di Romano Maria Levante
Dal 20 novembre al 12 dicembre 2014 alla Galleria Russo la mostra antologica “Carlo Levi. La realtà e lo specchio”, curata dalla Fondazione a lui intitolata espone circa 60 dipinti del periodo dal 1926 al 1972, ripercorrendone l’itinerario artistico con 40 opere degli anni ’20 e ’30 e le restanti dagli anni ’40 alle due ultime del 1972, due anni prima della morte; con 5 opere inedite. Catalogo della “Palombi Editori” a cura della Fondazione. Dopo aver inquadrato in precedenza la personalità dell’artista, passiamo alla rassegna delle opere con altri giudizi e testimonianze.
Una personalità poliedrica, quella di Carlo Levi, nella quale è intrigante cercare di cogliere i confini e insieme le correlazioni tra le molteplici espressioni in un percorso di vita movimentato cui si è accompagnato un percorso artistico che ha visto una continua evoluzione tra le tante avanguardie, pur mantenendo il rigore e la coerenza stilistica. Ha partecipato al fervore delle tante correnti che si sono succedute ma non ha aderito compiutamente ad alcuna, inserendo di volta in volta nuovi elementi nella sua pittura senza mai snaturare la sua peculiare forma espressiva e senza venir meno ai suoi contenuti.
Ne abbiamo parlato in precedenza con l’ausilio delle interpretazioni di un critico come Fabio Benzi e del presidente della Fondazione a lui intitolata Daniela Fonti. Preparandoci alla visita alla mostra delle 60 opere esposte, torniamo su questi temi con la testimonianza dei suoi galleristi storici, Antonio ed Ettore Russo, esponenti della prestigiosa galleria che ha avuto l’esclusiva di de Chirico per vent’anni. Ebbero in Carlo Levi una totale fiducia sempre ricambiata, ne è una manifestazione la lettera che l’artista scrisse loro il 7 dicembre 1970, accettando di presentare i suoi quadri in una mostra antologica per inaugurare la loro nuova galleria “Gradiva”.
L’arte di Levi nella testimonianza di Antonio ed Ettore Russo
“La vita intesa come scoperta di verità e conquista di libertà è sempre stata al centro degli interessi artistici ed umani di Carlo Levi”, esordiscono i galleristi, affrontando subito la correlazione tra i suoi diversi percorsi, quello letterario e politico-sociale e quello artistico. “Ha mantenuto integra, e arricchita, la sua carica vitale, di pittore e di scrittore, e perciò di poeta, creatore di contenuti umani e di civiltà. Ed è evidente che in tal senso ogni vero artista si sente sempre responsabile dinanzi alla società e alla cultura del suo tempo, e soprattutto al futuro che egli anticipa”. Pertanto “l’artista può così liberarsi, senza difficoltà di sorta, da ogni bagaglio intellettuale, sino al punto di non far più sussistere alcun punto di demarcazione tra l’umanesimo dello scrittore e la sensibilità del pittore. Ragione e fantasia si fondono felicemente in una direzione di ricerca che diventa positiva conquista per una pittura che vive autonomamente”.
E’ il motivo per cui “la sua pittura, fin dagli esordi, non è mai stata soltanto una contrapposizione polemica, pittorica o sociale, agli indirizzi dominanti, ma una viva e potente affermazione di valori nuovi, di una nuova unità dell’uomo”. Non ha aderito alle avanguardie e correnti stilistiche succedute nel tempo, pur essendo stato molto attento all’evoluzione artistica e ai contatti a livello europeo dall’osservatorio privilegiato di Parigi, e ha dato una insegnamento valido anche oggi “a tutti, e particolarmente ai giovani, contro i nuovi conformismi, fiducia nell’originalità dell’atto creativo e nell’autonomia dell’esperienza individuale nella infinità dei rapporti che si formano con la realtà universale”.
La sua attenzione alla realtà come fonte di ispirazione e trasfigurazione non deve, però, confinarlo nel realismo del dopoguerra, anche se partecipò alla reazione all’astrattismo con Renato Guttuso esponente di punta; altrimenti non si coglie quella che i Russo definiscono “la forza e la bellezza di questa pittura che ha un’importanza così determinante nel rinnovamento dell’arte, e non soltanto nel nostro paese”.
Perché “Carlo Levi è il portavoce di un nuovo umanesimo che ha profonde radici nella storia… ci riporta all’origine e alla ragione delle cose, in un racconto che non ha nulla di veristico ma che sta per noi tutti in una dimensione più veritiera del vero apparente”. Ciò è il frutto della “capacità artistica di Carlo Levi di evocare la realtà, scardinandola nelle sue più intime strutture, a volte anche lacerandola e ricostruendola in una nuova unità”. In questo modo “qualche cosa di ‘mitico’ si sprigiona dalle tele di Carlo Levi, che ha il privilegio di collocare il proprio io a diretto contatto con la realtà in sé, costituita non soltanto da forme e fenomeni, ma da idee che si nascondono in questa stessa realtà. E Carlo Levi , con la sua presenza riscatta e qualifica, umanizzandolo, il mondo reale”.
Un realismo e un umanesimo che è insieme tormento ed estasi, vissuti attraverso i soggetti in modo intenso. “L’artista ‘codifica’ così un suo essenziale colloquio con le cose, riportandoci alle fonti primarie dell’esistenza; quelle fonti che, al di là della configurazione esteriore, hanno la loro radice sempre nel cuore dell’uomo”. Il tutto in una “ridondanza cromatica che non è tuttavia fine a se stessa, ma al contrario, nella resa finale, libera il colore da ogni peso fisico, lo spiritualizza, in breve lo emargina da ogni prigionia puramente fenomenica”. In tal modo i suoi soggetti “ci danno la chiara sensazione del dramma dell’uomo, dell’essere combattuto tra il bene e il male, tra cadute angosciate e desiderio di liberazione. Ma il risultato finale, concluso nell’unità armonica di ogni quadro, è sempre un superamento del contingente, per cui non è azzardato affermare che secondo l’idea hegeliana l’arte di Carlo Levi – pittore, scultore, uomo del nostro tempo – si risolve sempre, attraverso una prospettiva di impegno poetico, in un offrire ‘l’idea della bellezza nel suo dispiegarsi’ o piuttosto l’immagine della realtà nel momento stesso del suo nascere e formarsi”.
Per concludere: “Quindi un’arte dinamica e aperta e sempre nuova, e, perché tale, sostanziata dal ‘vivente’ che circola nella forma e la chiarisce, sottraendo il fare dell’artista al caos, all’improvvisazione, alla provvisorietà”. In un contesto dove tutto, dalla pittura alla letteratura all’impegno politico e sociale è sotteso da una forte tensione civile e morale.
Le opere in mostra: dagli anni ’20 ai primi anni ‘70
Dei “volti, natura, cose”, in cui Guttuso riassumeva i soggetti della pittura di Levi, in mostra vediamo la grande prevalenza dei volti e delle figure umane, con una significativa presenza anche della natura, per le cose abbiamo soprattutto delle nature morte, in cui si rifugiava nelle fasi difficili e angosciose. Così i Russo riassumono la sua maestria compositiva e cromatica nell’intensità dei contenuti: “In un intreccio di foglie e di rami, in una sinuosa compenetrazione di volti, in un fluido gioco di mele e aranci la pittura di Carlo Levi ci riporta alle fonti originarie di un’esistenza, ove la gioia di vivere si traduce in fragranza di colori”.
La “natura” è rappresentata con un “pennellare largo e succoso” dal quale nasce un “ritmo evocativo di simboliche figurazioni che stanno di per sé al di là della semplice raffigurazione esteriore”. E anche le consuete visioni mediterranee di luoghi a lui cari “lasciano immaginare un mondo esotico, forse una vegetazione di terre inesplorate”.
Nella prevalenza dei “volti” si riflette la sua concezione del tempo e dell’arte. Il tempo, ha scritto lui stesso, quando è quello esterno, storico, appare “pieno di avvenimenti e di fatti, travestiti ciascuno con la maschera credibile della necessità, ma vuoto di realtà; perché questa risiede in un altro tempo, quello occupato dagli affetti e dalle persone, e persino dall’espressione dei dolori che noi soli possiamo sentire”.
Sono gli opposti compresenti, e “in questo ‘dibattito’ dialettico tra l’uomo e l’esistenza, tra l’io e le cose, l’artista ci mostra tutto il suo animo inquieto, in un tormento che prelude al riposo e nella stesso tempo sottintende nuovi cimenti”. E’ stata l’avventura della sua vita nel tumulto degli avvenimenti con lui sempre partecipe e spesso protagonista, ma in un distacco legato ai propri valori perenni e universali.
Degli anni ’20 sono esposti 11 dipinti di “volti” e persone, alcuni con forme nitide e ben definite, altri sfumati ed evanescenti, per lo più persone care. Tra i primi “Amalia sulla panchina di Alassio” e “Il padre a tavola”, 1926, “Francesca”, 1927, e “Pina Jona ad Alassio”, 1929; tra i secondi “Bagnanti”, 1926 e la sorella minore “Lelle con libro e tazza di te”, 1928, “Mamma che cuce” , inedito,e “Donna con maschera rosa”, 1929. Poi tre nudi, uno del 1928 .“Nudo con palme”, molto sfumato immerso in un palmizio che gli fa corona, e due del 1929, “Nudo con arco”, ben definito e sensuale, “Nudo con la sedia” più sfumato, e con richiami a Tagore, oltre che a Modigliani e Soutine.
Nello stesso decennio 7 dipinti sulla “natura”, non solo paesaggi ma scorci urbani dove la natura è ben presente. Così per “Le officine del gas”, “La Dora al Ponte Rossini” e “La via delle palme”, 1926, e per due scorci di “Parigi. Quai sulla Senna”, 1927, e “Parigi”, 1928. I paesaggi hanno per lo più una sia pure minuscola presenza umana, come “Merenda sull’erba”, 1926, e “Paesaggio”, 1929. In “Le vele”, 1929, un’atmosfera sfumata, soffusa e delicata, un senso lirico reso da una pennellata leggera, impalpabile.
Siamo agli anni ’30, i “volti” ancora prevalenti, li vediamo in 16 dipinti. Lo stile muta notevolmente, né contorni netti né evanescenti e sfumati, bensì un cromatismo intenso e un forte spessore materico. Rappresenta figure a lui care, cominciando dai suoi amici artisti e intellettuali come Aldo Garosci, nel dipinto intitolato “L’eroe cinese”, 1930-31, per un’acrobatica associazione di idee; poi “Ritratto di de Pisis col pappagallo”, che ha nel petto tante medaglie alla Baj, e “Leone Ginzburg con le mani rosse”, 1933; c’è anche un suo “Autoritratto seduto”, 1934, inedito, da giovane con espressione malinconica, quasi in un’autoanalisi.
Delle donne a lui vicine, nei dipinti del 1933 ritroviamo la sorella “Lelle col cappellino”, e “Lelle legge distesa”, immagine delicata pur nel forte cromatismo, cui accostiamo, per la posizione, “Donna distesa”, che ritrae la domestica Maddalena; poi “Vitia rosso e azzurro” , è la ballerina lituana conosciuta a Torino con cui si unì a Parigi e frequentò la comunità artistica degli italiani e degli emigrati russi. Del 1935 “Ritratto di Deda Rollino”, che gli fu vicina nel “gruppo dei Sei” a Torino e poi anche a Roma, è ritratta in posa austera, impettita su una poltrona; quindi “La Strega e il bambino”, 1936, ritrae Giulia Venere, la donna che accudiva la casa con il figlio, dedita alle arti magiche, di qui il titolo; vi colleghiamo due immagini di bambini, “Tonino o Ragazzo lucano”, 1935, e “Il figlio della Parroccola”, 1936, il primo figlio del sarto, il secondo di una contadina del paese, sempre con tratti marcati e cromatismo intenso. Del 1938 “Ritratto di Paola con vestito fiorato”, uno dei tanti ritratti di Paola Levi con cui ebbe un rapporto affettivo, è ripresa di profilo in un’immagine trasognata. Senza nome solo “Ritratto di donna”, 1932-33, dal colore avvolgente, non si è potuto identificare il soggetto, certamente da lui ben conosciuto.
Tre nudi nelle opere di questo decennio: “Nudo femminile”, 1934, inedito, che ci ricorda, pur nelle notevoli differenze, la “Madonna” di Munch; “Nudo femminile accovacciato”, 1937, inedito, e “Due nudi”, 1938, il primo con una pennellata densa, il secondo alla Rubens dal tratto leggero, ma con l’inquietudine per la presenza di una terza figura distesa da un lato e assorta nei propri pensieri, mentre le due donne nude cui il suo viso è rivolto, incuranti dialogano tra loro.
E la “natura”? Tre dipinti, uno del 1935, “Dietro Grassano”, e due del 1936, “Paesaggio rosa – Alassio” e “La casa sotto la pineta”, il primo del paese in cui fu mandato al confino, gli altri due nella Alassio che definiva “mia madre”, al ritorno dopo la liberazione dei confinati politici. La natura trionfa nelle sue pennellate, questa volta dal cromatismo delicato.
Intensi i colori nelle nature morte, le “cose” peraltro vicine alla natura. Ne sono esposte tre, di un periodo nel quale ne realizza numerose: del 1930 “Natura morta con vaso di fiori e frutta”, del 1932 “Natura morta con bottiglia” , e “Natura morta con boccale di frutta”, di grande equilibrio compositivo e cromatico; nelle prime due i frutti spiccano ben distinti, nella terza sono compenetrati in uno stile sinuoso.
Le tematiche negli anni ’40 sono rappresentate soprattutto da 4 dipinti di “volti”. Nel 1941 il “Ritratto di Eugenio Montale”, nel 1942 di “Cesare Brandi” e di “Carlo Emilio Gadda”, le espressioni sono via via più pensierose, e nel suo “Autoritratto” del 1945 dai tratti del volto su fondo cupo traspare tutta l’angoscia della guerra, le cui atrocità sono nel corpo straziato a terra del dipinto “La guerra partigiana” del 1944. C’è anche il dipinto “Due nudi”, 1947-48, più marcati di quelli del 1938, la rotondità alla Rubens è questa volta scolpita con forti pennellate.
Alla guerra, o almeno al potere, fa riferimento “Pesci (Pesce grosso mangia pesce piccolo)”, 1945, con un senso di allucinazione, che aleggia anche in “Funghi giganti”, realizzato nel 1947 insieme ad altre nature morte.
Tra le opere esposte per gli anni ‘50 troviamo una dipinto che è una folla di “volti”, “Lamento per Rocco Scotellaro”, 1953, l’amico poeta e scrittore morto trentenne, in una sorta di sacra rappresentazione come una Deposizione, la madre e le donne piangenti e il volto di Levi inserito come faceva Caravaggio; poi un “volto” solo, il “Ritratto di Wright”, 1956, il celebre architetto si recò da lui in “una mattina caldissima di luglio”, non ebbe il tempo per ritrarlo a figura intera, “come un’alta quercia”, ma ne rese “l’aspetto arcaico e impenetrabile”.
Non sono presentati, per tale decennio, dipinti sulla “natura”, che invece sono la totalità di quelli esposti per gli anni ’60: da “Paesaggio con mucca”, 1960, inedito, puntiforme e brillante come un caleidoscopio, ad “Alberi e pergolato di Alassio”, 1963, e “Bosco”, 1960-65, con la ricomposizione nel verde, mentre “Conigli”, 1965, è una composizione animata dove si sente la presenza della natura.
Fino alla trilogia del 1970-72, “Carrubo con scaletta ad Alassio”, “Carrubo gigante” e “Carrubo”, che fa parte dei moltissimi suoi dipinti di alberi e di paesaggio di quegli anni, di cui Antonello Trombadori scrisse: “Esso è, sì, veduta e scenografia, vale a dire puntualizzazione naturalistica e ricostruzione fantastica di un luogo, ma è essenzialmente biografia, diario di ciò che nel paesaggio accade”; visto in modo che “non sia il suo stato d’animo a possedere sentimentalmente quei luoghi ma siano i luoghi a possedere il sentimento dell’artista”. Così la scala che segna la presenza umana è parte della natura, e i due carrubi sono figure miriche, dai tratti antropomorfi. Per Fabio Benzi “i tronchi contorti degli alberi divengono metafore di esistenze legate alla terra, con le loro sofferenze immutabili, con la loro espressività corporea e carnale, mai accentuata da un’espressività facile e psicologica”.
Le risposte di Carlo Levi valide ancora oggi
“Felicità e tormento” vi vedono Antonio ed Ettore Russo, “il particolare cessa di esistere come tale, assurgendo a ‘specchio’ di una dimensione ideale che in sé vuole come inglobare tutto l’universo… Dionisiaca si potrebbe pertanto definire la pittura di Carlo Levi per questa esuberante concezione del mondo che si inebria di valori vitali e al contempo chiede continuo alimento sia ai fenomeni naturali sia ai fatti esistenziali”.
Di qui la compresenza insistita e reiterata dei soggetti a lui cari, dai “volti” alla “natura” fino alle “cose”, le nature morte. Ma non c’è solo vitalità, c’è anche “un sottinteso invito alla contemplazione, quasi che l’artista, pago dell’umano possesso delle cose, voglia sollecitarci a rimeditare sui valori intrinseci delle cose stesse, per afferrarne i più nascosti significati”. Per concludere: “Di conseguenza il ‘dionisiaco’ si fonde con l’elegiaco, mentre nell’osservatore la stessa ‘tensione psichica’ a poco a poco si risolve in soffuso raccoglimento”.
L’ambiente raccolto della Galleria Russo lo favorisce, del resto lo stretto rapporto del luogo con l’artista porta a un’immedesimazione fuori dal tempo e si crea un clima fortemente suggestivo.
Rivelatori i suoi scritti, tra i quali ricordiamo la lettera ai galleristi del 7 dicembre 1970, prima citata, perché ci è sembrata una sorta di testamento spirituale, spaziando nell’intero arco della sua vita. Infatti nel definire “Paura della Pittura”, da lui scritto nel 1942 “quasi come continuazione e corollario” del suo precedente “Paura della Libertà”, afferma che “quello scritto, mi sembra, non ha alcun bisogno di essere aggiornato. E tuttavia sono passati, da allora, 30 anni, due generazioni (o più, per il raccorciarsi del tempo); un tempo così fitto di mutamenti, che nulla è rimasto, si può dire, quello che era”. L’elenco che fa dei cambiamenti è impressionante, dalla guerra alla pace nell’infinità di eventi che hanno sconvolto il mondo, con “una vitalità immensa e creativa; e nello stesso tempo la distruzione di tutti i rituali e di tutti gli idoli, anche i più apparentemente legittimi, anche quelli che avevano avuto una funzione rinnovatrice e rivoluzionaria”.
Levi stesso afferma che “il fondo di queste esperienze va al di là dell’arte”, così la sua riflessione acquista un respiro storico. In campo artistico tanti sono stati i mutamenti, i fermenti creativi delle avanguardie che “hanno scandagliato tutte le profondità, esplorato tutte le superfici, penetrato in tutte le cavità, scalato tutte le asperità”, indagato sulle possibilità di tutti i linguaggi e di tutte le prospettive “in tutti gli aspetti visibili e invisibili del mondo e del pensiero” con uno scopo ben preciso: “Riscoprire una qualità, un attributo, una categoria perduta fin dal principio, e negate o dimenticate o censurate prima che esse potessero riaffiorare alla coscienza”. Risultato: in questa ricerca affannosa è stato distrutto l’esistente per subire poi la stessa sorte, nessuna avanguardia e neppure il grande Picasso si sono salvati.
E allora si pone una domanda quasi disperata: “Dopo tanti anni di ricerca di tutte le parole pittoriche, che cosa resta, dunque, oggi da dire? O che cosa da tacere o non dire più?”. La risposta è chiara e solare: “Tutto, in ogni più grande o piccolo momento, in ogni minima, o massima, espressione. Tutta la realtà umana in ogni singola verità. Non è poco, non è facile”. E cita la risposta che nel 1911 diede da giovane Umberto Saba alla domanda analoga “che cosa resta da fare ai poeti”: “la poesia onesta”, dando ad essa lo stesso contenuto – “onestà come rivoluzione” – della sua risposta sulla pittura di cui ribadisce, nel dicembre 1970, la validità dopo trent’anni.
Sono trascorsi altri 45 anni, ma si può convenire sull’affermazione che il suo “Paura della pittura” “possa, ancora oggi, avere una qualche utilità e essere riletto, senza bisogno di chiose e di aggiornamenti, ma soltanto di qualche aggiunta di attenzione attuale e di meditazione”.
E si può convenire altrettanto sulla considerazione, sempre della lettera ad Ettore e Antonio Russo, riferita alla mostra di allora ma perfettamente aderente alla mostra di oggi, di nuovo alla Galleria Russo: “E spero che questa raccolta di quadri miei di tempi diversi, che voi esponete, non esca da questa visione del valore e del senso della pittura, ma possa in qualche modo, anche nella sua limitatezza, contribuire a confermarla e a dimostrarla”.
Ci sembra la migliore conclusione del nostro viaggio nel mondo di Carlo Levi. Non si è fermato al pur prestigioso Eboli letterario, ma ha lasciato il segno nell’arte ponendone in evidenza i valori permanenti in un mondo inquieto e sconvolto da una incessante trasformazione che rischia di travolgere tutto con la sua furia iconoclasta. Si deve far tesoro del messaggio che ci manda il grande artista, lo ripetiamo. Va ricercata “in ogni più grande o piccolo momento, in ogni minima, o massima espressione” una cosa: “La realtà umana in ogni singola verità”.
Info
Galleria Russo, via Alibert 20, Roma. Lunedì ore 16,30-19,30, da venerdì a sabato ore 10,00-19,30, domenica chiuso. Ingresso gratuito. Tel. 06.6789949; 06.69920692. info@galleriarusso.com; www.galleriarusso.com . Catalogo “Carlo Levi. la realtà e lo specchio”, a cura della Fondazione Carlo Levi, contributi di Daniela Fonti, Fabio Benzi , Antonella Lavorgna, Palombi Editori, novembre 2014, pp. 192, formato 22 x 22; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Il primo articolo “Carlo Levi, specchio della realtà alla Galleria Russo”, è uscitoin questo sito il 28 novembre u. s. con altre 10 immagini. Per gli artisti citati cfr., in questo sito, i nostri articoli sulle mostre di Renato Guttuso, il 25 e 30 gennaio 2013, di Modigliani, Soutine e i pittori maledetti il 22 febbraio, 5 e 7 marzo 2013, degli Astrattisti italiani il 5 e 6 novembre 2012, di Tagore il 15 ottobre 2012, di Picasso, cubismo e cubisti il 16 maggio 2013, Due mostre a Roma tra il sacro e il profano in “cultura.inabruzzo” it, il 4 febbraio 2009. Su de Chirico, in questo sito, per la mostra sul Ritratto il 20, 26 giugno e 1° luglio 2013, in “cultura.inabruzzo.it” per le mostre su De Chirico e la natura l’8, 10 e 11 luglio 2010, anche a stampa su “Metafisica” n. 11/13 del 2013 pp. 403-18, su De Chirico e il Museo il 22 dicembre 2010, sul Disegno di de Chirico il 27 agosto 2009, su De Chirico ed altri grandi artisti italiani del ‘900 il 23 settembre 2009.
Foto
Le immagini sono state riprese alla Galleria Russo, la sera dell’inaugurazione della mostra, da Romano Maria Levante che ringrazia la galleria e la Fondazione Carlo Levi per l’opportunità offerta. In apertura, “Autoritratto seduto” , 1934, seguono “Il padre a tavola”, 1926, e “Donna con maaschera rosa””, 1929; poi “Nudo con la sedia”, 1929, e “Donna dormiente”, 1933; quindi “Nudo femminile”, 1934, e “La casa sotto la pineta”, 1936, inoltre “Pesci”, 1945 e “Carrubo”, 1972; in chiusura, due nature morte, a sinistra “Natura morta con boccale di birra”, 1932, a destra “Amoroso contrario di Morandi”, 1937.