di Romano Maria Levante
Al Palazzo Esposizioni a Roma, dal 17 dicembre 2013 al 2 marzo 2014, la mostra “Anni ’70. Arte a Roma”, con 200 opere di 100 autori italiani e stranieri che hanno operato nella Capitale in un intreccio fecondo di culture e linguaggi, provocazioni e stimoli, alimentato da una rete di associazione e gallerie che hanno promosso eventi e sostenuto artisti, e rappresentano uno dei motivi principali della scelta di Roma come osservatorio privilegiato. Curatrice della mostra e del catalogo, Daniela Lancioni. E’ promossa dall’Assessorato alla Cultura di Roma Capitale ed è accompagnata da una serie di Conferenze e da un fitto programma cinematografico sugli anni ’70.
Spirito e contenuto della mostra
Dopo “Gli irripetibili anni ‘60” evocati dalla Fondazione Roma nel 2011, irrompe al Palazzo Esposizioni nel 2014 l'”Arte negli anni ‘70″, all’insegna di tre valori, “comunicazione, partecipazione, libertà”. Tutto messo in gioco in un dinamismo culturale e in un fervore creativo concentrato su Roma, vera Capitale dell’arte contemporanea. Sono anni “sfaccettati” – per citare la risposta data dalla curatrice alla nostra domanda di un termine corrispondente agli “irripetibili” del decennio precedente – con l’affollarsi di tante diversità da considerare simultaneamente, tanti motivi da condividere, misurando la libertà dell’uno con quella degli altri.
Per sintetizzare in una parola il percorso espositivo sugli “anni 70” nell’arte a Roma sceglieremmo “labirinto” tra quelle usate come titoli della varie sezioni: un labirinto reso ancora più intrigante dal fatto che non sono preordinati l’ingresso e l’uscita, ma lasciati alla scelta del visitatore, quasi fosse un palindromo, l’invarianza nei due versi opposti. Non è indifferente, naturalmente, perché la prospettiva muta, ma poiché non sono preordinati neppure i temi delle varie sezioni, ognuno segue la propria ispirazione; così facendo può invertire la sequenza cronologica, dato che alle due metà del decennio corrispondono due percorsi distinti, ma resta riaffermata la libertà di interpretazione.
Il labirinto può far pensare a una direzione unica dopo il disorientamento iniziale, niente di tutto questo: ci riferiamo alla ricchezza di elementi offerti per ricostruire attraverso le arti visive il clima di un decennio di fermenti mediante il dialogo e il dibattito sviluppatosi nell’arte e nella società.
Quale significato dare allora ai titoli delle varie sezioni? I titoli, viene spiegato, non sono i temi che vengono rappresentati, ma un “fil rouge” di altro tipo: “Un’attitudine, una disciplina, un pensiero, una parola chiave, un’intuizione presa a prestito”, e neppure la collocazione delle opere esposte in una o nell’altra sezione è tassativa, le tematiche che emergono sono trasversali, e così i collegamenti, il visitatore può spostarle idealmente da una parte all’altra per associazione di idee, creando delle proprie connessioni nel gioco della memoria che è assolutamente personale.
Molto spazio viene dato alla memoria presentando opere d’arte create o divenute note negli anni ‘70, e per riportare a quel clima si inizia con la rievocazione visiva delle mostre che le hanno offerte al pubblico allora, e delle associazioni e Gallerie che le hanno promosse lanciando e sostenendo gli artisti con operazioni coraggiose dato il loro carattere di avanguardia.
La creatività e lo spirito innovativo a Roma nel decennio sono stati tali da considerarlo come uno “spartiacque”, per cui gli anni ’70 sono ritenuti fondamentali per l’avvio di molti processi attuali: dalla parità dei diritti alla sensibilità ambientale, dall’evoluzione delle classi sociali a quella del lavoro. Viene subito dopo il 1968 con la contestazione, ma sarebbe riduttivo sottolinearne gli aspetti conflittuali, vi è stato un rinnovamento di linguaggi e contenuti sul piano visivo ed artistico che si è manifestato in un fervore straordinario di mostre, dibattiti, eventi, in una Capitale che nella seconda metà del decennio, dal 1976 al 1979, ha avuto come sindaco il critico d’arte Giulio Carlo Argan.
Per riproporre un decennio così fervido e vitale è stato necessario svolgere un’accurata ricerca che ha portato al mosaico di opere d’arte esposte dal quale nasce un’interpretazione, un racconto. Ma nel proporlo si avverte che la visione emergente dai titoli sui motivi più radicati in quel tempo non è tassativa, si lascia aperta ogni diversa interpretazione mentre ci si preoccupa di documentare il tutto con precisione oltre a stimolare la memoria con un evocativo corredo fotografico e filmico.
“Negli anni Settanta – scrive la curatrice Daniela Lancioni con un termine oggi attuale – si cambiò passo. Nelle nuove opere, e ci auguriamo che questo emerga dalla mostra, accadono prodigi, si familiarizza con il mistero della vita e della morte, si prefigura l’infinito, ci si predispone all’ascolto dell’altro, senza perdere la cognizione delle cose semplici e quotidiane, si trascende. Ciò avvenne, crediamo, anche attraverso gli scambi reciproci tra gli autori delle diverse generazioni”, a Roma.
Il racconto, così riassunto, inizia con l’appello alla memoria: la rievocazione fotografica di 4 mostre collettive nella Rotonda centrale, prima delle 7 grandi sale che fanno corona; nelle 3 a sinistra la vita quotidiana, nelle 3 a destra i linguaggi, nella 7^ sala il “tutto”. Nelle sale seguenti si va dal fenomeno al racconto, dalla politica al labirinto, sempre attraverso le arti visive. Il numero di opere come quello degli autori è vastissimo, seguendo il “fil rouge” tematico della mostra il visitatore li incontrerà di volta in volta e sarà come rivivere sensazioni ed emozioni sopite dal tempo.
Dall’immaginario al sistema
Le 4 mostre della Rotonda sono rievocate attraverso 30 immagini di tre noti fotografi, Claudio Abate, Ugo Mulas e Massimo Piersanti, che riportano le opere di artisti d’avanguardia, i titoli sono intriganti: “Visione del negativo nell’arte italiana 1960-70” e “Contemporaneo” sull’arte internazionale, “Fine dell’alchimia” e “Ghenos Eros Thanatos” sul mistero della morte e della vita.
Il percorso inizia con “La carne e l’immaginario”, dai fatti verificabili al mito in un “doppio tragitto di andata e ritorno, lo stesso attraversato dagli artisti”. Spiccano i due “Cretti” bianco e nero di Burri e la piccola galleria di de Chirico, con i neometafisici “Vita silente” e “Il poeta e il pittore”, nonché una sfilata di 8 disegni, da Ebdòmero ai gladiatori, alle mani misteriose. E poi la “Copertina per la città di Riga” e il teatrino “Senza titolo” di Kounellis, i misteriosi “La Doublure” e Mimesi” di Giulio Paolini, i “d’apres” fotografici di Ontani, “Bacchino” e Salvo, “Autoritratto (come Raffaello)”, fino all’ “Immortalità” di Gino De Dominicis e le foto di Claudio Abate.
Con “Il doppio” il duplice tragitto si precisa nel rapporto con la tradizione e il nuovo insito nell’opera di artisti che vogliono innovare e sentirsi parte di un insieme, doppio di sé stessi: entità dissimili potevano essere riunite all’insegna di valori condivisi quali la giustizia, l’uguaglianza, e il mistero dell’esistenza, che convergono nella cultura e nella storia comune, in altri termini la civiltà. Troviamo ancora Paolini e De Dominicis, il primo con delle geometrie, “Triade” e “Dimostrazione”, il secondo con dei volti speciali – “Il giovane e il vecchio” abbinati, e “Conversazione senza macchia” – che vediamo anche in Vettor Pisani, anche in omaggio a Duchamp, e in Luigi Ontani, nelle vesti di “Dante” e “Pinocchio” ; poi Maurizio Mochetti con i “Cubi” e il “Mare rovesciato”, Carlo Maria Mariani e Tano Festa con ispirazioni storiche, mentre Sandro Chia si cimenta con “L’ombra e il suo doppio” e in un “Autoritratto in veste di David”.
Dal “doppio” a “L’altro”, che ne è l’immagine speculare come possibilità di comunicare e rompere l’isolamento, superando la cultura dell’appartenenza che faceva restare confinati nel proprio ambito per entrare in territori più vasti dove – scrive la Lancioni – “la propria libertà deve necessariamente misurarsi con quella dell’Altro”. Da Richard Nonas a Ferruccio De Filippii, che si chiede “Cosa significa il responso dell’oracolo,” da Michele Zara con la “Dissoluzione” e il “Racconto celeste” a Vettor Pisani con “L’androgino (carne umana e oro)”, fino all’enigmatica “Dichiarazione d’artista” di Ketty La Rocca.
E l’arte in senso stretto? La vediamo in “Il disegno e la scultura”, in cui si propone un’interpretazione molto particolare di quegli anni, dopo i processi di de materializzazione dell’oggetto d’arte sviluppatisi negli anni ‘60. Così la Lancioni: “Nelle opere esposte un modo di mettere in sicurezza le invenzioni e le istanze maturate nel decennio precedente suggellandole in un disegno o in una scultura o in un lavoro che in alcuni casi è un insieme di disegno e scultura”; in altri si limita all’enunciazione di un’idea che è essa stessa arte pur non divenendo opera finita. Vediamo come questo si concretizza in espressioni dal cromatismo delicato come l’antropomorfismo acrobatico di “La zingara” di Fausto Melotti e “Alluminio e seta indiana” di Luciano Fabro, e come le tenui ocre delle cuspidi degradanti sul chiaro nel “Senza titolo” di Marisa Merz; fino alle macchie rosse dello “Stocchi Family Portrait” di .Cy Twombly. Il cromatismo è ancora più sfumato nelle tre opere di Alighiero Boetti, “Cimento dell’armonia e dell’invenzione”, poi si passa al muro con i riquadri geometrici di Sol Le Witt e il segno grafico quasi impercettibile sulla grande parete bianca di Richard Tuttle, con “Piece”. Ben diverse le forti immagini fotografiche di Giuseppe Penone, volti e sguardi misteriosi in “Rovesciare i propri occhi”; di lui è esposto anche “Albero di 3,50 metri”, un ramo su una tavola steso a terra.
Siamo giunti così al “Sistema” inteso come ambito entro il quale circoscrivere l’espressione artistica, vediamo le ripetizioni delle immagini e l’attribuzione di un valore a ciò che sembrerebbe banale. Viene ricordato, come riferimento e ispirazione, il minimalismo americano, e il rifiuto dei ruolo dell’artista da parte dei giovani francesi; uno sbocco è visto nella tassonomia, cioè nell’analisi di un tema attraverso elenchi che lo esemplificano, e in esperienze legate alla pittura in varie forme. La sezione si apre con Giuseppe Capogrossi, il suo segno inconfondibile come un monogramma spicca nella “Superficie 726”, mentre di Enrico Castellani abbiamo “Superficie bianca”, con delle increspature, e nel “Senza titolo” di Niele Toroni sulla superficie bianca vi sono dei quadratini ocra; l’autore presenta anche le “Impronte di pennello n. 50 ripetute intervalli regolari”, dove la banalità aspira a divenire arte. Il colore ocra diviene più intenso nel “Grande trasparente” di Claudia Accardi, un riquadro come una finestra, e soprattutto in “Acrilico 15” di Marco Gaslini dove marca con forza una sorta di zoccolo al termine di una superficie chiara. La serialità esemplificativa la troviamo nelle scacchiere alle pareti di Laura Grisi e nella modularità lineare di Jan Dibbets, nonché nella modularità volumetrica del “Costruttivo” di Nicola Carrino.
Dal linguaggio al labirinto
Con “Il linguaggio”, l’analisi dei contenuti si approfondisce, c’è la tendenza a rimettere in discussione quanto ricevuto dalla tradizione che, essendo espressione della cultura di appartenenza può essere ridefinito da chi se ne sente estraneo. Viene contestato il formalismo, spostando l’attenzione dell’arte dalla forma al contenuto, richiamandosi alla provocazione dei “ready made” di Duchamp. “L’arte per Kosuth – ricorda la Lancioni – è linguaggio sull’arte. Un’opera d’arte, pertanto, è una sorta di preposizione presentata entro il contesto dell’arte come commento sull’arte”. Kosuth lo ha scritto in “Arte dopo Filosofia” del 1969, quindi apre gli anni ’70, mentre Lawrence Weiner “esalta il potere del linguaggio (uno strumento semplice e alla portata di tutti) e, senza dare direttive di alcun genere, descrive opere aperte, che si possono realizzare in modi e situazioni diverse, e in riferimento a situazioni di segno positivo o negativo”. Dato che si tratta di ridefinire l’opera d’arte con riferimento al linguaggio parlato e scritto, con queste premesse spicca la scritta a caratteri cubitali “Le contraddizioni sono ovunque”, nell’opera di Francesco Matarrese; poi, in chiave psicologica, le opere di Sergio Lombardo, una scritta sulla busta con accanto la boccetta del veleno in “Progetto di morte per avvelenamento”e “Cinquanta partite a dadi”, una serie di grafici allineati che rendono lo stato d’animo del giocatore determinante nell”esito. C’è anche il nichilismo della decultura, lo esprimono la “Cultura mummificata” di Elisa Mattiacci, con il cumulo di volumi accatastati e la bandiera cancellata di Giaqnfranco Notargiacomo; nonché il “Libro dimenticato a memoria” di Vincenzo Agnetti, le parole sono eliminate forse perché il linguaggio tradizionale non basta più, e l’opera di Fabio Mauri “Perché un pensiero intossica una stanza?”, dove l’effetto negativo è dato da 32 rettangoli sulla parete. Renato Mambor propone invece un recupero della comunicazione attraverso l'”Evidenziatore”, una sorta di “oggetto misterioso”. Con Luca Maria Patella – di cui ricordiamo il suo omaggio all'”Apolinére Enameled” di Duchamp, il “letto sbagliato e quello corretto” esposti in permanenza alla Gnam – passiamo dai grafici su complesse teorie linguistiche di “Razionalità, creatività, ossessione”, a visioni fotografiche suggestive, il rosso tramonto di “Verso la Rubedo” e la delicata “Tessitura solare con Arcobaleno”, molta psicologia in queste immagini, oltre a una tecnica fotografica tutta particolare.
E’ molto tecnica la sezione successiva, “Memoria”, si tratta della rappresentazione dell’arte fatta da Luciano Giaccari con speciali video sperimentali che dimostrano la grande attenzione dedicata alle arti visive, in un collegamento fecondo tra arte e musica, danza e teatro. Si descrive l’impiego del videotape nell’arte e si presenta un’ampia serie di esempi di opere riprese.
E siamo al “Tutto”, titolo molto impegnativo per una sezione che intende mostrare un’altra tendenza del decennio: “un nuovo modo di intuire il tutto – l’insieme, la visione ‘universale’ . come ottenuto dalla somma di visioni ‘particolari'”. In questa ricerca si superano i limiti del linguaggio basandosi su alcuni presupposti generali della comunicazione: l’insieme esiste e per comporlo occorre unire le diverse componenti, che così dall’ambito singolo passano a quello generale. Vincenzo Agnetti punta molto in alto, suo è “Ritratto di Dio”, la scritta “Io sono l’alfa/ e l’omega/ il primo/ l’ultimo/ il principio/ e la fine/ di tutto quanto”, seguito dal dimesso “Autoritratto”, la scritta “Quando / mi vidi/ non c’ero”. Alighiero Boetti esprime il tutto in “Mappa”, un grande planisfero con i colori delle bandiere nei singoli paesi; mentre in “Mettere al mondo il mondo” riporta tutte le lettere dell’alfabeto. I 5 “Senza titolo” di Ettore Spalletti mostrano superfici uniformi dal cromatismo pastello appena accennato, e anche la sua “Colonna di colore” in realtà è acromatica, a differenza di quella di André Cadere dagli anelli a forti tinte . In “Alba, giorno, tramonto, notte” di Eliseo Mattiacci spiccano quattro superfici dal forte cromatismo, dell’autore anche le diversissime opere fotografiche in bianco e nero “Freccia” e “Tramonto”. Il tragico bianco e nero con la figura sdraiata avvolta in un telo di Jannis Kounellis, e il trittico dal forte cromatismo e intensa vitalità “Fantasia del paziente naturale”, di Mario Schifano costituiscono due visioni contrapposte della realtà.
Con “La rivoluzione siamo noi” si rievoca un evento negli incontri internazionali d’arte di Achille Bonito Oliva, Joseph Beuys espose il suo piano rivoluzionario che partiva dall’arte: “Bisogna scuotere l’uomo dalla tendenza a privatizzarsi, a isolarsi, a depoliticizzarsi, a concentrarsi sui propri interessi e svegliare in lui i sentimenti comunitari”. In questa azione l’arte deve restare separata dalla realtà per essere di stimolo, di opposizione e di esempio. Si può sentire la voce di Beuys e quella degli artisti intervenuti – da Amelio a Menna, da Fabio Mauri fino al grande Renato Guttuso – e vedere le fotografie dell’artista che parla e disegna grafici alla lavagna scattate da Elisabetta Catalano e da Claudio Abate.
Siamo alle ultime quattro sezioni. “Fenomeno” intende negare qualsiasi interpretazione rifacendosi alla fenomenologia del filosofo Edmund Husserl, secondo cui aderendo alla vita ci si deve astenere da formulare giudizi. Nessun motivo comune viene proposto, anzi si invita a sottolineare le specificità di ogni singola opera in una pluralità che fa decadere strutture consolidate per l’insorgenza di strutture e forme nuove, e anche questa può essere un’interpretazione. In tale eterogeneità, tra le opere che presentano oggetti citiamo la “Stella di giavellotti” di Gilberto Zorio e “Piroga” di Hidetoshi Nagasawa, l’ “Aereo razzo” di Maurizio Mochetti e i “4, 5 o 6 pianoforti” di Mario Merz, autore anche del “Vento preistorico delle montagne gelate”, fascine su una parete disegnata, e di “3 cavoli e 5 piedi”; fino al “Circolo di pietre di tufo” di Richard Long. Poi si va ai riquadri di Christian Boltanski,”L’appartamento di via Vaugirard”, e di Gilbert & George con i ritratti di “Cherry Blossom n. 8”, fino ai primi piani di artisti, tra cui alcuni citati, le foto di Elisabetta Catalano. Non manca il più eterogeneo rispetto alle altre opere, un dipinto orizzontale tipo “pittura dell’impero”, dal cromatsmo delicato e le forme classiche, “I giganti fulminati da Giove” di Salvo.
Dopo la dissociazione dell’eterogeneità si passa al “Racconto”, in cui la rappresentazione da parte del singolo di un fatto quotidiano che lo riguarda non è fatta per assumere un valore generale, dall’esemplare fino all’universale, come si è visto nella sezione del “tutto”; ma come racconto di un’esperienza con fotografie e testo in una linea che si riallaccia alla “Narrative Art”, ben diversa dall'”Arte concettuale”: a differenza di altre tendenze, nelle immagini si ricerca l’aderenza dalla realtà e nei testi e contenuti al linguaggio comune. Tutto omologato, dunque? Non è così, vi sono anche esperienze che si discostano dal senso comune e dalle regole, anzi vi si oppongono. Tra le opere esposte il racconto si esprime in “La spiegazione”, di Michael Badura, nel collage di cartoncini e fotografie, mentre “Le pazienze” di Francesco Clemente nei tre riquadri in successione, che nel “Senza titolo” di Alberto Garutti diventano due rettangoli con una linea obliqua; solo fotografico il “racconto” di Jochen Gerz, “FT/n. 86″”, mentre è accompagnato da testi quello di Peter Hutchinson, con fiori e frutti, e di Franco Vaccari, con un doppio viso di donna, che in Mimmo Germanà diventa il proprio viso “Io sono un’altra cosa” seguito da un foglio con tagli verticali, “La linea è sempre uguale”. E’ Giosetta Fioroni con “Foto da un atlante di medicina legale” a darci immagini inquietanti con lunghi testi: l’artista degli “argenti” e delle ceramiche presentate nella mostra alla Gnam è presente anche in questa speciale rassegna artistica.
Dalla dimensione personale del racconto a quella civile e sociale della “Politica”: la penultima sezione della mostra esprime l’esigenza, fortemente sentita in quegli anni, di partecipare alla vita sociale senza rinchiudersi nella torre d’avorio dell’arte, che si traduce nell’impegno politico contenuto in molte opere ed espresso in iniziative, come gli “Uffici per la immaginazione preventiva”, di cui si dà conto con una accurata documentazione. Il disagio e le lotte sociali sono nelle fotografie di Tano D’Amico, da “Gela” a “Primo maggio”, da “Rivolta a Rebibbia” a “Emigrato in Svizzera”, mentre Mario Cresci con le sue sequenze in interni sembra esprimere il malessere della solitudine; ci sono anche le immagini di Videobase su tre inchieste, “Carcere in Italia”, “Policlinico in lotta”, “Quartieri popolari di Roma”, sono del 1973 ma hanno il sapore della più viva attualità. Poi opere che esprimono le istanze con distacco, come “Il grano” di Gianfranco Barucchello, “Ecce Homo” di Verita Monselels, e “Litanie Lauretane” di Tomaso Binga, cinque aerei in volo nel primo, 20 siluette femminili di dimensioni diverse in 15 riquadri a specchio l’altro.
La mostra termina con “Labirinto”, il termine che per noi la riassume tutta. Il significato rimanda al disorientamento degli anni ’70, con percorsi senza inizio né fine, e al carattere misterioso dato dalla commistione di elementi di cui non serve comprendere il collegamento insito soltanto nella storia dell’opera e del suo autore. E’ una pittura, viene precisato, spesso dominata dal disegno, che Bonito Oliva definì “piano inclinato”; e la sua ripresa è vicina all’arte concettuale nel gusto di circoscrivere l’espressione all’interno di una cornice, inoltre c’è “l’io individuale che ritorna in scena”. E si esprime nelle incarnazioni di Luigi Ontani, da “Giovane con la frutta” a “Krishna” dopo un viaggio in India nel 1977 divenuto mostra, negli “Autoritratti” di Stefano Di Stasio, che ci dà anche le “illuminazioni”, di Sandro Chia, di cui abbiamo anche “Ometto, quando ti sentirai a tuo agio, visto che sei a casa tua?” e il coloratissimo “Mattinata all’opera”, una giovane donna con una piccola figura di vecchia di sfondo e tre pesci, di Francesco Clemente, con “vestito di Chanel” oltre a”Pitture barbare”. Poi le fotografie in bianco e nero di Francesca Woodman e Vittorio Messina, i “disegni malati” di Giuseppe Gallo, la classicità pittorica di Carlo Maria Mariani con “San Girolamo”, di Felice Leoni con “Il Re”, e di Franco Piruca con “Mirum” e “Dedalus”. Si conclude in un intenso cromatismo: il giallo di Bruno Ceccobelli con “Il signore del sole”, il blu di Enzo Cucchi con “E’ la barca”, il rosso di Giulio Turcato con “”Testa di moro”.
E’ come il botto finale nei fuochi di artificio, si esce dal “labirinto” come avviene nei Luna Park, con negli occhi il tourbillon di immagini intriganti collegate nelle diverse sezioni da spunti interpretativi altrettanto intriganti. Una sfida per gli occhi e per la mente, un’immersione nel contemporaneo degli anni ’70 con un richiamo alla memoria di una cronaca che diviene storia.
Info
Palazzo delle Esposizioni, Roma, via Nazionale 194. Mercoledì e giovedì ore 10,00-20,00, venerdì e sabato ore 10,00-22,30, domenica ore 10,00-20,00, lunedì chiuso. Ingresso intero euro 9,50, ridotto euro 8,00, con visita a tutte le mostre al Palazzo Esposizioni, in particolare alla mostra fotografica “La Grande avventura” nel 125° anniversario di National Geographic, aperta anch’essa fino al 2 marzo 2014. Tel. 06.39967500, http://www.palazzoesposizioni.it/. Catalogo: “Anni ’70 Arte a Roma”, Azienda Speciale Expo e Iacobelli Editore, dicembre 2013, pp. 324, formato 17×23. Per la mostra citata sugli “Irripetibili anni ‘60” alla Fondazione Roma cfr. in “cultura.inabruzzo.it” i nostri 3 articoli tutti il 28 luglio 2011, poi in questo sito per Duchamp (e Patella) il 16 gennaio 2014 sulla mostra alla Gnam, per Renato Guttuso il 25 e 30 gennaio 2013 sulla mostra al Vittoriano, per Giorgio de Chirico il 16 e 20 giugno e il 1° luglio 2014 sulla mostra a Montepulciano, per mostre precedenti su de Chirico a Roma cfr. i nostri articoli in “cultura.inabruzzo.it” il 27 agosto e 22 dicembre 2009, nonché l’8, 10 e 11 luglio 2010; infine cfr i nostri articoli per Claudio Abate in “www.fotografare facile.it” sulla mostra al Palazzo Esposizioni con le sue foto a Carmelo Bene; e, in questo sito, per Giosetta Fioroni il 1° gennaio 2014 e per l’“Astrattismo italiano” il 5 e 6 novembre 2012, entrambi sulle rispettive mostre alla Gnam.
Foto
Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nel Palazzo Esposizioni alla presentazione della mostra, si ringraziano gli organizzatori, in particolare l’Azienda Speciale Palaexpo, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura Giuseppe Capogrossi, “Superficie 726”, 1972, per la sezione il “Sistema”; seguono Luigi Ontani, “Bacchino”, 1980 per “La carne e l’immaginario” , e Gino De Dominicis, “Conversazione con macchie“, 1971, per “Il doppio”; poi Sol Le Witt, “Wall drawing # 287″, 1976, per “Il disegno e la scultura”, e Luca Maria Patella, “Tessitura solare con arcobaleno”, 1976, per “Il linguaggio”; quindi Mario Schifano, “Fantasia del paziente naturale”, 1970, per “Tutto”, e Salvo, “I giganti fulminati da Giove”, 1977, per “Fenomeno”; in chiusura Giulio Turcato, “Testa di moro”, 1970, per “Labirinto”.