di Romano Maria Levante
“Ritratti di Poesia”, un’intera giornata, dalle 9,30 alle 21,30, dedicata alla poesia con gli incontri e confronti, idee e versi, letture e voci, preannunciati dalla locandina. E’ stata promossa dalla Fondazione Roma che, con la “total immersion” nella cultura, ha presentato un volto delle Fondazioni bancarie ben diverso da quello sfregiato dalle azioni dissennate, e altro ancora, venute alla luce in questo periodo. Il Presidente Emmanuele F. M. Emanuele lo ha rivendicato con legittimo orgoglio parlando alla sala al completo a fine giornata e l’istituto delle Fondazioni deve essergliene grato: “La Fondazione Roma, a differenza di come fanno altri, non si occupa di banche – ha affermato – non si occupa di consigli di amministrazione, non si occupa di potere, ma di poesia, di cultura, si occupa di voi!”.
Il presidente Emmanuele F. M. Emanuele nell’intervento iniziale
All’inizio della giornata dedicata alla poesia aveva ricordato come il sostegno della Fondazione alla cultura si aggiunge al sostegno nei settori legati all’economia e alla società: ricerca scientifica e istruzione, sanità e solidarietà, meridione in ottica mediterranea, e si estende nei diversi campi, con l’arte al centro di una promozione diretta attraverso gli spazi espositivi romani di Palazzo Sciarra e Palazzo Cipolla con grandi mostre dedicate alla storia artistica che fa capo a Roma e al multiculturalismo dell’arte senza confini geografici e continentali; poi con la musica e il teatro, anche aperto ad emarginati e disabili. Sulla poesia ha sottolineato che “è rasserenatrice e se ne ha molto bisogno in periodi tormentati come quello attuale”.
L’arte non ammette steccati, e ben ha fatto a ribadirlo Vincenzo Mascolo, curatore da sempre della manifestazione giunta al settimo anno senza la crisi fatidica, tutt’altro, citando le parole di Pasolini: “Il vero pittore è anche un poeta”. Concetto ribadito dall’allestimento del palco con leggere installazioni tra musica, pittura e poesia. Non solo nell’allestimento aleggiava la leggerezza, ma nell’intera giornata, in cui pure la solennità della poesia era evidenziata dalle imponenti colonne all’interno e all’esterno del Tempio di Adriano e dai versi che si rincorrevano in un ambiente così austero ed evocativo. Mascolo è stato un regista magistrale, brevi le interviste, più ampie le letture, pause appropriate nei momenti giusti: la giornata si è dipanata come una rappresentazione teatrale con un ritmo incalzante e un equilibrio tra i diversi “quadri”.
Dieci minuti per ogni poeta italiano, tra presentazione, breve intervista e lettura di poesie, quindici per gli stranieri, il tutto scandito da un preciso temporizzatore visibile ma discreto. Breve la pausa a metà giornata, frequenti quanto brevissime le soste intervallate ad alleggerire l’ascolto, le letture poetiche hanno dato ragione a quanto dirà al termine Fiorella Mannoia, la “star” del concerto di chiusura che ha completato il poker d’assi degli ultimi anni in cui si sono succeduti Roberto Vecchioni, Lucio Dalla e Francesco De Gregori: “E’ difficile per chiunque recitare le poesie di altri, devono leggerle gli autori per rileggersi dentro”, ed è stato così con le loro letture ispirate e partecipate, i poeti stranieri nella loro lingua mentre sullo schermo scorreva la versione italiana.
Pier Paolo Pascali, nipote della premiata Giovanna Bemporad, ricorda la poetessa scomparsa (seduti, da sin., Mascolo, Emanuele, Diamanti)
Il premio “Ritratti di poesia”, il prologo e l’intermezzo
Al centro della mattinata la poetessa – anzi “il poeta” come ha voluto precisare il presidente Emanuele – Giovanna Bemporad, cui è stato conferito il premio “Ritratti di poesia”, al quarto anno dopo Andrea Zanotto, Maria Luisa Spaziani e Pier Luigi Bacchini; è scomparsa il 6 gennaio scorso, in tempo per sapere di essere la premiata, lo ha confidato il presidente parlando della “grande gioia” che la notizia le aveva arrecato; gli ultimi momenti di vita della poetessa – lo ha rivelato il nipote Pier Paolo Pascali nel ricevere il premio insieme a Maria Pia Diamanti, definita il suo’ “angelo custode” – sono stati segnati dalla lettura dinanzi al capezzale di alcune sue poesie. Al Tempio di Adriano le ha lette Cosimo Cinieri, con intensità e trasporto.
Alla Bemporad si devono anche versioni poetiche di grandi classici, dal Cantico dei cantici all’Eneide e all’Odissea, di cui è stato letto il brano in cui Penelope riconosce Ulisse. Noi siamo stati colpiti in modo particolare dalla poesia “Alla Primavera”, da una raccolta del 2011: un equilibrio delicato tra “il dolore già considerato incurabile” di chi “non vuole più se non amare la cecità del pianto” e la “dolcezza di memorie” che “distende il mio dolore in un riso”. Ed è il “risveglio di primavera” che “accende il sentimento”, finché la notte “accoglie e fonde l’anima curva sotto il suo destino questo fluire in lei di tante vite”. Solo una delle sue vite si è spenta il 6 gennaio 2013, viene fatto di pensare, le altre vite sono presenti, illuminate dalla poesia.
Un bel prologo alle vette poetiche della premiata sono state le poesie dei primi a salire sul palco e rispondere all’interrogativo “A che serve la poesia?” Una risposta si trova nel buio nella poesia di Maria Grazia Calandrone“Roma, all’improvviso, notte”, nel cielo in quella di Marco Zulian (Camro Nuzali)“Un dialogo dalle stelle”, mentre Roberto Cescon con “Le donne dei poeti”, che “sono sante” e per questo “i poeti sono molto fortunati”, dà la risposta che “poeta è la ciliegina su qualcosa che all’inizio era perfetto”.
Ancora un intermezzo, le “Idee di carta”, incontri con le case editrici e le riviste di poesia, sfilano i titolari delle edizioni “L’obliquo” e “Pulcinoelefante” per i libri, “Capoverso” e “Semicerchio” per le riviste, sono “capitani coraggiosi” che sfidano per amore della cultura le difficoltà di un’editoria poco remunerativa.
Dopo un simile prologo e intermezzo, con la cerimonia triste e dolce insieme della premiazione alla poetessa scomparsa tutto potrebbe finire, invece è solo l’inizio della maratona poetica: tutti i poeti sono stati insigniti in passato di premi, ci sono dei super premiati, le loro poesie sono state pubblicate in raccolte spesso multiple, ne viene di volta in volta riassunta la storia.
I quadri della rappresentazione sulla poesia si sono succeduti con leggerezza, gli incontri con i poeti “Di penna in penna” intervallati da siparietti innovativi come “In altra forma” e “Sinfoniette poetiche”; per culminare nelle escursioni sui poeti esteri in “Confluenze” e “Poesia sconfinata“.
Cosimo Cimieri legge le poesie di Giovanna Bemporad ((seduti, da sin., Pascali, Mascolo, Emanuele, Diamanti)
Le innovazioni, dai video al quartetto poetico
L’edizione di quest’anno ha portato alla ribalta la contaminazione della poesia con espressioni diverse, soprattutto in video e in musica, innovazione da promuovere e incoraggiare per l’apertura ai giovani e alle forme contemporanee che pongono al servizio dell’arte le nuove tecnologie e forme di manifestazione. In questo spirito va tuttavia preservata la peculiarità della poesia, che Emanuele ha sottolineato ancora una volta essere “la prima forma d’arte, ha preceduto anche il canto e la musica, perché immediatamente legata alla parola, e non richiede, a differenza delle altre, alcun apparato o strumento per esprimersi”. Poi, nella serata, Fiorenza Mannoia ha dato una grande prova di come si possa coniugare l’arte della parola con quella della musica nel canto.
Ma torniamo alle innovazioni “In altra forma”: con il video di Caterina Davinio e la “video-poesia” dal titolo “Amore mio” di Daniela Perego e Carmine Sorrentino, la voce sussurrata mentre una mano scrive prima in blu poi in rosso i versi sulla schiena nuda, fino alla dissolvenza allorché torna solo la voce. Fa parte di una “trilogia”, i due autori parlano entusiasti del loro programma in corso, ci saranno degli sviluppi.
Poi la “Sinfonietta poetica”, quattro leggii con altrettanti giovani poeti che recitano in successione le loro poesie, ma la continuità è solo nella musicalità delle parole, Mascolo dice che l’idea è venuta dalla “Sinfonietta” op. 60 del compositore cecoslovacco Leos Janècek, una sorta di sottofondo del romanzo della Einaudi di Haruki Murakani, “1Q84”, due vite separate che si muovono in parallelo nel labirinto spazio-temporale accompagnate dalla sinfonietta: un inno alla libertà, con l’imprevedibilità e l’utopia. Una sorta di quartetto, anzi “due più due”, questa volta poetico, che dovrebbe piacere ai giovani come quelli canori: si passa da una poesia all’altra, da un poeta all’altro, in una sequenza continua di temi e stili accomunati in un ritmo incalzante e una musicalità unica. I nomi: Maria Borio e Tommaso Di Dio, Serena Maffia e Domenico Arturo Ingenito.
Innovativa anche la “poesia performance” di Tomaso Bingo, che nella sua vulcanica presentazione passa dalla carta da parati alle lettere dell’alfabeto fino ad approdare alla lettura alla rovescia delle parole. I suoi suoni onomatopeici sono accentuati da una recita molto espressiva di filastrocche dove “porci” da verbo diviene sostantivo plurale, poi isola gli “orci”, come le tre lettere finali di “oplà” servono ad evocare “Platone”: un gustoso siparietto sull’imprevedibilità della poesia.
Torna la meditazione con Flavio Ermini, il suo “Il cristallo appena visibile” parla della nascita che “implica più della morte una mancanza”, del “compimento dell’arco”, dell'”inerzia di esserci come voce”, fino a concludere che “alla stagione in atto si sovrappone il fuoco divorante dell’esistenza”.
Di penna in penna, 10 poeti italiani
E’ quella ora citata la seconda parte di “Di penna in penna”, che abbiamo anticipato rispetto alla prima per collegare la poesia performativa che vi era compresa alle innovazioni “In altra forma”. Nella prima parte tre poeti le cui poesie-simbolo sembrano muoversi tra la memoria e l’attesa: Laura Canciani con “La ringhiera” parla di “angoscia contemplativa” e di “parole indipanabili” da “dirottare sui canali”; in “Ultimo canto” Gilberto Mazzoleni “ospite assente in muto sentiero, senza esiti guardo… medito” fino al “solidale conforto agli umani fratelli domando e attendo”; mentre Maurizia Spinelli in “XVIII” evoca il ricordo come “sete di questi versi”, le parole sono il “solo viatico del cuore chiuso nel silenzio dove frastuona la memoria”.
Altre sezioni sono state intervallate, in un’alternanza di contenuti e orizzonti poetici che ha dato ritmo alla giornata e, lo ripetiamo, un’inattesa leggerezza alle nove ore di poesia. Ma qui vogliamo completare la rassegna “Di penna in penna” per poi varcare i confini geografici restando all’interno di quelli poetici. Nella terza parte, con Nino De Vita ascoltiamo la poesia dialettale, è siciliano di Marsala, il dialetto è come una sua seconda pelle, ricorda le origini, la vita grama ma piena di stimoli e di sentimenti. Come quelli espressi in “0 friddu (Il freddo)” un folgorante quadretto dove Fedele, infreddolito perché ha solo i guanti e non il cappotto, compiange Diego con il pastrano ma non i guanti, forse impietosito se li toglierà per darglieli. E poi poesie alla Luna, alla Terra, ai Libri, recitate dall’autore in siciliano e in italiano, un vero spettacolo!
Delle stagioni dell’esistenza e della natura parlano i versi delle poesie più intense di Umberto Piersanti: “Sulle mura dell’adolescenza” vede “quella primavera remota della vita”, ma lo attira soprattutto la natura, vuole “buttare la testa a terra per sentirne i sapori e gli odori”, e ci dà una bella immagine della donna, una “fata”: “Ti tremano gli occhi se l’aspetti, ti treman le mani se la spogli”.
Ida Travi s’immedesima nella crescita di Sasa fino ad esclamare: “Mentre cresco sollevo il bambino alla mia altezza, lo illumino”, due stagioni dell’esistenza che si riuniscono nell’amore materno. Nelle altre poesie la sua interpretazione è sofferta, un’immagine forte che rimbalzava sullo schermo ed è rimasta impressa.
Quattro poeti, questa volta non uniti in un quartetto, compongono il quarto e ultimo gruppo selezionato “Di penna in penna”. Franco Buffoni predilige la poesia perché “va all’essenziale” e lo dimostra con quella da lui scritta sulla Costituzione, che elogia perché “promette il perseguibile, e non l’imperseguibile, la felicità” come fa, aggiungiamo noi, almeno nel citarla quale finalità ultima, la Costituzione americana. Mentre l’inedito “Cimiteri” vi vede “una comunità, un piccolo paese”, fino al “vaso delle ceneri in tinello”.
Vivian Remarque s’ispira molto alla madre, “cucivi così bene”, la rivede con il “cappello di paglia”, anche le “nevi dell’Himalaya” riportano a lei. E con la “Poesia d’invidia perla luna” passa dalla contemplazione leopardiana alla voglia di identificazione: “Oh essere anche noi la luna di qualcuno! Noi che guardiamo, essere guardate, luccicare . Sembrare da lontano la candida luna che non siamo”.
Dalla luna all’acqua con Antonio Riccardi che riesce a creare atmosfere mitiche astraendosi dal suo punto di osservazione in una grande casa editrice per ricercare l’ispirazione autentica. Aleggia il mito nelle poesie della sua raccolta “Acquamara”, ce n’è una in cui scrive delle “Bambine rimaste molto da sole” che “così sono le sirene. Si vedono la sera a certe latitudini nuotare nell’acqua fluorescente la pelle dolce, d’incanto e sotto di rame”, poi si materializzano “all’ombra sotto i portici e sentono rifiorire il rimpianto”.
Valentino Zwichen chiude la rassegna dei poeti italiani con un’ondata poetica su Roma, “Piazza del Popolo” e l’acqua della città, che viene “accecata nel buio acquedotto”, “Bruto e Cesare” e la “Ragazza romana”. C’è persino il “Tempio di Adriano”, la sede dei “Ritratti di poesia” evocata con l’appello allo straniero a meditare “sull’ulteriore rovina che alberga tra le rovine, dalle “mazzate del barbaro ” a quelle del “capomastro rinascimentale” fino alle “persiane di abitazioni che si annidano fra le colonne” per concludere: “Compiangi lo spazio che le distanziava, un’antimateria ideale”. Metafora dell’antipolitica ?
Una delle interviste di Mascolo ai poeti, nell’immagine Ida Trani
La poesia senza confini, gli 8 poeti stranieri
La poesia oltre confine fa la parte del leone nel pomeriggio, con 8 poeti europei e americani intervallati dai 7 poeti italiani degli ultimi due gruppi “Di penna in penna” di cui abbiamo già dato conto.
Si inizia con le “Confluenze”, in cui si ha il primo incontro con le poetiche straniere. Dagli Stati Uniti Moira Egan con “Cuori e sassi” parla di “un cuore pietrificato”, e della labilità della memoria mentre in “Note di una pozione” coniuga poeticamente i fiori e le ombre, il sale e l’acqua in un incontro intimo che termina con “le sue braccia calde intorno a me, la lunga migrazione verso casa”.
Dopo una simile visione quasi onirica Gezim Haidari ha riportato ad una realtà impietosa: “Scrivo questi versi in italiano e mi tormento in albanese”, ha detto nell’intervista come premessa all’evocazione delle sofferenze degli esuli immigrati, dai viaggi della speranza alle condizioni di vita degradate alla disoccupazione; le parole dette sono le ultime parole scritte della sua poesia segnata dal ritorno martellante di “per voi”: si rivolge agli “uomini d’Europa che vi arrangiate ogni giorno”, descrivendone la vita grama da badanti e prostitute, contadini e disoccupati; parla ai barboni che non rinunciano alla libertà e ai missionari “che portate consolazione ai deboli”, si unisce a loro nell’esclamare “per voi che siete soli e fuggite con me”.
Dall’Albania alla Francia e alla Russia, si torna alla poesia di sentimenti personali che trovano gli spunti più diversi. Tra le composizioni lette da Jaqueline Risset, pensiamo a quella sulle “Cicale”, descritte pure nel suono che emettono con lo “sfregamento di elitre il primo rumore: accensione del fuoco nella notte dei tempi”. Mentre di Natalia Stepanova ricordiamo un’introspezione aperta alla natura, quando “finito il giorno e non ho voglia di pensare a domani” vede “integri i fiumi” nelle “ombre che prevengono la notte” e immagina le “ali di penne lunghe, appuntite”, come quelle degli “angeli giovani” che “vendicandosi, sulle schiene curve dormiranno. Con la coscienza limpida”.
Dalle “Confluenze” alla “Poesia sconfinata”, in due parti, ciascuna con due grossi calibri, il primo dei quali, Faek Hwajek dalla Siria, ha fatto tornare nel mondo della realtà sofferta, in una forma ancora più dura di quella dell’albanese Haidari. Qui si tratta del carcere in cui è stato rinchiuso, dove oltre alle sofferenze per le condizioni inumane c’è la mancanza di libertà e l’anelito a riconquistarla. Ci è rimasta impressa la poesia “Dieci compagni”, dove il vuoto lasciato dai carcerati usciti dalla cella non viene occupato subito da quelli stipati nel dormitorio per una sorta di rispetto e pudore; e “Il caffè”, dove l’impossibile sogno della donna desiderata, condiviso dai compagni di cella, li porta a prepararle il caffè nell’alternanza dell’invocazione “ti aspetto” e “vieni” seguita dalla constatazione “non viene”; finché, se ricordiamo bene, si ottiene il miracolo, la forza del sogno sembra farsi realtà. Come in “Cella 53” dove si rivolge questa volta da solo alla donna dicendole “questo è il giaciglio, Amore. Ti amo”. “L’isolante vicino alla porta” è il solo spazio per far vivere il sogno: “Io sull’isolante e tu vicino a me e dormi così dormo anch’io”. La raccolta è “Sezione interrogatori” del 1982.
L’introspezione riemerge con la spagnola Olvido Garcìa Valdés: ricordiamo che in una delle poesie lette sente “questo conosciuto tremolio delle foglie nella brezza e questo verde di aprile come un vomito nella luce”, una descrizione che si conclude con “l’ossessivo tubare di colombe”. Tra queste due immagini della natura una visione altrettanto sconsolata: “Non sente il cadavere dolcezza né calore, ma sì, invece, il silenzio e il freddo perché si sente ciò che si è”. E poi “nulla perde chi muore, nulla vince nemmeno”. Leopardiana?
Questo nostro interrogativo ci introduce negli ultimi poeti stranieri presentati, due grandi in assoluto. Perché Michael Kruger, dalla Germania, intitola “Leopardi e la lumaca” una sua poesia, dove la lumaca viene vista “come Sisifo”, e il poeta esclama: “Ora penso al tempo, non alla felicità, perché soltanto come infelici siamo immortali”, e aggiunge: “A che saremmo nati, dice Leopardi, se non per riconoscere come saremmo felici a non essere nati?”. Sconsolata anche la conclusione di un’altra poesia allorché esclama: “Più niente da vedere sotto questa pioggia a dirotto. Adesso ce ne andiamo”. Il poeta alza ancora il tiro: “Il creatore dell’universo si può vederlo come un giocoliere, tutto un maledetto gioco”, poi cede al fascino della notte: “Per lo stupore restiamo senza parola, lui per fregarci ci dà prove del suo grande talento”. Immagini forti fino alla poesia intitolata con un icastico “Undicesimo comandamento”: “Undicesimo, non morire, ti prego”.
Molto diversa la poetica di C. K. Williams, uno dei massimi poeti degli Stati Uniti, che trascorre metà dell’anno a Parigi. Le sue poesie abbinano la profondità del ragionamento all’intensità dell’emozione. Così lo ha spiegato: “La mia poesia parte da un’emozione e si sviluppa nella riflessione. Mentre si pensa si sente sempre di più ciò che si sta pensando, così il pensiero si trasforma in emozione”. I suoi versi sono prosa incalzante, ricordiamo che cita le parole irridenti di Colombo in “Grandi scimmie”, quelle pacifiche “non sono neanche capaci di ammazzarsi a vicenda”. Delle rivoluzionarie poesie che l’autore ha letto, “Aspetta” lascia il segno con l’inizio shock: “Taglia, squarta. Sventra; taglia, squarta, sventra; mannaia, coltello, accetta”, è rivolto al tempo, che da vittima quando si è giovani ora diventa carnefice, al quale si dice sempre “aspetta, però, aspetta”. Ma il tempo sa farsi amare per “il modo in cui ogni mattina ruoti la languida terra, perché altrimenti come saprebbe fare alba, fare crepuscolo, quando dalle sue creature parlanti non sente altro che ‘Aspetta!”?. Per concludere: “Noi, il cui ultimo angosciato desiderio è che la nostra ultima parola non sia ‘Aspetta’”.
E’ una poesia inedita in Italia, chiude con una riflessione “alta” la nostra rassegna con cui abbiamo cercato, riportando alcuni degli innumerevoli spunti colti fior da fiore, occasionalmente e senza pretesa alcuna, di rendere il senso dell’intera giornata poetica tra le letture degli autori e le loro confessioni agli intervistatori.
Ida Trani recita le proprie poesie, seduto Mascolo
Con “Maledetti” di Frankie Hi e “Siamo così” di Fiorella Mannoia il gran finale
Terminata la parte poetica, ecco quella musicale, il tradizionale concerto della serata introdotto da un’intervista sulla poesia, e abbiamo già detto chi è stata la “star” quest’anno. Ma con una novità, la presenza di Frankie Hi-NRG MC, prima in un dialogo con Stas Gawronski sulla “potenza della parola” nel tardo pomeriggio, poi in una esibizione ripetuta al termine della serata dopo un duetto con la “star”. E’ lui stesso una “star”, la via italiana al Pop. Secondo Frankie il potere della parola sta “nell’assunzione di responsabilità della scelta di far proprie quelle determinate parole. Deve generare energia per produrne altre. La parola detta è capace di volare, mentre quella scritta resta bloccata”, un rovesciamento dei valori rispetto al “verba volant scripta manent”: le prime si diffondono nella libertà senza vincoli, perciò sono superiori alle seconde, e “il momento creativo attraverso la parola detta può innescare il cambiamento”. E ne ha dato subito prova.
Ma prima di parlarne ecco la “star” della serata, abbiamo già detto che è Fiorella Mannoia accompagnata da un duo musicale, con un cantante brasiliano. Nell’intervista ha detto che “nella vita ci s’imbatte sempre nella poesia”, con cui lei ha un buon rapporto, cita Pasolini e Saramago che “anche quando scrivono in prosa fanno poesia”. E’d’accordo con De Gregori nel ritenere poesia e canzone “due mondi in movimento su binari paralleli che difficilmente si incontrano”. La canzone è “come una piccola sceneggiata con premessa, svolgimento e conclusione, la poesia invece può restare sospesa”. Non c’è una sequenza temporale fissa tra versi e note, “l’ispirazione può venire dalle parole scritte e poi musicate o dalla musica su cui viene creato un testo”. Le grandi canzoni nascono di getto, musica e parole insieme, com’è stato per “Caruso” di Lucio Dalla.
Ha anche risposto alla domanda su come vengono scelte le canzoni da una interprete come lei. “Io parto dal testo, da quello che dice, devo misurarmi con le cose che leggo. Non posso sopperire alle lacune con virtuosismi vocali che non mi appartengono, mi immedesimo in ciò che canto, vi entro come in una seconda pelle, la storia contenuta nel testo mi scorre davanti come un film, la vedo prima di cantarla, mi sento un attore che interpreta il ruolo e vi si identifica. Questo avviene anche su temi maschili, ma se il testo mi riguarda personalmente c’è qualcosa in più”; per il resto nell’interpretazione non c’è differenza, “la sensibilità non ha sesso”.
Consigli da dare non ci sono, se non di prestare attenzione “a ciò che si dice, non a come si dice, la forma espressiva viene da sé quando il contenuto è sentito”. L’esperienza delle collaborazioni è stata molto fruttuosa per lei, “ci si arricchisce, è sbagliato isolarsi”. Su un tema che l’ha particolarmente toccata, quello dell’emigrazione, è diventata cantautrice, si è immedesimata in una mamma anche se lei non lo è, “ma tutte noi donne siamo mamme”; la canterà con trasporto.
Tra le 10 canzoni che ha cantato, oltre all’intenso “Che sarà che sarà” e a quella da cantautrice, c’è stato quel “Siamo così”, divenuto un inno delle donne che, nel Tempio di Adriano, lo hanno intonato tutte in coro con lei considerata un simbolo dell’identità e dell’orgoglio femminile.
Ha anche cantato un Rap con Frankie, il quale ha riproposto il suo “Maledetti”, già martellato con la potenza della sua parola esplosiva nel pomeriggio. Con l’onomatopeica ripetizione in un fiume di parole – dai colletti alle mazzette – delle tre lettere finali, l’invettiva contro i colpevoli degli innumerevoli scandali che investono la politica e l’economia è stata lancinante. Un “Je accuse” violento e disperato come fu dolente e accorato il “Povera patria” di Franco Battiato nel 1991.
E allora ci è parsa molto appropriata la conclusione del presidente Emanuele con cui abbiamo iniziato il nostro resoconto. Nel clima creato dal martellante “Maledetti” di Frankie – che a noi è venuto spontaneo riferire al caso dell’MPS agli onori, anzi ai disonori della cronaca – ha tenuto a ricordare i meriti della Fondazione Roma nella cultura e nella società senza le altrui degenerazioni.
Dopo l’orgoglioso e solidale “Siamo così” della Mannoia verso le donne, la rivendicazione del Presidente dell’abisso che lo separa da chi ha tradito lo spirito delle Fondazioni, è suonata come una rivolta. Diversi i destinatari, uguale la spinta morale. E’ stato un alto e forte: “Non siamo così”.
Info
A cura della “Fondazione Roma Arte-Musei” un agile compendio: “Ritratti di Poesia”, settima edizione, 1° febbraio 2013, pp. 44, con una poesia per ogni poeta intervenuto alla manifestazione al Tempio di Adriano.
Foto
Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante al Tempio di Adriano nella giornata dei “Ritratti di Poesia”, si ringrazia la Fondazione Roma per l’opportunità offerta. In apertura, il presidente Emanuele nell’intervento iniziale; seguono,Pier Paolo Pascali, nipote della premiata Giovanna Bemporad, ricorda la poetessa scomparsa (seduti da sin., Mascolo, Emanuele, Diamanti), e Cosimo Cimieri mentre legge le poesie di Giovanna Bemporad, (seduti da sin., Pascali, Mascolo, Emanuele, Diamanti); poi una delle interviste di Mascolo ai poeti, nell’immagine con Ida Trani, che in quella successiva legge le proprie poesie; in chiusura il quartetto della “Sinfonietta poetica” (sta leggendo Maria Borio, alla sua destra Tommaso Di Dio e Serena Maffia, alla sua sinistra Domenico Arturo Ingenito).
Il quartetto della “Sinfonietta poetica” (sta leggendo Maria Borio, alla sua dx Tommaso Di Dio e Serena Maffia, alla sua sin. Domenico Arturo Ingenito)