di Romano Maria Levante
Il tema del Rinascimento romano è di tale interesse da richiedere che non vada dimenticata la grande mostra promossa dalla Fondazione Roma e realizzata con “Arthemisia”,“Il Rinascimento a Roma, nel segno di Michelangelo e Raffaello”, svoltasi al Palazzo Sciarra al Corso, dal 25 ottobre 2011 al 12 febbraio 2012. Le 200 opere in 7 sezioni hanno consentito un’immersione nella storia dei pontificati da Giulio II e Leone X a Paolo III, attraverso Clemente VII, in un’epoca di grande fervore artistico per la presenza dei due sommi artisti e poi dei seguaci La rievochiamo a un anno esatto dal giorno fissato per la chiusura, poi prorogato per la sua importanza e il suo successo, rivivendo un periodo tanto significativo e fissando così le impressioni di quell’evento.
Raffaello Sanzio, “Autoritratto”, 1509
Dopo l’inaugurazione con “Roma e l’Antico nella visione del ‘700”, a Palazzo Sciarra è tornata, a fine ottobre 2011, ‘esplorazione storico-artistica frutto di un’accurata ricerca sul ‘500 romano: un’irripetibile temperie artistica stimolata dalla presenza contemporanea di Michelangelo e Raffaello e sviluppatasi nei seguaci ed epigoni lungo il corso del secolo.
Alla base di queste iniziative c’è la strategia espositiva della Fondazione Roma così delineata dal presidente Emmanuele F. M. Emanuele: “Dipanare con una serie di mostre un percorso quasi pedagogico che consenta ai visitatori di comprendere la magnificenza dello sviluppo della produzione artistica della Città Eterna a partire dal Quattrocento, momento in cui essa rinasce con il ritorno dei Papi dall’esilio di Avignone per avviarsi, secolo dopo secolo, con uno splendore crescente, a diventare il punto di riferimento nuovamente, e questa volta non solo per motivi politici e militari, ma squisitamente artistici del mondo intero”. Di questo percorso il bellissimo Catalogo di Electa, coordinato dai curatori della mostra Maria Grazia Bernardini e Marco Bussagli con i preziosi saggi di insigni studiosi, offre un’inedita ricostruzione sul piano storico-artistico; il suo interesse si accresce con la mostra chiusa perché ne rappresenta una testimonianza insostituibile.
Il ‘500, in cui si manifesta il Rinascimento a Roma, è per la Città Eterna l’anello centrale tra il ‘400 e il ‘700 già presentati nelle precedenti mostre della Fondazione: un faro luminoso oscurato solo momentaneamente dal Sacco di Roma del 1527, allorché fu devastata dai Lanzichenecchi, la popolazione dimezzata fino a 25.000 abitanti, gli artisti costretti ad abbandonare la città.
La mostra ha avuto il merito di ricostruirne i diversi momenti nel “percorso quasi pedagogico” di cui ha parlato il presidente Emanuele articolato in 7 sezioni corrispondenti allo sviluppo sul piano artistico e non solo cronologico. Ha avuto anche il merito di aver accompagnato la sua complessa preparazione con una campagna di restauri – non limitati alle tele esposte ma estesi ad affreschi, codici e reliquari – che ha riportato all’antico splendore opere di Raffaello e Francesco Salviati, Muziano e Garofano, e la “Pietà di Buffalo” attribuita a Michelangelo.
Secondo Vittorio Sgarbi, in un commento colto al volo all’inaugurazione, con Rinascimento si esprime il sentimento di allora, “che l’antico non era morto ma lo si vedeva rimodellarsi e rinascere”, o in altri termini che “morta Roma antica, rinasceva nella Roma moderna, in cui convivevano a pari livello il nuovo e l’antico”. Lo si vede anche nell’architettura dove – secondo il saggio nel Catalogo di Marcello Fagiolo e Maria Luisa Madonna – “la Roma del Rinascimento è anzitutto un ponte lanciato tra l’antico e il moderno nel duplice segno della Roma instaurata e della Roma sancta, per realizzare il sogno umanistico del restauro della maestà imperiale trasmessa al nuovo ruolo di capitale dello stato pontificio e di rappresentante della ecclesia militans”.
Entriamo così nel vivo delle vicende storiche strettamente legate a quelle artistiche perché i Papi dell’epoca sono stati i grandi mecenati che hanno dato l’avvio al Rinascimento romano. Siamo nel “secondo Rinascimento”, dopo “Il Quattrocento a Roma. La Rinascita delle arti da Donatello a Perugino”, scrivono Bernardini e Bussagli ricollegandosi alla mostra della Fondazione Roma che ha preceduto quella su “Roma e l’Antico nella visione del ‘700”.
E’ un periodo che si conclude con il pontificato di Paolo III della famiglia Farnese il quale, nelle parole dei curatori, “fu non solo l’austero riformatore della Chiesa e il fiero oppositore di Carlo V ma fu pure il collezionista d’arte, il mecenate munifico, il committente per eccellenza, il latinista raffinato. In una parola fu di nuovo uomo del Rinascimento”. La mostra, “nel segno di Michelangelo e Raffaello”, è iniziata con la loro presenza contemporanea fino al 1520, allorché muore Raffaello e Michelangelo lascia Roma, per tornarci fino alla morte nel 1564, era papa Paolo IV. Il primo pontefice mecenate del ‘500 è Giulio II della Rovere, che chiamò Michelangelo per la “Cappella Sistina” evocata in mostra con le “Stanze di Raffaello” mediante un sistema molto avanzato in grado di esplorarla in modo ravvicinato ad alta definizione addirittura in 3D.
Raffaello Sanzio, “Ritratto di Tommaso Inghirani detto ‘Fedra’”, 1513
Michelangelo e Raffaello nella Roma di Giulio II e Leone X
Perché il Rinascimento romano è “nel segno di Michelangelo e Raffaello”? Lo dice chiaramente la curatrice Bernardini dopo aver citato il passo in cui Giorgio Vasari parla dell’interesse degli artisti fiorentini “per vedere che differenza fusse fra gli artefici di Roma e quelli di Fiorenza nella pratica”: interesse dovuto alla rinomanza delle opere romane dei due sommi maestri, culminate nella “Cappella Sistina” di Michelangelo e nelle “Stanze” di Raffaello.
“Roma si presentava come il centro assoluto del laboratorio artistico, raggiungendo vette di straordinaria potenza figurativa”, afferma la studiosa, e ne spiega il motivo: “Michelangelo e Raffaello erano i due numi tutelari, i maestri da cui apprendere, cosicché la Maniera che si venne delineando a Roma nel corso dei decenni successivi ebbe un carattere molto peculiare, dovendosi confrontare continuamente con i due giganti dell’arte”. Con questi effetti peculiari: “L’influenza dei due maestri si diffuse ovviamente anche fuori Roma, ma fu nella città eterna che condizionò in modo sostanziale i fatti artistici. I giovani che qui giungevano, studiavano e assimilavano l’arte di Michelangelo e di Raffaello, oltre allo studio dell’arte classica, e queste tre componenti saranno costantemente presenti nelle loro opere, pur con esiti diversissimi”.
Era diversa anche la loro presenza a Roma: Raffaello aveva aperto una bottega vera e propria, Michelangelo lavorava in modo isolato. I giovani trovavano in Raffaello la possibilità di lavorare con lui e il suo stile delicato e seducente, in Michelangelo uno stile possente con forti contenuti spirituali che esercitava una attrazione anche verso coloro che si erano accostati a Raffaello.
Gli influssi dei due maestri e in più le reminiscenze dell’antico fanno sì che le opere di quel periodo presentino evidenti differenze stilistiche, a seconda dell’influsso prevalente. Si può dire che la tendenza fosse raffaellesca, tenendo conto della bottega e del numero e livello di opere realizzate a Roma, dove Raffaello era stato chiamato nel 1508 da Giulio II per decorare le Stanze Vaticane.
Le opere di Raffaello le descrive il saggio di Alessandro Zuccari, dalla “Disputa del Sacramento” alla “Scuola d’Atene”, dalla “Cacciata di Eliodoro” alla “Liberazione di san Pietro dal carcere”; dal “Trionfo di Galatea” alla “Loggia di psiche” aVilla Farnesina, fino alla “Trasfigurazione” nella Pinacoteca Vaticana. Sulla “Scuola d’Atene”, in particolare, lo studioso scrive: “E’ la più grandiosa architettura che fino a quel momento fosse stata dipinta, e solo a Roma poteva essere concepita, avendo davanti agli occhi le immense volte della Basilica di Massenzio, gli archi onorari e le altre vestigia dell’età imperiale.
Ma non si tratta di semplici emulazioni, perché Raffaello volle creare ‘un antico nuovo, mai visto eppure sempre più latino, imperiale e cristiano, e universale'”, citazione da Camesasca. Nella “Cacciata” e nella “Liberazione”, continua Zuccari, “queste composizioni rispondono ancora a equilibrati schemi simmetrici, ma esprimono un’inedita unità che concilia visivamente le divergenti tensioni; vibrano inoltre di una più teatrale animazione, anche perché ‘non è più lo spazio, ma la luce il principio divino, che ora si identifica nella vita stessa che suscita’”, brano citato dal Condivi. “Inoltre l’intensità del colore, arricchita dagli effetti crepuscolari e dal baluginare delle lampade o degli incendi, contribuisce a creare un senso di ‘vivace saturazione'”.
A questa batteria di capolavori risponde Michelangelo con la potenza delle sue sculture, a partire dalla “Pietà vaticana” che Cristina Acidini definisce “culmine del secolo uscente e viatico per la trionfale apertura del nuovo”, commissionata nel 1497 per il Giubileo del 1500; degli stessi anni il dipinto “Andata al sepolcro”. Dal 1501 al 1508 lavorò in prevalenza a Firenze, ma a Roma fu impegnato nella “titanica e irrisolta impresa della tomba papale”, e realizzò capolavori scultorei come il “Mosè” e “I Prigioni”, “Lia” e “Rachele”; nell’ultima parte della vita le due altre “Pietà”, “Bandini” e “Rondinini”
E la pittura? Nientemeno che la “Cappella Sistina”, ultimata nel 1512, con la quale “impresse una svolta nell’arte dell’Occidente”, nelle parole della studiosa che aggiunge: “Il vasto affresco immise nella pittura novità sconvolgenti: una visione illuministica multipla, un’umanità di proporzioni eroiche sforzate in pose e torsioni sfidanti, un naturalismo fantastico di luoghi e di dettagli, una gamma cromatica audace per fulgori, contrasti, cangiamenti”. Silvia Danesi Squarzina aggiunge: “L’attenzione maggiore è rivolta all’anatomia del corpo umano, sia come momento di sereno abbandono e di contemplazione della perfezione di proporzioni del creato, sia come tensione e sofferenza indicibile” nel Cristo in croce.
La stessa studiosa definisce Michelangelo e Raffaello”le due figure che giganteggiano, nel mirabile panorama artistico della Roma del Rinascimento. La profonda diversità fra i due artisti si può ben comprendere e apprezzare … analizzando due iter completamente opposti. Se al Sanzio va il merito di rappresentare l’armonia, l’equilibrio e la bellezza, di una stagione felice e anche finanziariamente ricca, che si apre col pontificato di Sisto IV Della Rovere e si chiude con quello di Leone X Medici, al Buonarroti tocca il ruolo di precorrere, con la sua personalità inquieta, turbata dalla predicazione di Savonarola, la crisi gravissima che si determina nella città e nelle coscienze dopo le tesi di Lutero (1517) e il Sacco di Roma (1527)”. E non è poco, come si può ben capire.
Sebastiano del Piombo (attr.), “Ritratto di Michelangelo che indica i suoi disegni”, 1520
La prima sezione con i due numi tutelari e i loro primi seguaci
Nella prima sezione della mostra si trovava quello che sarebbe il “clou” se si fosse trattato solo di una rassegna di capolavori: la mostra è stata anche questo, ma soprattutto il “percorso quasi pedagogico” di cui ha parlato Emanuele, pertanto i loro influssi sugli altri artisti qui interessano forse più della loro presenza diretta testimoniata da alcune opere molto pregevoli.
Per Raffaello dal famoso “Autoritratto”, 1509, al “Putto”, 1911, un affresco su intonaco staccato alto oltre un metro, dal “Ritratto del Cardinal Alessandro Farnese”, 1509-13, al “Ritratto di Tommaso Inghirami detto Fedra”. 1513 circa: accomunati dal rosso porpora del mantello, il primo è in piedi e statuario, il secondo raffigurato seduto mentre scrive, lo sguardo al cielo. Erano esposte anche tre copie da Raffaello, “Ritratto di papa Giulio II Della Rovere”, “Madonna dei garofani” e, di Bugiardini, “Ritratto di Leone X con i cardinali Giuliano de’ Medici e Innocenzo Cybo”, 1519-20. Presenti dei suoi disegni raffinati, come il “Progetto per la Cappella Chigi” 1511, e il “Progetto per le terrazze dei giardini di Villa Madama”, 1518.; ma soprattutto lo “Studio per il santo della Disputa”, 1509, notevole nelle forme e nelle linee di volto e panneggio.
Michelangelo era rappresentato nel dipinto di Sebastiano Del Piombo, “Ritratto di Michelangelo che indica i suoi disegni”, 1520, il ben noto viso dalla lunga barba e un album con fogli disegnati; c’era pure una copia del “Mosè” attribuita ad Ammannati. Per il resto soltanto uno “Studio per una figura maschile nuda seduta” e, nello stesso foglio, lo “Schema della costruzione della centina per l’impalcatura della volta della Cappella Sistina” . La sua arte era testimoniata inoltre dalla possibilità di vedere i minimi particolari sulla volta della “Cappella Sistina”e su una parte del “Giudizio Universale” nella riproduzione virtuale dell’apposita sala multimediale, a cura dell’ENEA, insieme alla “Loggia di Amore e Psiche” di Raffaello; e da michelangioleschi disegni di architetture, come quello del Vignola, che ritroveremo per la cupola di San Pietro.
C’era un dipinto di Lorenzo Lotto, l‘artista impegnato con altri nelle Stanze Vaticane prima che fossero monopolizzate da Raffaello per cui lasciò Roma: si tratta di “San Girolamo in meditazione”, 1909, il santo con i suoi libri coperto dalla cintola in giù da un mantello rosso, in un ambiente naturale composito nel primo piano e nel panorama dello sfondo. Gli autori su cui ci soffermiamo sono, però, quelli nei quali si possono riconoscere accostamenti con l’uno o l’altro o con entrambi i “numi tutelari”: anche quelli della bottega di Raffaello, pur restando fedeli allo stile del loro maestro, erano attratti dal vigore plastico e dalla forza spirituale di Michelangelo.
Di Giulio Romano erano esposti “Cristo in gloria con quattro santi”, 1520, e “Madonna con Bambino e san Giovannino”. 1523, in lui la Bernardini sente il linguaggio “più eroico e monumentale”; mentre in altri della stessa scuola lo trova “più ornamentale e decorativo”. Il primo di questi era Perin del Vaga (al secolo Pietro Buonaccorsi) di cui erano esposti “Tarquinio Prisco e l’augure Atto Navio” , 1517-19, e “Sacra Famiglia”, 1540, a lui attribuito. Su questo artista che ritroveremo più avanti, quando succederà a Raffaello alla sua morte, la Bernardini si esprime così: “Riesce ad operare una sintesi tra i due opposti linguaggi, rielaborando la composizione michelangiolesca con un lessico raffaellesco”; e indica un ulteriore motivo di interesse della mostra, il ricercare gli elementi più caratteristici dei due influssi. Un altro è Baldassarre Peruzzi, ritroveremo anche lui, con esposte tre opere: una “Sacra Famiglia”, 1515, dove alla dolce Madonna raffaellesca si accosta un vigoroso San Giuseppe che ricorda il Mosè; “Cerere”, 1520, viso di Madonna, “Luna e Eudimione”, 1530, con una certa forza compositiva .
Una coppia altrettanto interessante era costituita da Sebastiano Del Piombo (al secolo SebastianoLuciani) e dal Parmigianino (al secolo Francesco Mazzola). Del primo il michelangiolesco “Cristo alla colonna”, 1537, ci torneremo più avanti, quando diventerà protagonista. Del Parmigianino una delicata “Visitazione”, 1527, quasi un’incisione, con le due figure femminili in piedi che si abbracciano avvolte nei loro panneggi. La Bernardini sottolinea come nella sua “Visione di San Girolamo”, 1526, per la chiesa di San Salvatore in Lauro, “rende omaggio a Michelangelo nella monumentalità delle figure, ricorda Leonardo in particolare nell’atteggiamento della mano, e riflette il messaggio di Raffaello nella grazia e nell’eleganza delle sue forme e nella chiarezza dell’impostazione”. Ecco come trasformare le influenze in propri pregi stilistici e compositivi.
Abbiamo ancora due coppie di artisti, Girolamo Genga, di cui era esposto “Lo sposalizio mistico di santa Caterina”, terzo decennio, e Domenico Beccafumi, con “Testa di giovane”,1530-35; poi Alonso Berruguete, con la “Madonna col Bambino, san Giovannino e santa Elisabetta”, 1508-14 e Pedro Machuca, con la “Sacra Famiglia”, 1518: nelle due ultime opere, arrischiando la ricerca degli influssi, ci è parso di trovare raffaellesca la Madonna e michelangiolesco il Bambino.
La prima sezione si concludeva con tre dipinti del Garofalo (al secolo Benvenuto Tisi), due di tipo religioso, “Madonna col Bambino in gloria e i santi Francesco d’Assisi e Antonio di Padova”, 1528-29, e “Cristo e la Samaritana al pozzo”, 1550; uno di tipo cavalleresco “Pico trasformato in picchio”, 1535, un impianto complesso su più piani del tipo di quello già visto in “Luna e Endimione” di Baldassarre Peruzzi. La ricerca degli influssi e delle analogie continua.
Termina così la prima parte della rievocazione della visita, dopo aver accennato ai caratteri salienti della fase storica dove l’arte a Roma era dominata dai due “numi tutelari”. Nel 1527 ci fu il Sacco di Roma, poi il ritorno degli artisti allontanatisi dalla città devastata. Le sezioni successive erano dedicate al Rinascimento e il rapporto con l’antico, la Riforma di Lutero e il Sacco di Roma, i fasti farnesiani e la Basilica di San Pietro, la maniera di Roma a metà secolo e gli arredi. Ci torneremo presto, per ricordare come si dispiega la storia cittadina intrecciata all’arte di un secolo irripetibile.
Info
Catalogo: “Il Rinascimento a Roma. Nel segno di Michelangelo e Raffaello”, a cura di Maria Grazia Bernardini e Marco Bussagli, Electa, 2011, pp. 360, formato 24 x 28, euro 45; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo.I successivi due articoli sulla mostra usciranno, in questo sito, il 14 e 16 febbraio 2013, ciascuno con altre 4 immagini.
Foto
Le immagini sono state fornite da “Arthemisia” che si ringrazia, con la Fondazione Roma Arte-Musei e i titolari dei diritti. In apertura Raffaello Sanzio, “Autoritratto”, 1509; seguono Raffaello Sanzio, “Ritratto di Tommaso Inghirani detto ‘Fedra’”, 1513 e Sebastiano del Piombo (attr.), “Ritratto di Michelangelo che indica i suoi disegni”, 1520; in chiusura Michelangelo Buonarroti, “Apollo-Davide”, fine 1530.
Michelangelo Buonarroti, “Apollo-Davide”, fine 1530