Interni d’artista, 7 artisti dell”800-‘900, alla Gnam

di Romano Maria Levante

Una serie di opere, molte mai esposte finora, ambientate negli studi di 7 artisti dell”800-‘900 nella mostra alla Gnam “Interni d’artista”, dal 4 marzo al 2 giugno 2014,  inserita in un programma sul ruolo dello spazio privato con una serie di iniziative per il pubblico. Gli artisti di cui sono ricostruiti gli studi, con le loro sagome, sono Palizzi e Morelli, Ferrazzi e Mazzacurati, Balla e Capogrossi, più un’installazione di Alik Cavaliere. E’ curata da Massimo Mininni,contemporanea alle mostre “Isabella Ducrot. Bende sacre” e “Ventisette artisti e una rivista”; nello stesso periodo la mostra di scultura “Gli scultori italiani dopo Rodin”, con tante opere. La Gnamè un palcoscenico straordinario per l’incomparabile spettacolo dell’arte.

E’ una mostra diversa dalle altre, anche se non inconsueta alla Gnam che ha un patrimonio così vasto di opere esposte in modo permanente o in magazzino, da poter di volta in volta offrire percorsi tematici particolari in mostre studiate per l’occasione.  Nell’ambito del  programma “Le storie dell’arte. Grandi Nuclei d’Arte Moderna” la Gnam periodicamente organizza mostre su singoli artisti  utilizzando anche opere  non esposte nel percorso  permanente; in queste circostanze non è mancata un’ambientazione  idonea a far sentire l’atmosfera dei depositi in cui sono conservate le opere non visibili dal pubblico, lo abbiamo visto in una mostra sulle nature morte.

L’atmosfera degli studi d’artista

Per questa mostra il criterio espositivo è stato diverso,  si è voluta rendere l’atmosfera degli studi degli artisti presentati, come spazi creativi in cui ambientare le loro opere. Non si è trattato di una scelta limitata all’allestimento, di questi artisti viene approfondita la vita di studio-atelier, quindi sono analizzati gli spostamenti nel corso della vita artistica delineando una mappa urbana e artistica coinvolgente. Il visitatore che voglia seguire queste ricostruzioni, analiticamente descritte dalle ampie schede  esplicative nelle sale dedicate ai singoli artisti, compie un “tour”  affascinante che lo fa entrare in interni sempre diversi, evocativi dei loro percorsi artistici e di vita. Si è portati  a riflettere  sul ruolo degli atelier come spazi di auto-rappresentazione degli artisti e sedi di incontri oltre che di lavoro.

La scelta espositiva  sottolinea inoltre che le opere presentate provengono direttamente  dagli studi suddetti come donazioni o acquisizioni dirette da parte della Gnam, quindi non vi sono stati passaggi intermedi in altre gallerie e collezionisti; perciò conservano l’odore e il sapore dello studio dell’artista, e non essendo state per lo più esposte, è come se vi fossero rimaste e lo studio venisse aperto ora al pubblico.

Sono presentati anche quadri dell”800-‘900, alcuni mai esposti finora, sugli interni degli studi, nell’ambito  delle iniziative con il MiBAC volte ad approfondire tale tematica, anche con una mappatura degli atelier romani di cui è fornita un’anticipazione  in un video di Marcella Cossu e Silvana Freddo, curatrici della mostra contemporanea “Bende sacre”. Si aggiunge la possibilità di visitare studi di artisti presenti a Roma, così presentata: “Un percorso nel cuore segreto degli ateliers che gli artisti e le accademie straniere hanno aperto al pubblico per far conoscere e far  vivere l’esperienza di uno spazio in cui viene quotidianamente praticato un mestiere e spesa una vita per l’arte”.

Nel sito della Gnam nel corso della mostra si può consultare il calendario delle visite.

Filippo Palizzi e Domenico Morelli

Cominciamo da Filippo Palizzi non perché come noi è un abruzzese quanto perché la sua sala è la più spettacolare, la prima in cui siamo entrati, colpiti subito dalla straordinaria  ricchezza espositiva: le pareti letteralmente coperte di suoi quadri fino all’alto soffitto, ne abbiamo contati almeno un centinaio, molti dipinti con tema il cavallo, tanti altri con scene di vita contadina.

Ricordiamo le sue opere esposte a Teramo insieme a quelle di altri artisti abruzzesi dell’800-‘900, nella mostra del 2011 sulla “Gente d’Abruzzo”, clima e atmosfera attraverso l’interpretazione di artisti della stessa terra d’Abruzzo: un esempio che a suo tempo proponemmo di seguire in altre regioni per creare un circuito artistico evocativo che gioverebbe alla conoscenza reciproca di usi, costumi e ambienti, stemperando le contrapposizioni localistiche nella comune identità popolare.

L’ambientazione nello studio è insita nella “quadreria” che è stata ricostruita, con una ringhiera e la sagoma dell’artista. Nella scheda a lui dedicata, Linda Sorrenti  ricorda  che donò 327 opere nel 1891 alla Gnam, allora al Palazzo Esposizioni, e su sua indicazione furono collocate sulle pareti in una “quadreria” che riproduceva, come quella della mostra attuale, la disposizione nel  suo studio di Napoli in Vico Cupo a Chiaia.  Definì la donazione nel giugno 1892  una “semplice dimostrazione  della fede e amore immensi che sempre portai nelle lunghe e laboriose ricerche dell’Arte”.

In alcune incisioni di Dante Paolocci sull'”Illustrazione italiana”  dell’agosto 1892, si vede la sala il giorno dell’inaugurazione, con tanti schizzi e studi oltre a quadri. In effetti era solito raccogliere gli spunti per le sue opere da giugno a novembre in schizzi e studi, poi con la “rielaborazione invernale” traduceva quegli appunti nelle opere pittoriche. L’amico pittore Domenico Morelli, che aveva lo studio vicino in via della Pace 39, ne parla in un testo contenuto nella raccolta  “La scuola napoletana di pittura nel secolo decimo nono ed altri scritti d’arte”, nel quale sottolinea il ruolo di Palizzi dopo il 1840, improntato al realismo sociale senza formalismi e accademismi, ne fa fede la  “Gente d’Abruzzo”.

La sala  vicina è dedicata proprio allo studio e alle opere  di Domenico Morelli, quasi coetaneo dell’amico Palizzi, la loro vita si è svolta dagli anni ’20 a fine ‘800, erano vicini anche fisicamente, dato che, come è scritto nella biografia, “le porte dei loro studi erano l’una accanto all’altra, nei giorni della lotta e della pena, e s’aprivano quando l’amico chiamava il fratello”.

Vediamo esposto il dipinto  “Torquato Tasso legge la Gerusalemme Liberata a Eleonora d’Este”, 1865, e le opere religiose della maturità, “Cristo nel deserto” e “Pater noster”, 1898,  che figurano nell’immagine scattata dai fotografi Danesi nel suo atelier; in un’altra fotografia si vede “Mater purissima” con il “Ritratto di Pasquale Villari” che fu con Morelli sulle barricate nei moti del 1848 contro i Borboni; tre anni dopo il pittore ne sposò la sorella.

Questa e tante altre notizie sono nell’ampia scheda di Valentina Filamingo che ricorda come il suo atelier  fosse frequentato, oltre che da Palizzi, dall’artista abruzzese vicino a D’Annunzio, Francesco Paolo Michetti – ricordiamo anche lui nella citata mostra a Teramo “Gente d’Abruzzo” – da Bernardo Celentano e da stranieri come Mariano Fortuny e Lawrence Alma-Tadema il quale gli mandava cartoline sulla Palestina, terra che lo attirava molto come ispirazione religiosa, tanto che ne teneva una pianta nello studio e Primo Levi: nel libro sulla sua vita  e la sua arte, scrive che “dinanzi ai suoi quadri, ai suoi studi, ai suoi disegni della galilea e della Giudea, gli diceva: Ma voi ci siete stato!”, per cui fu definito “viaggiatore intorno al cavalletto”.

Ashton R.  Willard descrive  il suo studio – del quale l’ambientazione  della Gnam si limita forzatamente a riprodurre l’angolo con il cavalletto e una serie di quadri come quelli citati – osservando che vi sono ampie stanze  il cui “carattere è in prevalenza orientale e ci sono poche suggestioni del suo iniziale periodo romantico”, testimoniato solo da “grande cartone del ‘Tasso’ che ancora occupa lo spazio in alto sulla parete che gli assegnò quando occupò le attuali stanze di lavoro”. Per il resto “i pavimenti sono coperti da tappeti tirchi e divani rosso scuro. Vari oggetti d’arte orientale  in ceramica e metallo sono sparpagliati sulle mensole e sui tavoli, ricami e tappezzerie siriane trovano posto negli spazi liberi sulle pareti”. Un’ambientazione dannunziana  nella quale viene preservato dall’artista l’angolo originario che vediamo ricostruito nella mostra.

Ferrazzi, Mazzacurati e Cavaliere

Con  questi tre artisti si entra in pieno ‘900, essendo nati o alla fine dell”800  o nel nuovo secolo.

Lo studio in cui Ferruccio Ferrazzi  lavorò per 35 anni era una capanna di un orto in affitto a Roma, nella zona della Domus Aurea, tra l’Esquilino e Colle Oppio, lo spostò per tre volte finché riuscì a inserirlo addirittura in una cappella borrominiana.  E’ figlio d’arte, ricorda che nello studio paterno, nella loro  abitazione modesta ma luminosa a piazza Vittorio, “sull’ammattonato con mio fratello sgorbiavamo a carbone i primi S. Micheli del Reni, e i putti di Raffaello”.

Il suo studio nell’orto era in una  corte dei miracoli, tra le mura che cingevano il terreno erano sorte  baracche con un’umanità pittoresca, acquaioli e ortolani, falegnami e fabbri, fabbricanti di terraglie e di liquido da bucato, c’era anche l'”Osteria dei bontemponi”: “Pareva una piccola repubblica – ha ricordato lui stesso – sembrava di vivere in una grande comunità o in una sola famiglia, io stavo nel suo centro poetico, rispettato ed amato, qui uscivo con le mie tele a dipingere, qui venivano invitati da me gli artigiani a vedere le mie opere, che partivano poi per le esposizioni del mondo”.  Nel 1977  ha aggiunto: “Nella mia capanna all’orto delle Sette Sale venivano Capogrossi, Ziveri sempre eccitato fin da giovane quando vedeva  pittura, Mazzacurati con l’amico critico Arsian, Stradone allora giovinetto. Ma in realtà sono stato sempre un solitario”.

Lo studio successivo in via Ripetta, cui si ispira la ricostruzione della mostra, si vede in una foto d’epoca con dipinti alcuni dei quali divenuti di proprietà della Gnam ed esposti in mostra: lo frequenta lo scultore Martini, mentre lui frequenta Balla e Marinetti accostandosi al futurismo la cui influenza si vede nelle opere esposte  “Albergo a Montreux” e “Carosello alla Riponne”, 1916-17, partecipò poi alla grande Esposizione Nazionale Futurista del 1919. Nel 1927 dalla capanna nell’orto si trasferisce a Palazzo Altieri vicino Piazza Venezia, ma dipinge anche al Casalaccio di Tivoli per fuggire dalla città, opere come “Toro romano”, 1930,  che vediamo esposto; dal 1934 al 1957 avrà lo studio al Piazzale delle Muse ai Parioli, con vista sul Tevere, infine si trasferirà all’Argentario su un poggio nel 1959-60, per appartarsi definitivamente, e torna alla scultura.

In questa successione di studi-atelier,ricostruita nell’ampia scheda di Keila Linguanti,  c’è il suo percorso artistico ed esistenziale, con ricorrenti fasi di crisi e insofferenza per le pressioni dell’ambiente. Così le sue parole: “Al Casalaccio di Tivoli, ancora al fianco di mio padre, sentii un giorno il respiro ampio verso l’eternità panica che mi sconvolge tuttora lo spirito tra il divino e l’umano”; e alla fine “l’innato desiderio di contemplazione, di silenzio i meditazione, di misura dell’uomo in rapporto con le cose mi hanno spinto qui all’Argentario”. Lo studio ai Parioli, “allora periferia verde e silenziosa”, come lui stesso diceva, era descritto dalla stampa “vasto, luminoso, accogliente”, un “ambiente altissimo” nel quale “tre cavalletti sostengono tele, tavole, su cui Ferrazzi lavora anche contemporaneamente, e poi quadri dappertutto”; confidava “di aver passato molte notti nel mio scantinato a lambiccare combinazioni di smalti, di vernici, di supporti, di imprimiture, di resistenze al colore”.

Ci siamo soffermati su questo artista per la testimonianza preziosa sullo studio-atelier arricchita dalla molteplicità delle sedi in cui si è trasferito con caratteristiche così diverse e significative per i riflessi sulla sua sensibilità che lo portava ad evaderne temporaneamente o e poi stabilmente.

Abbiamo ricordato che tra i frequentatori della sua capanna-atelier vi era Mazzacurati. Ed è di Renato Marino Mazzacurati la successiva ricostruzione dello studio d’artista, anche lui ne ha cambiati diversi. Emiliano, studia all’Accademia delle Belle Arti di Roma, dove ha il suo primo studio nel 1926 nel laboratorio collettivo di Villa Strohl-Fern; con Mario Mafai fonda la “scuola di via Cavour”, nell’abitazione di Mafai in tale strada. Due anni dopo sposta lo studio al Testaccio e dopo tre anni, nel 1931, in  via Flaminia dove con Scipione fonda e dirige la rivista “Fronte”.

Nel 1938 è di nuovo a Roma, questa volta stabilmente, dopo un ritorno in Emilia, il suo studio ora è in via Margutta, ma lui si sposterà in via Giulia, nell'”officina” di Villa Poniatowski dove crea con Enrico Galassi oggetti di arte applicata, collaborano anche Giorgio de Chirico con il fratello Savinio, Pietro Consagra e Franco Gentilini. Nel 1947 quest’iniziativa si chiude, e quando viene data agli artisti la possibilità di occupare i locali di Villa Massimo dov’era  prima l’Accademia tedesca vi si trasferisce, con  Renato Guttuso con lui anche in via Giulia.  Vì crea delle opere esposte in mostra, come il “Ritratto di Palma Bucarelli” e il “Fucilato”, dal “Monumento al partigiano”. Il periplo romano dei suoi atelier termina agli Orti della Farnesina, con Mafai, negli studi all’interno di appartamenti realizzati da una cooperativa di artisti.

Anche per lui, come per gli altri, il percorso da uno studio all’altro, che abbiamo riassunto sulla base della ricostruzione di Maria Sole Cardulli,  è significativo rispetto alle vicende della vita e alla crescita artistica: la mostra ne dà testimonianza.

Ben diversa è la testimonianza relativa ad Alik Cavaliere, come anche l’esposizione a lui dedicata, una spettacolare struttura scenica ricostruita che occupa un’intera sala, è dedicata a “I Processi dalle storie inglesi di Shakespeare”; risale al 1972 ed esprime la delusione della gioventù per la caduta delle speranze di rinnovamento del 1968. I “processi” sono anche sociali e culturali, ma la rappresentazione è di tipo giudiziario, con giudici e imputati, il potere e le sue vittime.

La voce di Roberto Sanesi recita un suo testo accompagnato dalla musica di Bruno Canino, su un’imponente intelaiatura lignea un palcoscenico con un manichino, un uomo sanguinante in gabbia,  una donna  dietro una grata, e più di cento oggetti simbolici sparsi in disordine e in bell’evidenza. Il perché lo spiega l’autore: “E’ rimasta la memoria, la traccia, il ricordo attraverso gli oggetti lasciati, le cose sono rimaste attraverso questa memoria fisica, toccabile. Ho giocato a ibernare le cose, a fossilizzarle, a bloccarle in una situazione di immobilità estetica”.

La scheda di Arturo Schwarz descrive in dettaglio le componenti e i simboli, sottolineando l’indifferenza fino al disprezzo del giudice verso la donna dietro la grata, la quale rappresenta l’umanità vittima dei soprusi che si estendono alla natura, anche se nell’albero c’è una ambivalenza positiva. “Nessun aspetto positivo, invece, conclude Schwarz, per l’uomo in gabbia, gabbia che sta anche per quella dei ruoli e delle convenzioni. Come nel racconto di Alice nel paese delle meraviglie, possiamo intuire che la pena è pronunciata prima del verdetto”.

Giacomo Balla e Giuseppe Capogrossi

Siamo al “clou”, con Balla e Capogrossi, già citato come frequentatore dello studio di Ferruccio Ferrazzi nell’orto delle Sette Sale: è la grande arte,  dal futurismo  del primo agli “inconfondibili segni” del secondo.

Giacomo Balla venuto a Roma da Torino come “architetto pittore” si stabilisce prima nella zona di Via Veneto, in via Piemonte, poi vicino alla Stazione Termini in via Montebello: vanno da lui Boccioni, Severini e Sironi, poi si sposta in una abitazione in via Salaria, finché il primo vero studio nella casa dove va dopo essersi sposato con Elisa,  in via Parioli, ora via Paisiello, all’angolo con via Porpora, fuori Porta Pinciana, con vista sul verde di  Villa Borghese.

Non è una storia come quelle precedenti in cui gli atelier successivi rispondevano alle accresciute esigenze e possibilità economiche ma restavano “interni d’artista” e niente più. Lui trasforma la casa-studio in laboratorio futurista dove produce arredi e oggetti in carattere con il movimento e ne fa il centro propulsore del futurismo romano, al punto che nella stampa comparivano inviti di questo tono: “Visitate la casa Futurista di Balla ogni domenica dalle 15 alle 19. Via Nicolò Porpora 2, Roma”.  Prampolini, Depero ed Evola tra i frequentatori più  assidui. Francesco Gargiulo la definisce “tutta iridescente e scintillante di colori, di vetri fracassati dal sole, traforata dall’aria e dal cielo azzurro cinguettante”, e il suo studio “ingombro di quadri geniali, di costruzioni dinamiche, di svariate architetture diaboliche, fantastico di ogni magia”.

Poi, in  una sorta di contrappasso, si deve trasferire, perché la casa viene demolita, il quartiere si rinnova all’insegna della modernizzazione accelerata, è “la città che avanza” dei suoi dipinti futuristi.  Prima viene ospitato nella Villa Ambron a Valle Giulia dall’allievo proprietario, poi si sistema nel quartiere Prati, in via Oslavia, in una casa popolare. Vi resterà definitivamente, attrezzando lo studio con gli arredi del laboratorio futurista di via Porpora, insieme alle figlie pittrici Luce ed Elica, i cui nomi evocano la luminosità e il movimento del futurismo.

“La casa di Balla – si legge nella scheda di Elena Gigli –  ai Parioli fino al 1926, poi al quartiere Delle Vittorie,  si presenta sempre come una fucina dove inventare, progettare e realizzare oggetti utili al lavoro ma anche belli e magici”.

Pensando a queste parole, dall’angolo dello studio ricostruito con la sagoma dell’artista che ne fa sentire la presenza si ricava una sensazione particolare:  la Gnam ha molte sue opere  spettacolari esposte in modo permanente, ma quelle inserite in quest’ambientazione hanno un sapore speciale.

Lo stesso avviene per Giuseppe Capogrossi, l’ultimo grande artista con cui si conclude la mostra. Ha vissuto e operato soprattutto a Roma, il primo studio in via Pompeo Magno, all’ultimo piano, all’inizio con lui è Emanuele Cavalli, che poi si sposterà in uno studio vicino tutto suo, si forma uno stretto sodalizio. All’inizio, negli anni ’30, il suo stile è figurativo, una pittura “tonale”  ispirata ai grandi maestri del ‘300-‘400, come Giotto, Masaccio e soprattutto Piero della Francesca.

Dopo un intermezzo di due anni in Umbria, vicino Narni, in cui si dedica al paesaggio dal vero, torna a Roma in uno studio vicino piazza Barberini, in via san Nicola da Tolentino, dove nel dopoguerra andranno giovani pittori come Achille Perilli, Gastone Novelli e Sante Monachesi, impegnati in ricerche d’avanguardia.

“Quello di Capogrossi  – si legge nella scheda di Laura Campanelli –  è un vasto studio al ‘centodecimo scalino’, con una parete interamente vetrata; alcune foto scattate da Ugo Mulas ci mostrano le pareti ricoperte non dai suoi lavori, ma da manifesti di esposizioni”.  

La descrizione fa rivivere l’atmosfera dello studio: “Le sue opere, finite o abbozzate, erano tutte appoggiate a terra, con il retro rivolto ai frequentatori dello studio, quasi fossero ‘quadri in castigo’… Le uniche visibili erano quelle a cui stava lavorando: da queste si intravede il persistere di un metodo rigoroso di progettazione del quadro, anche dopo il passaggio all’arte informale, che dall’inizio degli anni cinquanta era animata dai suoi inconfondibili segni”.

L’ambientazione dell’interno d’artista è ispirata alle fotografie di Mulas, c’è la sua sagoma in piedi davanti al tavolo di lavoro; la Campanelli cita le parole di Capogrossi tratte dall’introduzione a un catalogo di una sua mostra di Lubiana del 1967: “Come nei vent’anni precedenti al mio passaggio dal figurativo all’astratto, il mio lavoro continuava a procedere nella norma seguita dai tempi più antichi: attraverso una serie di disegni, studi (gouaches, acquerelli) di chiarimento per me stesso.”

Composizioni pittoriche con i suoi “inconfondibili segni” sono esposte nelle pareti della sala in cui campeggia il tavolo e la sua figura. Lo studio resterà in via san Nicola da Tolentino, separato dall’abitazione che invece se ne allontanerà spostandosi dalla vicina via Margutta a via delle Terme Deciane fino a via Marco Polo nei pressi della Cristoforo Colombo verso l’Eur.

All’inizio degli anni ’70 si sarebbe dovuto trasferire in quello che fu definito un “meraviglioso studio a Tor San Lorenzo”, per lui “stupendo” perché poteva accogliere i quadri di grandissime dimensioni che aveva in animo di dipingere. Ma muore nel 1972, con i lavori ancora in corso. Alla sua storia personale e artistica questa circostanza aggiunge un ulteriore motivo di riflessione: il pensiero di quali e quanti grandissimi dipinti avrebbe potuto creare nel nuovo studio, chissà quali e quante espressioni ancora più spettacolari di quelle delle opere a noi pervenute avrebbero avuto i suoi “inconfondibili segni”!

Ed è questo il contributo finale, storico-artistico, e anche emozionale, che proviene da una mostra speciale che penetra all’interno del processo creativo attraverso la ricognizione e ricostruzione degli studi d’artista di maestri dell’800-900 in una sede quanto mai idonea: la Gnam con i suoi grandi spazi, le sue esposizioni permanenti, e la sua storia che incrocia  in modo evocativo la grande arte. 

Info

Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, Roma, viale delle Belle Arti, 131. Da martedì a domenica ore 10,30-19,30 (la biglietteria chiude alle 18,45), lunedì chiuso: ingresso mostra-museo, intero  euro 12, ridotto euro 9,50. Tel. 06.32298221; http://www.gnam.beniculturali.it/. Per gli artisti e mostre citati cfr. i  nostri articoli: in questo sito su “Marinetti”  il 14 e 15 gennaio 2014, “Guttuso” il 16 gennaio 2014, “Astrattisti italiani”  il 1° agosto 2013, “Monachesi” il 13 e 18 novembre 2012, “De Chirico” il 20, 26 giugno e 1° luglio 2013; in cultura.inabruzzo.it su “Gente d’Abruzzo” il 10 e 12 gennaio 2011, “Futurismo”  il 23, 30 novembre e 14 dicembre 2012,  “De Chirico”  il 27 agosto, 23 settembre e 22 dicembre 2009.                        .

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante  alla Gnam alla presentazione della mostra, si ringrazia la Galleria con l’organizzazione e i titolari dei diritti per l’opportunità offerta.In apertura, un angolo dell’interno dello studio di Palizzi; seguono  altre ricostruzioni di interni da  Balla a Capogrossi, con due sue opere; in chiusura, la spettacolare ricostruzione della struttura teatrale shakespeariana di Cavaliere.