di Romano Maria Levante
Presentata solennemente in Campidoglio, alla Sala delle Bandiere, la mostra “Anime di materia. La Libia di Alì Wak Wak”, dal 16 gennaio al 28 febbraio 2013 alla Gipsoteca del Vittoriano, p.zza Ara Coeli: 40 sculture di grandi dimensioni realizzate dopo la rivolta libica, all’aprile 2011, trasformando i residuati bellici – elmetti e armi, munizioni e utensili – in figure antropomorfe e di animali. La mostra, realizzata da “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, è promossa da “Health Ricerca e Sviluppo”, in collaborazione con la Camera di Commercio di Roma,, e sostenuta dall’Eni .
“Milite ignoto”, all’ingresso della mostra
Ha il patrocinio dei Ministeri degli Esteri e dei Beni culturali di Italia e Libia, nonché della Regione Lazio, di Roma Capitale e di istituzioni libiche, il Charity Libyan Disable e il King Senussi’s Castle Museum di Bengasi. Curatrice della mostra e del Catalogo Gangemi, Elena Croci.
Il “parterre de roi” dei patrocinanti fa capire che è qualcosa di più di un’esposizione artistica; è un evento di rilevanza anche economica e politica perché tende a rafforzare i molteplici collegamenti tra il nostro paese e la nuova Libia.
Un evento tra arte, politica ed economia
Ne ha parlato il presidente della Camera di Commercio di Roma Giancarlo Cremonesi che, riferendosi ai rapporti economici e all’l’importanza della cultura, ha auspicato che “Roma diventi la capitale del Mediterraneo cominciando dall’accoglienza”.
Molto politico l’intervento della rappresentante libica Kanoun che ha ringraziato l’Italia a nome del suo governo “per la vicinanza e l’aiuto” in nome dell’aspirazione comune “alla pace e al benessere”; ha rivendicato la “lotta contro l’oppressione” del suo popolo “che non ha piegato la schiena” e l’importanza del programma di “riconciliazione e unificazione” per un “paese aperto”. “E’ stata fatta la rivoluzione per avere la pace – ha concluso – la guerra non fa parte della nostra cultura”.
Il sindaco Gianni Alemanno ha collegato alla mostra i vari aspetti, economico e politico, ribadendo la “vocazione mediterranea di Roma” e l’impegno comune che “il Mediterraneo non sia più un’area di scontri e conflitti ma di cooperazione per lo sviluppo e la crescita culturale. Ricordiamo gli anni terribili di Gheddafi con i sentimenti antitaliani per le passate vicende coloniali – ha detto – ora i rapporti tra i nostri popoli possono essere diversi, non più sentimenti di odio e rancore ma sentimenti di pace e tolleranza e di vicinanza nel superare le rispettive difficoltà”. Rapporti di vicinanza che vanno rafforzati per consolidare i successi raggiunti dal movimento di liberazione libico. “Avevamo seguito la guerra civile nelle cronache – ha esclamato – ma ora”la mostra ce ne fa cogliere ancora di più la drammaticità con i materiali bellici utilizzati dallo scultore, che danno una sensazione analoga a quella provata nelle visite ai ‘luoghi della memoria’. L’arte consente di approfondire gli eventi della storia e lascia un segno nella memoria collettiva”.
Dell’autore delle opere esposte ha parlato Alessandro Nicosia, insistendo sul fatto che è riuscito ad esprimere nell’arte le sollecitazioni di una vita intensa, segnata dalla sofferenza per drammi personali e familiari dovuti anche alle persecuzioni politiche, è stato in carcere, ha perduto un figlio. “Ha tradotto nell’arte i suoi dolori attraverso la trasformazione in vita del ferro dei residuati bellici.” Un’operazione questa di profondo significato umano che va anche oltre l’aspetto artistico. L’artista Ali Wak Wak, intervenendo alla presentazione, ne ha dato diretta conferma e ha voluto precisare che rispetto alle richieste da altri paesi per questa prima esposizione fuori dalla Libia ha preferito l’Italia per la vicinanza e amicizia dei popoli e per l’alto valore simbolico del Vittoriano.
“Il Riposo del Guerriero”
Motivi e contenuti della mostra
La curatrice Elena Croci è entrata nei contenuti della mostra, sottolineando alcuni aspetti e significati di portata ancora più ampia: la cultura che diventa un traduttore di concetti complessi e veicolo di dialogo, la pace è un ponte, la materia riprende a vivere trasformandosi da materia di morte a materia di vita; viene reinventata e rivive come strumento di comunicazione, “c’è una colla che riassembla la materia creando armonia”; inoltre “non bisogna capire con l’intelletto ma essere aperti a sentire con la percezione e seguire la spinta per l’armonia”; infine si deve riflettere sulla “differenza tra continuare e ricominciare”, nel primo caso si conservano i pesi del passato, nel secondo ci si muove in modo innovativo in un nuovo inizio.
Ce n’è quanto basta per analizzare più da vicino la complessa operazione dell’artista libico nel trasformare residuati bellici, che ci sembra di sentire ancora caldi per le recenti operazioni militari, in figure umane e animali che l’evidenza dei materiali utilizzati fa diventare “testimonial” muti di un messaggio di pace. Con l’ulteriore effetto dato dalla ruggine, così descritto dalla Croci: “”Il ferro arrugginito manifesta il simbolo di un passato, di un tempo che si vuol dimenticare”, e questo si riferisce alla tragedia della guerra libica. “Ma la ruggine delle sculture di Alì è come una pelle vissuta; l’ossidazione ne rivela la condizione, le rughe, l’esperienza”, e questo riguarda la condizione umana in ogni epoca e latitudine.
L’utilizzo del ferro recuperato dagli ordigni di guerra lo avevamo visto di recente nella mostra al “Macro” dell’iracheno Hiwa K che ha esposto, oltre al “calco” in sabbia di un “cassettone” del Pantheon, dei residuati bellici delle guerre del Golfo fusi con metodi arcaici dal connazionale Nazhad. Era simbolico, per la piccola dimensione del prodotto finale e il suo carattere non propriamente scultoreo. Qui nella scelta dei materiali c’è un significato ulteriore: si tratta per lo più di armamenti distrutti delle forze di Gheddafi presi nelle basi intorno a Bengasi dopo i bombardamenti della Nato o delle forze rivoluzionarie; ebbene, gli stessi mezzi prodotti e usati per distruggere e dare la morte sono plasmati per ricostruire e dare la vita, ciò che è negativo e dannoso può riconvertirsi a un impiego positivo e benefico, una lezione di vita che va anche oltre l’antitesi tra pace e guerra.
La mostra del Vittoriano espone 40 delle 275 sculture metalliche create dall’artista dall’aprile 2011, dopo due mesi dalla fine della guerra civile libica che gli ha dato l’ispirazione, con l’aiuto di due assistenti Muftah e Naser, aiuto necessario per l’enorme lavoro meccanico di demolizione e saldatura, oltre che artistico.
E’ giunto a questo importante traguardo un itinerario di vita che lo ha visto iniziare a 13 anni nel 1960 aiutando il padre nei lavori artigianali in legno, poi questo materiale è divenuto per lui mezzo di espressione artistica finché nel 2006 non è passato al ferro che nel 2011 diviene quello dei residuati bellici della guerra civile, le armi usate da Gheddafi contro il suo popolo trasformate in opere d’arte e messaggeri di pace: la migliore rivincita contro il tiranno dopo la condanna nel 1989 a 7 anni di prigionia, di cui 2 trascorsi in carcere fino al rilascio per buona condotta, per essersi rifiutato di combattere contro il Ciad; e l’arresto negli anni successivi del fratello e del figlio ventenne, con l’accusa di essere fondamentalisti islamici, rinchiusi nella prigione di Abu Slim fino alla liberazione da parte degli insorti nel 2011. Di qui una nuova energia e una forte ispirazione ideale con motivi di rinascita morale e civile, sociale e politica del suo paese e di riscossa personale.
Al di là di questa spinta data dagli eventi drammatici, c’è alla base della sua espressione artistica una visione filosofica che laCroci definisce così: “Alì Wak Wak da sempre si serve del legno e del ferro per raccontare la sua passione, il suo pathos in senso aristotelico, la sua affezione dell’anima che trova corpo per mezzo della materia”. E prosegue: “Alì si avvale dell’arte quale arma universale, inattaccabile, e non smette di sognare e sperare, facendo anche lui la sua guerra personale, una lotta forse ancora più difficile e silenziosa”. La curatrice non si linita alla guerra libica: “Per tanti anni egli ha coltivato quella che oggi lui chiama ‘l’accettazione di una vita piena, colma, sia di gioia sia di dolore”, e se riferisce all’artista termini come “arma” e “guerra” lo fa perchè lui li ha usati come un vaccino bnefico, trasformandoli con la sua arte in messaggi di pace e di vita. .
Quindi nel guardare le sue opere non si deve avere in mente soltanto il riferimento alla guerra che ha dato i materiali utilizzati per la trasposizione dalla morte alla vita, dalla distruzione alla ricostruzione; ma si deve pensare alla base filosofica più profonda, che attiene alla condizione umana, al valore dell’anima che emerge dalla materia più dura e ostile.
“Giraffa”
Le opere scultoree dai residuati bellici della guerra libica
Si tratta di figure semplici ed essenziali, costruite con l’assemblaggio di parti meccaniche residui di armi, macchine e meccanismi di varia natura, coperte da una ruggine carica dei significati prima evocati. E’ come se l’artista ci volesse dare l’essenza materiale dei soggetti rappresentati, privi di qualunque sovrastruttura od orpello, quasi una radiografia del loro scheletro originario; è un modo per avvicinarsi all’anima la cui riscoperta attraverso la materia è, in fondo, il suo obiettivo?
All’ingresso della mostra accoglie una figura imponente, con le braccia aperte, il fucile nella sinistra e la bandoliera di cartucce, scarna nelle sue componenti metalliche assemblate, è al centro della sala che in una parete reca la pianta geografica del bacino del Mediterraneo. Pensiamo sia proprio il “Milite ignoto”, che sede più appropriata non poteva trovare per l’esposizione, nella scultura di Wak Wak è bellicoso, mentre al Vittoriano è nel sacello dove fu traslata la salma da Aquilei con grande solennità, rivissuta nella mostra del 2011 e nel treno commemorativo che ha ripercorso l’itinerario di allora.
Dall’immagine epica del “milite ignoto” si passa a un’immagine angosciosa: un ampio tratto della parete destra nella Gipsoteca è coperto di elmetti forati con dei volti abbozzati, l’opera è intitolata “Il muro dell’identità”: gli elmetti sono più di 500, si estendono per 15 metri con utensili e armi che spuntano in alto, è sembrata la denuncia più forte, dietro ogni elmetto non una ma tante vittime. Poi “Soldato on line” e “Tamburino”, “Derviscio” e “Bambini soldato”, e immagini legate direttamente all’ispirazione militare come “Invalido di guerra” e “Il riposo del guerriero”: il primo, alto più di tre metri, è un assemblaggio rigido e statuario di una miriade di cartucce e proiettili, nel secondo grandi molle di acciaio compongono una figura seduta, ma sempre con il suo elmetto. Fino a “Freedom”, dove l’accozzaglia di ferraglia con le braccia in alto esprime la grande gioia della libertà riconquistata, ed è straordinario come con una materia così fredda e brutale esprima sensimenti così caldi ed elevati.
Non solo figure militari, anche altre di tipo opposto, come “Coppia di innamorati” e “Il pensatore di Rodin”, “Bob Marley” e “Marziano”, “Cavaliere” e “Natività”. Scompaiono gli elmetti fin qui onnipresenti, per una maggiore leggerezza.
Le due ultime sculture ci introducono all’altro grande settore della mostra e dell’arte di Wak Wak, il mondo degli animali, nel quale la materia ferrosa dà vita a uno zoo il cui significato rimanda al richiamo della natura che gli uomini troppo spesso dimenticano minacciandone l’equilibrio e violandone le leggi: “Alì penetra queste leggi – commenta la Croci – le rende materia”, traendone un messaggio: “Questo zoo è un’allegoria di una trasformazione sempre latente, ancora possibile. Accettare i difetti che sono parte dell’umanità ma allo stesso tempo esercitare quella parte di noi ancora bambina che riesce a stupirsi di fronte all’immensità di un elefante ma anche al volo di un piccolo insetto”.
Scoprire la “parte ancora bambina” di un artista segnato duramente dalla vita nella persona e negli affetti, nonché nella propria terra, la cui figura forte e imponente con il viso incorniciato dalla barba lo avvicina piuttosto a un profeta, rivela la sua anima, oltre quella che riesce a far emergere dalla materia nelle sue sculture.
Il suo zoo è fatto di animali grandi e piccoli, che però non mostrano istinti di predatori anche se il più grande, un “Ragno” gigantesco alto 2 metri e largo 4 reca sulla groppa visibili gli elmetti forati che ne richiamano lo spirito aggressivo. Molto grandi, ma aggraziati, anche la “Giraffa” e il “Fenicottero”, quasi 2 metri l’uno, mentre di dimensioni minori lo “Sciacallo” e il “Granchio”, il “Millepiedi” e il “Baby millepiedi”, un diminutivo dal quale traspare la tenerezza dell’artista verso questo mondo; anche la “Civetta” ha una grazia che contraddice la fama di menagramo affibbiatale da certa superstizione.
E’ “una primavera della natura, un percorso attraverso animali grandi e piccoli, insetti e mammiferi che si manifestano in tutta la loro essenza”, così la Croci definisce lo zoo di Wak Wak. Nella primavera, aggiungiamo, non può mancare il “Sole”, e l’artista lo presenta, fatto sempre di materiale bellico, quasi una fusione. Il valore simbolico è evidente, soprattutto riferito alle parole di Benedetto XVI: “Gli occhi riconoscono gli oggetti quando questi sono illuminati dalla luce. Da qui il desiderio di conoscere la luce stessa, che fa brillare le cose del mondo e con esse accende il senso della bellezza”. Il sole è la fonte della luce.
Terminata la parte scultorea la mostra riserva la sala finale a una panoramica fotografica delle due Libie: quella degli importanti reperti archeologici da Apollonia a Cirene, e quella delle nuove costruzioni, dagli obelischi moderni ai ponti avveniristici. Ci sono anche immagini della natura, con i tramonti dal Lungomare di Bengasi sul Mediterraneo.
Salvatore Santangelo aderisce alla definizione di Matvejevic “mare della vicinanza” affermando: “Infatti, più che una frontiera le acque del Mediterraneo hanno spesso costituito una via di passaggio e di comunicazione , la piattaforma ideale e concreta su cui questi due Paesi hanno spesso edificato un destino storico condiviso”.
E’ la cultura il collante per far sì che questa costruzione investa l’economia e la politica, e di certo con le opere di Wak Wak è intervenuta la cultura come la definisce la Croci: “la Cultura con la C maiuscola perché, anche se non capita, questa risvegli quel pezzo di anima incrostata su di un corpo arrugginito da una vita annoiata”. Anima e incrostazioni, corpo e ruggine: sono proprio gli ingredienti i cui valori simbolici abbiamo visto esaltati nella mostra “Anime di materia. La Libia di Wak Wak”.
Info
Complesso del Vittoriano, Gipsoteca, Roma, piazza dell’Ara Coeli, 1. Aperto tutti i giorni: da lunedì a giovedì ore 9,30-18,30; da venerdì a domenica ore 9,30-18,30. Ingresso gratuito (fino a 45 minuti prima dell’orario di chiusura: Tel. 06.69202049. Catalogo: “Anime di materia. La Libia di Wak Wak”, a cura di Elena Croci, bilingue italiano-inglese, Gangemi Editore, gennaio 2013, pp. 254, formato 21 x 30; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo.
Foto
Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra, precisamente al Vittoriano per le sculture e al Campidoglio per la conferenza stampa, si ringrazia Comunicare Organizzando di Alessandro Nicosia con i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. In apertura la grande scultura “Milite ignoto” all’ingresso della mostra; seguono “Il Riposo del Guerriero” e “Giraffa”; in chiusura uno scorcio del tavolo degli oratori durante l’intervento di Wak Wak mentre l’interprete traduce, alla sua sinistra la rappresentante libica Kanoun e ancora sulla sinistra il sindaco di Roma Gianni Alemanno.
Wak Wak al centro, alla sua sin. la rappresentante libica Kanoun con alla sin. il sindaco di Roma Gianni Alemanno