedette foto! Carmelo Bene visto da Claudio Abate”, a cura di Daniela Lancioni con Francesca Rachele Oppedisano, Skirà, novembre 2012, pp. 128, formato 24×24 cm; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo.  

Foto

Le immagini sono state riprese nel Palazzo Esposizioni alla presentazione della mostra da Romano Maria Levante, si ringrazia l’Ufficio stampa del Palaexpo, con l’organizzazione e i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. In apertura Carmelo Bene in “Faust e Margherita”; seguono sue immagini con Ornella Ferrari in “Il Rosa e il Nero da di a G. M. Lewis”, e con Margherita Puratich in “Nostra Signora dei Turchi“; in chiusura Carmelo Bene con Veruschka in “Salomè”.  

Carmelo Bene con Veruschka in “Salomè”