di Romano Maria Levante
E’ stata molto più di una mostra, anche se molto ben curata e impegnativa, lo prova che all’inaugurazione a Palazzo Sciarra c’era tutto il mondo dell’arte e della cultura romano. La Fondazione Roma Museo ha raddoppiato gli spazi espositivi aggiungendo a quelli di Palazzo Cipolla i prestigiosi ambienti del palazzo di fronte, 1500 metri quadrati di superficie espositiva con una preziosa collezione permanente di opere dal ‘400 al ‘900: Palazzo Sciarra, un palazzo patrizio della seconda metà del ‘500, sede storica della Fondazione, inaugurato con una mostra che più adatta all’evento non poteva essere. E questo anche perché l’esposizione ha illustrato una ricerca vasta e approfondita sull’identità stessa della vita culturale cittadina in un’epoca cruciale come il ‘700: il secolo dei “lumi” nel quale fiorirono le nuove scoperte della ragione proiettata al futuro ma che cercava nel passato le radici da valorizzare e porre a base del balzo in avanti.
Il valore della rivisitazione del ‘700 con lo sguardo sull’antichità
E’ questo fervore il centro della mostra, il suo autentico motivo ispiratore; è il percorso di cultura e di vita di un periodo cruciale come il ‘700 considerato nei suoi momenti maggiormente legati all’antico ancora di più che le 140 opere esposte, che hanno fatto dire al presidente della Fondazione Roma Emmanuele M. Emanuele, organizzatore e patron: “La presenza di opere provenienti da tanti musei – e cita tra gli altri l’Ermitage e il Louvre, il Prado e i Musei Vaticani e Capitolini – costituisce la più brillante testimonianza dell’ampia circolazione di reperti antichi all’estero, diversi dei quali rientrano in Italia occasionalmente per la prima volta dal Settecento, ma anche di copie di gesso e di opere di diretta ispirazione”.
Un ritorno a casa, dunque, e una rivelazione del mondo vasto e colorito fiorito intorno all’arte antica: fatto di straordinarie scoperte archeologiche nel gran teatro delle rovine e della “resurrezione” dell’antico, da scavare e conservare; e poi restaurare non sempre in modo conservativo ma anche creativo, con lo sviluppo di attività mercantili fino alla falsificazione; una “fabbrica dell’antico” di botteghe prestigiose, non una deteriore contraffazione; e poi la nascita delle Accademie per la formazione sull’antico, gli arredi e la decorazione degli interni ispirati a modelli dell’antichità, fino a quella che viene chiamata sfida degli artisti dell’epoca con gli antichi modelli ai quali si ispirano in una gara di emulazione.
Il tutto viene documentato nel monumentale Catalogo Skirà ad opera degli stessi curatori della mostra, Carolina Brook e Valtrer Curzi, che va ben oltre l’apparato iconografico e critico di supporto all’esposizione per calarsi nel ‘700 romano scandagliando gli aspetti reconditi della vita artistica e culturale proiettata sull’antichità con ben 33 dissertazioni di studiosi concise ed esaurienti nelle quasi 500 pagine riccamente illustrate e documentate da cui trarremo le nostre citazioni.
E’ un’opera di valore che trova la trasposizione visiva negli spazi tematici delle sette sezioni della mostra, altrettanti quadri teatrali che rappresentano uno specchio dei tempi, anzi del tempo, il ‘700, evocato dai prestigiosi testimonial internazionali delle 140 opere che fanno toccare con mano i momenti salienti di un secolo così vitale nell’ottica dell’antichità vista e vissuta da vicino.
E si ha un primo paradosso, nella mostra sin dalla prima sala: con le stupende statue nella zona centrale e i dipinti alle pareti si ha l’impressione di entrare nel Parnaso, in un olimpo incommensurabile di arte e di bellezza; ma nello stesso tempo ci si sente spinti ad andare oltre, a ricercare i motivi e i movimenti che danno origine e alimentano questa fioritura di meraviglie, a seguire cioè il percorso culturale di ricerca che è il fil rouge dell’intera esposizione.
Un secondo paradosso è nell’immagine-simbolo della mostra: il busto della Minerva d’Orsay del II secolo dopo Cristo, nel quale spiccala testa con una specie di berretto frigio, ebbene questa è l’aggiunta settecentesca di un restauro creativo che più non si potrebbe; perché allora prendere a simbolo qualcosa di non autentico? Proprio perché riassume lo spirito della mostra, investigare su tutto questo, l’amore per l’antico che supera ogni barriera, nella travolgente cavalcata del ‘700
Il nostro racconto, dopo l’ammirato sbalordimento nella prima sala del Parnaso di Palazzo Sciarra, inquadrerà i capolavori esposti nel mondo che li ha rivelati e valorizzati, quelle tematiche sopra indicate evocative dei diversi momenti cui fanno riferimento le sette sezioni che rivisiteremo.
Nel teatro delle antiche rovine
E’ un teatro che esprime l’interesse alla riscoperta dell’antico. Spettatori i viaggiatori italiani e stranieri, uomini colti e talenti artistici provenienti da ogni parte per una visita a Roma che nel ‘700 divenne meta obbligata per la grande attrazione rappresentata dalle vestigia dell’antica civiltà greco-romana ritenuta necessario alimento e ispirazione per l’arte e la cultura.
Abbiamo opere che testimoniano come fosse attento e affezionato lo sguardo su questo teatro. Nella 1^ sezione le pareti della sala iniziale recano le vedute di Gaspar Van Wittel, il padre del grande architetto della Mole vanvitelliana di Ancona: Castel Sant’Angelo dai Prati di Castello e Colosseo verso Campo Vaccino e i dipinti di altri artisti stranieri: Charles-Louis Clérisseau, Capriccio con Pantheon, Arco di Giano, Piramide Cestia e scena di sacrificio, Jean Baptoiste Lallemand, Veduta di Campo Vaccino, e Hubert Robert, Fantasia architettonica con rovine.
Tra gli italiani tre dipinti di Giovanni Paolo Panini: Rovine con la statua equestre di Marc’Aurelio, Capriccio con la predica di una sibilla e Capriccio con la predica di un apostolo; e opere della Manifattura Fiorentina, Pantheon e Sepolcro di Cecilia Metella entrambe su modello di Ferdinando Partini, del quale è esposta la Veduta del tempio della Pace;
Una serie di fondali del Gran teatro della Roma antica offerto ai viaggiatori del Gran tour che non si limitavano ad ammirarne lo spettacolo ma ne lasciavano testimonianza con le opere ispirate. Era un’offerta consapevole, dall’inizio del ‘700 il Pontefice ripristinò il rigore sugli scavi archeologici, rinnovando editti precedenti ma disattesi, per cui erano vietati quelli senza licenza; questa veniva data per “scavi grandi e piccoli” alla presenza di supervisori pontifici alla ricerca di reperti per collezionisti e antiquari che spesso riuscivano ad aggirare i vincoli all’esportazione delle antichità.
Vengono ricordati nella prima metà del secolo gli scavi dei Farnese al Palatino, con il ritrovamento dei colossi di basanite di Ercole e Dioniso, portati a Parma senza opposizione del supervisore pontificio Francesco Bianchini, che comunque ne fece un’accurata documentazione, come per il Colombario dei liberti di Livia. e gli scavi del Colombario degli Arrunzi a Porta Maggiore con i successivi disegni di Giovanni Battista Piranesi.
Nella seconda metà del ‘700 le ricerche archeologiche sono coordinate e tendono a definire una “storia dell’arte” al di là dei singoli artisti, operano inglesi e italiani come i Piranesi anche nell’ottica commerciale favorita dai visitatori del Grand Tour appartenenti all’élite europea dove si moltiplicavano i collezionisti e dalla possibilità di eludere i divieti. Si citano gli scavi a Tivoli con una grande mole di sculture rinvenute presso Villa Adriana e quelli alla Villa di Cassio. C’erano anche gli “scavi camerali” per le raccolte pubbliche; si recuperavano oltre alle sculture i mosaici, portati al Museo Pio Clementino, e si faceva un’accurata documentazione con piante e annotazioni preziose. Veniva prestata molta più attenzione al monumento e ai luoghi, da preservare e documentare; non solo ai reperti artistici ornamentali come in passato allorché svuotati dei marmi pregiati erano considerati cave di mattoni. Mentre Goethe, nel 1787 diceva che “ogni frammento è venerabile”. “A Roma – parole di Quatremère citato da Paolo Liverani – il paese fa parte lui stesso del museo” precisando che “il vero museo di Roma è composto dai luoghi, dai siti, dalle montagne, dalle strade, dalle vie antiche…” figurarsi se andavano trascurate le rovine degli antichi edifici!
Le sculture al centro della prima sala fanno capire come gli esemplari classici ispirassero gli artisti dell’epoca. Abbiano la Flora Farnese di Carlo Albacini e il Laoocoonte di Joseph Chinard, dell’ultima parte del ‘700, dei marmi di grande nitidezza, il primo con il suo panneggio, il secondo con le sue forme; e poi Diana Braschi di Vincenzo Pacetti e un Vaso ornamentale tipo ‘Borghese’, delle Porcellane di Sèvres, in ceramica diaspro con rilievi bianchi su fondo celeste.
La “resurrezione” e conservazione delle antichità
La “resurrezione dell’antico” più che la mera riscoperta è il tema della 2^ sezione della mostra: è il risultato dell’attività di scavo e ricerca di cui abbiamo appena parlato, con il maggiore rispetto e interesse per le preesistenze dopo l’archeologia “di rapina” dei periodi precedenti.
Diventa fondamentale l’aspetto documentario, l’esigenza di rendere noto e comunicare l’evento, non più soltanto sotto il profilo storico, ma anche sotto quello visivo con le immagini. Di qui una fervente attività illustrativa che in Francia portò intorno al 1720 ai dieci volumi dell’“Antiquité expliquée et représentée en figures” di Bernar de Montfaucon. D’altra parte nei decenni successivi fu possibile documentare le opere e i monumenti nel loro contesto, finché Piranesi alla metà del secolo con le sue “Antichità romane” proiettò le rovine e i monumenti nel loro contesto rilevato con assoluta precisione, e non solo: “Le rovine di Piranesi non hanno nulla dell’atonia e della morte dei suoi grandi predecessori – scrive Marcello Barbanera – inquietano perché sono vive. Il messaggio implicito è che l’antichità non deve restare un corpo inerte nelle mani degli eruditi incapaci di penetrarne i segreti, ma essere vivificata dagli artisti e rinascere nelle loro opere”.
Guardiamole le opere esposte in questa sezione, cominciando da quelle pittoriche e grafiche. Torna Giovanni Paolo Panini incontrato nella 1^ sezione, in Rovine romane con resti del tempio di saturno (L’archeologo), di metà secolo, le rovine sono palpitanti di vita. Così danno il senso della vita le immagini all’interno del Museo Pio-Clementino, dal dipinto Allegoria del Museo Pio-Clementino in Vaticano di Bernardino Nocchi, alle acqueforti Veduta della Sala degli animali del Museo Pio-Clementino, e Veduta del Cortile del Belvedere di Giovanni Volpato, tutte dell’ultimo decennio del secolo. Si raggiunge la superiore dimensione classica della vita in un olimpo di bellezza, serenità e cultura in Parnaso di Villa Albani, di Anton Raphael Mengs, dipinto all’inizio della seconda metà del secolo nel quale vediamo raffigurata l’immagine ideale che l’esposizione ci ha suggerito subito all’ingresso, prima ancora che l’avessimo vista qui riprodotta:
Dai dipinti alle illustrazioni e alle incisioni, a partire da quella del già citato Francesco Bianchini intitolata Camera ed iscrizioni sepolcrali de’ liberti, servi ed ufficiali della casa di Augusto scoperte sulla via Appia, resa viva dai lavori in corso. Troviamo incisioni che riportano con assoluta precisione i rilievi e le scritte, come per l’Urna di marmo pario del celebre Pier Leone Ghezzi , per le Antichità di Villa Strozzi e Villa Albani di Jean Honoré Fragonard, nonché i Monumenti antichi inediti spiegati e illustrati da Giovanni Wincklemann prefetto delle antichità di Roma. E riproducono statue come Flora e Pirro di Gian Domenico Campiglia a metà secolo, Apollo del Belvedere dal Museo Pio-Clementino di Stefano Tofanelli e Alessandro Moschetti fino al Dito colossale in marmo di Antoine Laurent Thomas Vaudoyer, ultima parte del secolo.
Ed ora finalmente l’arte antica irrompe nell’esposizione, si è fatta giustamente attendere, per riprodurre il clima di allora, quando si aspettavano con ansia i progressi negli scavi e i risultati spesso rappresentati da sculture di marmo. Cominciamo dal bassorilievo Vittoria choragica versa delle libagioni in una patera offertale da Diana, copia romana del I dopo Cristo di originale greco del V avanti Cristo, una vera chicca venuta dal Louvre, e dal busto di Antinoo, età adrianea del 130-138 dopo Cristo. Della stessa età l’Erma di Pericle, ritrovata a Tivoli nel 1779 . che fece tanto rumore al punto da ispirare dei versi a Vincenzo Monti con un parallelo tra il personaggio greco e il pontefice Pio VI che l’aveva fatta portare subito in Vaticano, ed è un’altra chicca trovare accanto all’Erma proveniente dal Museo Pio-Clementino la piccola espressiva statua che la ritrae a fianco del Pontefice nel “biscuit” Pio VI con l’Erma di Pericle. E che dire delle due sculture di marmo Eros Capitolino e Flora Capitolina, la seconda ad altezza naturale, entrambe della prima metà del secondo dopo Cristo? Lasciano incantati il lento movimento con l’arco del primo e il panneggio della seconda con il gesto autorevole e il volto di grande nobiltà e fierezza.+
Dopo il clou nella scultura,. la sorpresa delle riproduzioni di pitture romane, cominciando da quelle di Vincenzo Brenna, che fu parte attiva nella pubblicazione di una “Raccolta” stampata da Ludovico Mirri definito “negoziante di pitture”, che aveva avuto l’esclusiva di una serie di scavi sulla via Labicana nelle vicinanze del Colosseo. Sono state riprodotte in nero e in una preziosa edizione a colori in sole trenta copie, le 16 Camere neroniane in sessanta acqueforti con la raffigurazione anche dell’architettura e della a struttura degli ambienti, Ci sono la Sala dalla volta nera e i tre Dipartimenti: quello della cornice inquadra colonne, pilastri e figure come cammei; poi quello dei riquadri a fasce rosse, festoni e listelli, con maschere e animali; infine un fregio con rosoni e foglie. Le tavole di Brenna esposte sono Decorazione del Corridoio delle aquile della Domus aurea e Copia di decorazione murale romana , c’è un’estrema raffinatezza e nitore nella riproduzione che rende appieno la levità aerea di quelle pitture, la loro freschezza e il riflesso di un universo pittorico veramente straordinario che andrebbe esplorato ancora, anche se la mostra alle Scuderie del Quirinale “La pittura di un Impero” ne diede una visione esauriente e affascinante.
E dato che abbiamo parlato della celebre residenza neroniana è il momento di dare atto all’organizzazione della mostra per aver fornito qualcosa in più e inatteso, una sorta di visita virtuale – citiamo testualmente – mediante “la realizzazione di uno specifico filmato all’interno del percorso espositivo per restituire al pubblico l’impatto che le esplorazioni degli ambienti della Domus Aurea provocarono sugli uomini del Settecento”: quelli che li visitarono, come i citati Mirri e gli artisti che ne hanno poi riprodotto le pitture nel modo che abbiamo visto e vedremo ancora. La ricostruzione virtuale riporta ai fasti del ‘700 con i colori nel loro splendore e l’emozione delle perlustrazioni: la Sala Ottagona e il Ninfeo di Polifemo, Le Sale dalle volte rispettivamente nera e rossa, gialla e delle civette, che sono chiuse saranno accessibili in video come apparivano nel ‘700.
Molto diverse ma altrettanto espressive le quattro incisioni acquarellate esposte con copie di dipinti murali in domus romane, due di Anton Raphael Mengs con Angelo Campanella, due di Anton von Maron con Piero Vitali e Girolamo Carattoni: le due ultime raffigurano Bacco e Arianna, poi Marte, Venere e Cupido. Quelle di Mengs sono Venere con una ninfa e amorini e Venere e Adone morente. Non siamo di fronte alla miniatura delicata di Brenna, il segno è robusto, il colore netto, i soggetti a differenza delle aeree decorazioni floreali e simboliche rappresentano architetture precise con archi rotondi e riquadri, con una scena centrale. Ad una di queste Mengs si è ispirato per un dipinto che ritrae Venere con eroti, il corpo seminudo con intorno i putti alati.