di Romano Maria Levante
Nel Complesso del Vittoriano, lato Ara Coeli, nella sala Gipsoteca la mostra di Fausto Roma, “Le terre del caffè”, espone dal 16 aprile al 18 maggio 2014, 29 acrilici su tela di grandi dimensioni: 20 del ciclo “Le Terre del caffè”, del 2013, 8 del ciclo “Terra”, del 2010, più l’acrilico su tela di 4 metri per 2, “La mia terra”; vi sono anche tavolini ed altri oggetti con i motivi della mostra, aperta da “Eneide”, gioiello d’oro con diamante nero e smeraldo, brillante e rubino. Curata da Claudio Strinati, promossa da Regione Lazio, Camera di Commercio di Roma e dall’Associazione Impegno, realizzata da “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia. Catalogo “Skira”.
L’ispirazione e il segno un po’ astratto e un po’ concreto
Per meglio interpretare la mostra si deve partire dal gioiello posto in apertura, opera anch’esso dell’artista, perché il viaggio compiuto dall’oggetto ha ispirato i cicli pittorici della terra vista dall’alto. Il nome “Eneide” testimonia la trasmigrazione verso una realtà più vasta, si va nello spazio perché il viaggio è stato sulla navicella Soyuz 10s, il gioiello fu affidato all’astronauta Vittori, partito il 15 aprile 2005 dal cosmodromo di Baykonur in Russia; nelle tante orbite percorse ha sorvolato il pianeta da un’altezza che ha ridotto le terre sorvolate a carte geografiche.
L’immedesimazione dell’artista in questo volo lo ha portato a intervenire sugli ingrandimenti modulari delle fotografie satellitari imprimendovi il segno, anzi i segni della sua arte. Claudio Strinati lo definisce “un figurativo che lavora con l’astrazione”, e commenta così: “Non disegna solo quello che vede ma ne disegna l’anima, l’interna struttura, la linfa vitale che scorre nel mondo animale, in quello vegetale e persino in quello che definiamo inanimato e che invece animato appare all’artista creatore”, per concludere: “Di questo mondo vivente l’artista rintraccia i confini e i percorsi e quindi diventa una sorta di agrimensore dell’anima”.
Il suo segno, “un po’ astratto, un po’ concreto è sempre uguale e sempre diverso”, ed è immediatamente riconoscibile, del resto anche la vita è fatta di realtà e di astrazione, e nelle sue opere si sente scorrere la linfa vitale: “Sembra sentire latente dentro quelle immagini quel sapore della festa popolare, della allegra animazione di ciò che ci circonda, persino del profumo della amara ma buonissima bevanda, delle movenze sinuose di chi si aggira nel territorio”.
Ci viene da definirlo “impressionista del terzo millennio”: i forti colori e i segni profondi esprimono l’impressione immediata, questa volta però non fissata nella tela sul cavalletto in “plein air”, ma sulle fotografie satellitari del sorvolo virtuale, offerto dalla modernità all’ispirazione dell’artista.
L’uomo e l’artista, il pianeta e la sua terra laziale
Anche Philippe Daverio, nell’osservare che “ama il colore e il segno che lo articola come se fosse una scrittura indecifrata” e nel trovare riferimenti colti, sottolinea il tono festoso: “Il risultato è particolarmente gioioso: torna vitale con convinta energia e si riprende sfacciato il ‘diritto alla vita’, all’esperimento. Porta con sé un umore rallegrante. Come la terra laziale densa nella quale vive”.
Nato a Ceccano in Ciociaria, studi al Liceo Artistico e Accademia Belle Arti di Frosinone, allievo del maestro Ranocchi. Pittore e scultore che inizia con l’arte povera per approdare negli anni ’90 alle forme totemiche come archetipo, con le quali realizza sculture-architetture, come le sculture-albero che esprimono il movimento. Mostre in Italia e Giappone, ha partecipato al Padiglione Italia della 54^ Biennale di Venezia del 2011, curata da Vittorio Sgarbi, per il 150° dell’Unità nazionale, con l’opera “Terra 2011“. Dopo la “missione Soyuz” del suo gioiello “Eneide” si allargano gli orizzonti, e nel 2010 con il ciclo “Terra” sorvola idealmente la natura trionfante dal Messico alla Russia, dalla Tanzania alla Nuova Zelanda; nel 1987 aveva già dipinto “La mia terra”, visione dall’alto del territorio laziale, nella quale trasmette il proprio attaccamento alle sue radici
E’ un rapporto ripagato dall’affetto della sua gente, che affollava la Gipsoteca all’inaugurazione, con un numero di presenti di gran lunga superiore alle tante mostre consimili svoltesi in tale sede.
Per questo Michele Ainis, del Comitato scientifico, parla dell'”uomo, in carne ed ossa, con i suoi amori e umori. In ogni creazione artistica si riflette il suo creatore”, e in Roma c’è la generosità che si trasmette dall’uomo all’artista: “Nella capacità di misurarsi con i più svariati materiali, e con le tecniche più varie: sicché le sue mani modellano sculture, quadri, tappeti, gioielli, installazioni”, ne vediamo alcune lungo il percorso della mostra; “oppure nel gusto delle grandi dimensioni, che stirano l’acrilico in superfici di 4 o 6 metri quadrati, come i dipinti per queste ‘terre del caffè'”.
Ma come si esprime l’artista? Ha sorvolato idealmente le 16 “Terre del caffè” per le condizioni climatiche favorevoli alla produzione dei semi, dal Kenya al Messico, dall’Etiopia al Guatemala e alla Colombia, come per seguire quel chicco che, dice Patrizia Palombo, “viaggia attraverso altre terre esperte di miscele, torrefazioni, dosi di macinato, macchine perfette che solo mani sapienti sanno manovrare”, tante tappe per cui “il viaggio di un chicco di caffè è molto simile al processo creativo attraverso cui si realizza un’opera d’arte”.
In merito alla creazione artistica, Marcello Carlino ha sottolineato il “lavoro ipertestuale sull’ipotesto fotografico, del rifacimento rimodellante della texture, della marcatura delle linee e della loro puntualizzazione perliforme, della costruzione a graticcio di un testo secondo su di un testo primo”. E ha parlato “del fascino dei colori, come in festa, e della avvolgenza delle forme con i rombi e le spirali, le strisce e i filamenti, le isoipse e le curve di livello che sciamano e che ‘sciarpano’ sinuose e danzanti”.
La galleria pittorica, “Le terre del caffè”
Ed ora la visita alla galleria di dipinti spettacolari, che si apre con un grande pannello che è tutto un programma, si tratta di “Terra 11”, l’opera esposta nel Padiglione Italia del 2011, formato da 48 tele quadrate delimitate dai meridiani e paralleli: qui non ci sono le riprese dallo spazio a ispirare l’artista, la sua immaginazione creativa ha composto un mosaico del pianeta dai forti colori. Del resto nel 2010 aveva già al suo attivo il ciclo “Terra” con le riprese dall’alto, ora si è trattato di riassumere in una sintesi geniale le tante sollecitazioni e sensazioni di una visione spaziale.
La visione si sviluppa nel percorso della Gipsoteca, dove il visitatore è spinto a inoltrarsi nel lungo androne sinuoso cui fanno ala alle pareti, ben distanti, gli spettacolari acrilici che segnano le vie del caffè da un continente all’altro, da un territorio all’altro. Tutte riprese dall’alto nelle immagini dal satellite, con l’intervento decisivo dell’artista nel forte cromatismo e nel disegnare linee di quota e di confine molto marcate che rappresentano la fisionomia, diremmo l’identikit dei diversi territori.
“In tutti questi quadri – osserva Ainis da visitatore attento e affettuoso verso l’autore – la mano dell’artista disegna un reticolo di linee, svolazzi e ghirigori. Spesso i segni appaiono punteggiati al loro interno, come un ricamo all’uncinetto. Oppure sono segni doppi, che corrono per rami paralleli”. E non avviene a caso: “Sicché lo spazio si rifrange, si moltiplica, ma al contempo si riduce. Diventa spazio atomico, pur nella sua ampia dimensione”. Non finisce qui la visione di Ainis che riassume l’effetto d’insieme e i singoli particolari: “Tuttavia gli atomi non invadono la tela: lasciano fuori lembi, isole cangianti, nuvole d’aria che infine divorano l’insieme, che ingigantiscono quando l’occhio si fissa nel dettaglio. Così il particolare diventa generale, così il microsistema genera macrofigure”.
Questa descrizione fotografa gli aspetti comuni degli acrilici esposti, tali da identificare senza alcun dubbio la mano dell’artista, come ha sottolineato Strinati; e nel contempo spiega come si differenziano anche nel tratto. Noi ricorderemo i colori che colpiscono con la loro brillantezza, mantenendo ferma la visione d’insieme che abbiamo appena riportato come guida alla visita.
Il verde domina nel Congo e nelle Hawai, più tenue nel primo, più intenso nelle seconde, i segni marcati sono neri, in entrambi ci sono delle “enclave” rosse.
Mentre il rosso è il colore di Kenia ed Etiopia, Nicaragua e Colombia, anche se per il Kenia e l’Etiopia vi è anche una seconda rappresentazione, questa volta con il blu e il verde dominanti. Nel Kenia rosso e nella Colombia non c’è il segno marcato nero usato per le altre due nazioni, come quelle prima citate: le linee sono percorse da cerchi bianchi in successione – i “ricami all’uncinetto” di Ainis – che fanno pensare a tanti fili di perle più che ai chicchi di caffè, notoriamente neri.
Due rappresentazioni anche per il Messico, una con un fondo celeste chiaro su cui i segni divisori sono bianchi e distribuiti in fitti allineamenti sulla superficie; l’altra con una vasta area rosso bordeaux non interrotta da segni mentre il verde con delle raggiere occupa la parte esterna, è il colore del mare. Verde e celeste anche per il Guatemala, con delle sfumature bianche da cielo nuvoloso; mentre per la Nuova Guinea la terra color arancio, fortemente segnata, è circondata da un blu intenso con macchie bianche, anche qui il mare. Dominano bordeaux chiaro e azzurro in Costa Rica e Portorico, giallo arancio in Giamaica e violenti accostamenti tra bianco e rosso per la Repubblica Dominicana. Infine il Brasile è una sinfonia di colori in un territorio molto segnato.
Il ciclo “Terra” e la terra dell’artista
Il giro del mondo sulle terre del caffè fu preceduto dal sorvolo virtuale di terre con i diversi segni della natura: dal corso di fiumi come il Volga e il Danubio al delta del Mississippi e alla valle del Tigri, dal cratere dei vulcani al pack del mare ghiacciato, dalla tundra siberiana alla costa croata.
Questi acrilici sono percorsi, come quelli sulle terre del caffè, da linee isobare per lo più costituite da puntini bianchi sul segno nero – i fili di perle di cui abbiamo parlato – mentre il tratto nero profondo è riservato a poche visioni dall’alto, in particolare quelle sui fiumi e sulla tundra siberiana.
Il motivo di questa differenza resta un mistero, come lo sono i criteri seguiti nel segnare con il suo tratto così variegato e intrigante, le terre “sorvolate”, e i colori usati per dare vita alla sua geografia dell’anima, che va ben oltre il supporto satellitare di base: l’aggettivo da usare è uno solo, il motivo e il criterio del segno e del colore è sempre artistico perché investe forma e contenuto dell’opera.
Ma c’è molto di più, e lo dice Carlino nel riassumere l’effetto di questi acrilici come di quelli sulle terre del caffè. Sulle fotografie satellitari che “fungono da supporto e quasi da ordito… l’autore interviene con i tratti decisi e i colori squillanti degli acrilici, così ‘aggiungendo’ e disegnando la trama che gli appartiene, che è sua; e quanto si ottiene dalle conquiste straordinarie della ricerca e dalle sue applicazioni tecnologiche torna ad incontrarsi virtuosamente con il talento, artigianale e tutto umano, di base all’espressività artistica. Il moderno si risposa con l’antico”. Questo talento si esprime attraverso “un sistema mobile di correzioni, di riporti, di velature, di esposizioni, di sottolineature inveranti, di sviluppi proiettivi, di variazioni abrasive, di diffrazioni, di sezionamento da mappa o da carta geografica con le coordinate appropriate e insomma – come per impulsi e sotto suggestioni da estro armonico rinascimentale – di ricomposizione complice e felice di tecnologia e di immaginazione, di scienza e di fantasia, di cibernetica e di fantasmi”.
Il culmine della mostra è il grande pannello “La mia terra”, come un ritorno a casa dopo il giro del mondo sulle terre del caffè preceduto di tre anni dalle escursioni su fiumi, crateri e tundre. Ma non è un ritorno quanto una partenza, come la fotografia del paese che l’emigrante porta con sé nel mondo: l’opera è del 1987, quasi venti anni prima del viaggio dell'”Eneide”, dunque il sorvolo ideale era nel Dna dell’artista e quello virtuale compiuto attraverso il suo gioiello ha dato la spinta per l’estensione a livello planetario di un’ispirazione artistica nata dalla propria terra.
Carlino parla delle “fasce diversamente colorate dei terrazzamenti e dei coltivi e dei corsi d’acqua delle nostre terre, sul ritorno a materia preistorica e più ancora magmatica che la natura inaccessibile vista da un occhio lontanamente orbitante sembra suggerirci”. E all’inaugurazione della mostra i conterranei dell’artista si affollavano intorno a quest’opera sforzandosi di individuare i luoghi a loro ben noti visti dall’alto e marcati dagli interventi pittorici: abbiamo assistito a questa affettuosa ricerca collettiva di vie, piazze e giardini di paese pur nel contesto quanto mai planetario.
C’era anche Ainis, che conosce bene quei luoghi e l’abitazione dell’amico artista di cui scrive: “Abita in un borgo ai margini del borgo di Ceccano, in una casa-studio colorata come un arcobaleno, dove s’assiepano legni, ceramiche, bronzi, tele disposte sui cavalletti o lungo le pareti. Lui vive lì, ma vive sempre altrove. Frequenta il planisfero con l’immaginazione, la stessa immaginazione che s’accende appena lo sguardo sosta sui suoi quadri”. La mente torna a Emilio Salgari, che ha acceso la fantasia di tante generazioni con i suoi romanzi di avventure in terre esotiche e lontane, da lui mai conosciute ma fatte vivere e rivivere con la sua inesauribile fantasia.
Non è poco suscitare simili emozioni, con la pittura come con la scrittura.
Info
Complesso del Vittoriano, Piazza dell’Ara Coeli 1, sala Gipsoteca. Dal lunedì al giovedì ore 9,30-18,30, venerdì, sabato e domenica 9,30-19,30, nessuna chiusura settimanale; ultimo ingresso 45 minuti prima dell’orario di chiusura. Ingresso gratuito. Catalogo. “Fausto Roma. Le terre del caffè”, Editore Skira, aprile 2014, pp.120, formato 24×28, dal catalogo sono tratte le citazioni del testo. Per la mostra citata del “Padiglione Italia” cfr. i nostri 2 articoli in questo sito l’8 e 9 ottobre 2013.
Foto
Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante all’inaugurazione della mostra nel Vittoriano. Si ringrazia l’organizzazione, in particolare “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, e in via speciale l’artista anche per aver accettato di essere ritratto da noi davanti a una sua opera nell’immagine di apertura.