di Romano Maria Levante
Alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna, dal 4 marzo al 18 maggio 2014 la mostra di Isabella Ducrot, “Bende sacre”, 40 lavori di cui 18 su seta tibetana, 14 trasposizioni su carta con Luciano Trina, e le 14 matrici di bende originali. La mostra, con il Catalogo Gangemi, è curata da Marcella Cossu e Silvana Freddo. In contemporanea nella stessa Gnam, le mostre“Ventisette artisti e una rivista” con l’esposizione delle copertine artistiche create nei primi anni ’90 per il periodico Mass Media, e “Interni d’artista”, con la ricostruzione degli studi di 7 artisti italiani del ‘900. Non è tutto, è stata inaugurata anche l’installazione “Filo Rosso” di Paola Grossi Gondi e prosegue la mostra “Scultori italiani dopo Rodin”. Un “en plein” veramente straordinario.
Non è la prima volta che vediamo dei tessili esposti, ricordiamo la mostra “Antichi telai” con i tessuti sacri e polittici per i rituali delle chiese cristiane, nelle varie scuole e scelte stilistiche, dalla romana e napoletana alla siciliana, il cui effetto era spettacolare con gli ori, gli argenti e i rubini.
Questa volta abbiamo le “Bende sacre”, sciarpe votive tibetane dall’effetto semplice e dimesso, raccolte in Cina e nel Tibet dall’artista, divenutane studiosa. Per Maria Vittoria Marini Clarelli, soprintendente della Gnam, sono “tessuti ridotti ai minimi termini, al puro e semplice incrocio fra la trama e l’ordito prima ancora che il telaio lo riconducesse alla regolarità geometrica”.
Non vengono esposte tal quale, ma sono la matrice di due operazioni diverse: la prima, di valenza pittorica, è consistita nel sovrapporre loro degli “orbicoli”, forme circolari ed ellittiche, la seconda, di valenza tecnologica, è consistita nel tradurne il tracciato su carta mediante la trasposizione grafica delle fragili fibre naturali insieme a Luciano Trina. La sacralità è nei fili tessili, al naturale o in grafica, che hanno la stessa funzione dei grani nel rosario cattolico.
La Ducrot non è pervenuta alla trasposizione artistica in base a percorsi mistici o ideologici ma per il proprio interesse ai tessuti e per il fatto di aver conservato le vecchie “Katha”, la sciarpa tibetana distribuita ai pellegrini prima dell’incontro con il grande saggio al quale la donano “in cambio di uno sguardo, un sorriso, un ringraziamento, un sussurro, una rassicurazione, una benedizione”, come scrive John Eskenazi rievocando un’esperienza personale; e aggiunge che nei suoi soggiorni himalayani le sciarpe lo hanno accompagnato dovunque, “costante, tangibile, silenziosa presenza del rito, della devozione, della sottomissione, dell’accettazione e comprensione del divino”.
Per questo le sciarpe più vecchie, fragili e impolverate “sono preghiere, suppliche, il sacrificio della propria identità nella speranza dell’ascolto della divinità”, e sono proprio le sciarpe utilizzate dall’artista per esprimervi la propria arte come il pittore su una tela che qui è di alto valore mistico.
Motivazioni e modi di questo suo intervento fuori del comune non possono che essere rivelati dalla stessa artista, e lo fa nel corso di un ampio dialogo con Marcella Cossu, una curatrice della mostra.
I tessuti nella visione dell’artista
Alla base delle sue opere c’è l’interesse per il tessuto in generale, prima che per “quel” tessuto, come si vede nella raccolta dei suoi scritti precedenti sul tema pubblicata nel 2008, “La matassa primordiale”. In questi scritti, partendo dalla persistenza nel tempo della composizione tra ordito e trama, svolge una serie di considerazioni dal mito alla filosofia, dall’antropologia all’arte.
Il tessuto è la metafora dell’anima dell’universo e della creazione con il “bing bang” iniziale in una sequenza come quella tessile in cui l’ordito precede la trama alla quale segue il tessuto. Le piace l’immagine – tra fantasiosa e leggendaria – della divinità “unica e assorta in sé” che rovesciando la testa sparse a raggiera nello spazio i lunghi fili dei suoi capelli; ciò che vagava nell’atmosfera si unì alla chioma, era l’ordito che con la trama creava il tessuto, da considerare il principio della creazione e il cosmo “tessuto in espansione”. Nello “spirito del tessuto” vede il soffio vitale in un sincretismo tra pensiero orientale e occidentale, tra spiritualità antica e sensibilità moderna.
All’interesse intellettuale e culturale si è aggiunto il collezionismo di stoffe dell’Asia e America Latina per il fascino delle origini remote del tessuto, le cui testimonianze risalgono al neolitico, i frammenti più antichi a diecimila anni fa. La cosa sorprendente è che in tempi così remoti si fosse concepito un lavoro ben più complesso dei gesti naturali dai quali sono nati gli oggetti di uso quotidiano: infatti si dovevano contare i fili, dividere l’ordito, inserirvi la trama, distinguere gli elementi orizzontali e verticali: “E’ un miracolo che si sia potuto realizzare da tempi così antichi qualcosa il cui procedimento di esecuzione è per di più rimasto inalterato nei secoli. Il tessuto, infatti, non può che essere e restare quello che è: un insieme elementare di incroci”. L’esigenza di coprirsi nasce con quella di alimentarsi, così nelle più antiche abitazioni si cucinava e si tesseva, una volta superata la fase primordiale dell’uso delle pelli degli animali uccisi.
Il colloquio dell’artista con la curatrice apre un mondo sconosciuto e affascinante. Il tessuto viene raffrontato al linguaggio, Platone diceva che “i nomi separati dai verbi non arrivano a formare una frase, così come l’ordito disgiunto dalla trama non è ancora un tessuto”; e sottolineava l’analogia dell’ordito con il carattere maschile e della più cedevole trama con il carattere femminile. Ma soprattutto l’artista insiste sulle sensazioni date da un qualcosa “che potrebbe benissimo anche essere di ottomila anni fa, perché tecnica e struttura non sono cambiate nel modo più assoluto, e già questo è emozionante”; altra emozione viene dal fatto che “noi vi conviviamo nel modo più intimo possibile, è la nostra ottava pelle, non ce ne separiamo mai dalla nascita alla morte”. Il tessuto è per noi coesistenziale e scontato come il respiro. “Si potrebbe dire in fondo che siamo diventati umani nel momento in cui abbiamo avuto questa copertura”.
E’ evidente che questa alta considerazione del tessuto doveva sfociare nell’arte, in un modo coerente con il rispetto che prova per questo “miracolo” dell’operosità umana. Negli anni ’80 fa i primi “collage” con i tessuti in modo da “onorarne la struttura” , oggetto di interesse fino alla meditazione, senza tagli e manomissioni di alcun genere. Poi la collezione di tessili dell’Oriente
L’intervento artistico sulle bende sacre tibetane
Le “bende sacre” portano al diapason questi motivi: “Il mio interesse è nato dal loro carattere estremo; la loro consistenza è al limite fra l’esserci e il non esserci, non hanno alcuna decorazione. E’ stato un cammino graduale verso l’essenziale, la rarefazione, l’assoluto. Perché, certo, meno di quel che c’è, in queste ‘Bende sacre’ non ci potrebbe essere”.
Così entriamo più da vicino nell’oggetto della trasposizione artistica di questi materiali così evocativi, che vengono dalle bancarelle del Tibet nei territori dei monasteri buddhisti, utilizzate in passato come ex voto, preghiere e decorazioni di statue votive. Acquistate e messe in un cassetto, come molti souvenir di viaggio, l’interesse crescente per il tessuto le ha fatte riemergere dall’oblio e diventare matrice preziosa per la trasposizione artistica della loro essenzialità quasi immateriale.
Tanto immateriale che viene l’assimilazione con la preghiera, il cui carattere è ritmato come trama e ordito: la litania e la giaculatoria in occidente, il mantra in oriente, lo stesso carattere ripetitivo e ritmato della tessitura, nel corso della quale, tra l’altro, non mancavano cantilene.
L’intervento dell’artista, a differenza dei suoi primi lavori sui tessuti, non è stato conservativo, tutt’altro: “Effettivamente ho violato queste ‘bende’, perché le ho tagliate, unite, usate quindi con una certa brutalità”, e questo uscendo dal loro campo “per consentirmi di immaginare un qualcosa di diverso, usandole ai miei fini, che sono pittorici”. E la pittura irrompe con gli elementi tondi o ellittici sovrapposti, anche con il colore oro o rosso, per i quali il tessuto è un supporto prezioso.
Ma c’è un altro supporto, la carta, usato per l’altra operazione i cui risultati sono anch’essi esposti, la trasposizione delle fibre in grafiche tecnologicamente ottenute: La carta è una pasta che “non ha in sé la complicazione della ‘battaglia’”. E il tessuto? “Esso è l”agguantatore dello spirito’, perché via via che si forma si costituiscono tante e tante caselle depositarie di ‘quella cosa che non ha nome’, forse l’anima”. Con il succedersi di vuoti e pieni “due elementi essenzialmente eterogenei vengono a convivere e producono qualcosa comparabile al respiro incarnato”.
In Oriente la considerazione dei tessuti è molto maggiore che in Occidente, ci sono musei riservati ai tessuti, anche se le sciarpe votive buddhiste non hanno nulla della spettacolare ricchezza dei paramenti liturgici occidentali che abbiamo potuto ammirare nella mostra “Antichi Telai” citata all’inizio. Le “bende sacre” sono state considerate dall’artista “come possibile materia prima da cui partire per realizzare delle immagini di preghiere universali”. Una materia divenuta preziosa perché con il turismo di massa la tessitura a mano ha lasciato il posto a quella industriale, come alle fibre naturali si sono sostituite quelle artificiali, rendendo i tessuti di un tempo reperti preziosi.
Gli interventi pittorici
Sono esposti 40 lavori dell’ultimo quinquennio, ma il suo percorso artistico attraverso questi tessuti risale nel tempo. Di Castro nel 1985 scriveva che “il lavoro di Isabella Ducrot attesta una progettualità continua che non si realizza nel disegno, ma nella scelta e accumulo dei materiali, le stoffe, raccolta che accompagna il corso della sua vita rispondendo di quantità sensorie, di timbri cromatici e luminosi, di trame diverse. Il nostro tempo insieme ad altre poche e culture , preziosità e povertà, il sentimento persino del ‘domani’ sono contenuti nelle stoffe prescelte”.
Ecco le 18 pitture su seta tibetana, e 14 incisioni su carta con Luciano Trina con altrettante bende originali che ne sono state matrici. Le “Bende sacre” sono ciascuna contrassegnata da un numero.
Sei sono del 2011, 4 su fondo chiaro con ovali o cerchi verde scuro o rossi, una su fondo rosso intenso con ovali chiari, è la n. 2, e il “Trittico di Ipazia”, dedicato alla scienziata martire dell’intolleranza. Nel 2012 “Preghiera”, nel 2013 5 opere, 2 con ovali contornati ma chiari come il fondo, 2 con ovali di un verde intenso, in uno fondo chiaro, nell’altro marroncino con un contorno reticolare, quindi una “benda”verticale quasi in dissolvenza; 3, infine, nel 1914, che ripetono gli ovali contornati come il fondo e a tinta piena più intensa del fondo ma dello stesso colore.
Abbiamo cercato di descriverli, ma come si può rendere atmosfera mistica e misteriosa che creano?
La trasposizione su carta
L’altra operazione artistica, quella della trasposizione su carta, viene così descritta dal coautore Luciano Trina: “La prima cosa che mi colpì fu la partecipazione rituale di Isabella che, nel dipanare questo ordito, nel ridistendere questa trama sul foglio di carta, nel ridargli forma sfidando la sua fragilità, mi apparve come coinvolta dalla stessa partecipazione devozionale di chi aveva eseguito quei lavori al telaio, non un semplice lavoro di tessitura, ma un preghiera, un ex voto che superava la stessa materialità”. E’ la sensazione di immaterialità che abbiamo trovato nelle “bende sacre”.
Il tecnico si trova di fronte a un’esperienza nuova rispetto a quelle precedenti di imprimere sulla lastra il “Tutto Pieno”, fosse anche un tessuto: “Ora, invece, avevamo di fronte il Tutto Vuoto, Isabella ridisegnava quel vuoto per sottrazione. ‘Meno più meno’, la somma del vuoto contemporaneo sommato a un vuoto arcaico. Una trama e un ordito sottilissimi, grandi vuoti racchiusi da sottilissimi pieni, che lanciavano la sfida all’occhio analogico, alle tecniche calcografiche tradizionali”. Trina la raccoglie utilizzando la tecnica digitale: “Solo con uno scanner si poteva tentare di catturare il vuoto sfuggente come l’essenza reale, vera del nostro soggetto”.
A differenza della tessitura basata sul “primato del tatto, la sua rappresentazione si basa sul “primato della vista”, ma una vista commisurata all’oggetto, “che veda oltre l’apparenza, un occhio immaginativo, consapevole che, come sempre, l’osservatore è parte dell’opera ed è il suo occhio che completa l’opera dell’artista”.
La modernità della trasposizione digitale si sposa con l’utilizzo di carte leggerissime per rendere l’immaterialità del soggetto, “costruite artigianalmente foglio per foglio”; quindi imperfette quando il digitale le richiede perfette ma, conclude Trina, va bene “perché senza qualcosa di errato, e di nascosto, il perfetto non c’è”. Ma proprio così l “arcaicità della carta” rende l’opera senza tempo.
Sono numerate, costituite da tessili tibetani e stampe digitali su carta japan, sono esposte in successione, creano un’atmosfera di leggerezza con i fili leggerissimi soprattutto verticali con larghi spazi e poche trame orizzontali, salvo “katha 5”, solo in orizzontale, e “Katha 6”, la stampa digitale di una “benda sacra” su cui la artista ha dipinto i suoi cerchi ellittici.
Vediamo nella realtà ciò che Trina ha descritto, cioè l’impressione dei vuoti piuttosto che dei pieni. L’immateriale è reso visibile, il massimo che si può chiedere all’arte come alla scienza.
Il ritorno alla realtà tangibile nell’immaterialità dell’arte
Si torna alla realtà tangibile nelle altre due mostre presentate contemporaneamente, mentre nel percorso, come sempre, si attraversano le sale del Museo: un’esposizione permanente di fascino straordinario per l’importanza delle opere presenti, con tutti i maggiori artisti e i loro capolavori. Abbiamo detto altre volte che si rischia la “sindrome di Stendhal”, e non è un’esagerazione.
Questa volta c’è anche uno spazio notevole riservato alla scultura con la mostra “Scultori italiani dopo Rodin” contemporanea alle tre appena inaugurate. Dalle “Bende sacre” si passa così al marmo e al bronzo, maggiore contrasto nei materiali non potrebbe esserci: ma in forme diverse per non dire opposte l’immaterialità dell’arte riafferma la sua forza espressiva ed evocativa.
E’ una sacralità che trova nella Gnam il suo teatro incomparabile, per la “total immersion” nel miracolo dell’arte.
Info
Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, Roma, viale delle Belle Arti, 131. Da martedì a domenica ore 10,30-19,30 (la biglietteria chiude alle 18,45), lunedì chiuso: ingresso mostra-museo, intero euro 12, ridotto euro 9,50. Tel. 06.32298221; http://www.gnam.beniculturali.it/ Catalogo: Isabella Ducrot, “Bende sacre”, Gangemi Editore, febbraio 2014, pp. 48, formato 24 x 22, dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Per la mostra citata nel testo cfr. il nostro articolo in “cultura.inabruzzo.it” “Antichi Telai, i tessuti d’arte tra eternità e storia”, 3 luglio 2009.
Foto
Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla Gnam alla presentazione della mostra, si ringrazia la Galleria con l’organizzazione e i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. In apertura e nelle tre immagini che seguono, le “Bende sacre” dipinte contrassegnate da un numero d’ordine, realizzate tra il 2011 e il 2014; nella quarta immagine le stampe digitaali, “Katha” anch’esse contrassegnate da un numero d’ordine; in chiusura, la facciata della Gnam con i festoni delle mostre in corso, citate nel testo.