di Romano Maria Levante
Al Vittoriano, dal 4 ottobre 2014 all’8 febbraio 2015, la mostra antologica “Mario Sironi. 1885-1961” espone 140 opere dei vari periodi della sua vita artistica. Abbiamo già ripercorso la parte iniziale fino al 1920, dopo averne delineato la figura di uomo e di artista nel segno della tragicità e della grandezza. Realizzata da “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, a cura di Elena Pontiggia che ha curato anche il Catalogo Skira, con l’Archivio Sironi di Romana Sironi.
L’itinerario artistico e umano dell’artista lo ha visto nella prima gioventù con alcune opere presentate per la prima volta in mostra, a partire da quella che dipinse sedicenne. Poi l’excursus tra simbolismo e divisionismo, e un primo approdo al futurismo per l’amicizia nata con Boccioni e Severini e i contatti con Balla, impegnandosi sui suoi motivi tipici, come la città moderna e i mezzi di trasporto senza peraltro recepire i temi del movimento e della velocità in contrasto con la staticità e solidità dei suoi volumi; caratteri questi che trovò nella metafisica alla quale si ispirò nei suoi paesaggi urbani dove, oltre alle costruzioni dechirichiane, aleggia anche l’atmosfera sospesa.
E’ peraltro tipicamente novecentista la solidità costruttiva e architettonica che troviamo anche nelle opere di matrice futurista, e lo vediamo ancora di più nelle numerose opere esposte degli anni ’20.
Il “Novecento” e le opere classiciste
Negli anni ’20, scrive Elena Pontiggia, “è un artista che crea continuamente nuove immagini, ma al tempo stesso rielabora ostinatamente le precedenti accostando ricerche stilistiche anche molto diverse”. Per cui insieme ad opere di stile classico sono compresenti opere di stile futurista e anche espressionista; neppure i temi raffigurati sono univoci, anche qui una compresenza di soggetti. Si alternano figure solenni e figure pensose, figure allegoriche e figure realistiche che esprimono dolore e sofferenza.
In questo periodo c’è il “ritorno all’ordine”, il classicismo bandisce ogni improvvisazione e rifugge dall’immediatezza per lo studio e l’applicazione; l’ispirazione viene dai modelli classici, ma vi sono anche elementi metafisici, pur se con diversi significati, che diventano simboli pure platonici.
Del 1920-21 l’antologica presenta una ricca serie di “Paesaggi urbani”. Ricordiamo che questo tema coincide con il suo trasferimento definitivo a Milano nel 1919, città industriosa e dinamica, così diversa dalla Roma classica e tranquilla, per di più in quel periodo agitata dalle tensioni sociali del primo dopoguerra, che sfociavano in tumulti sociali. La periferia lo colpisce con la sua solitudine e desolazione, ed è questa la Milano da lui rappresentata, così diversa dalla Roma umbertina che si trova in alcuni suoi dipinti giovanili.
Il paesaggio urbano non fa più da sfondo ai soggetti in primo piano, ma diventa protagonista, e che protagonista! La Pontiggia si esprime così: “Dal trauma della realtà milanese, e di una Milano che non è più la città euforica del 1915 ma la capitale di un dopoguerra senza pace, nasce una delle pagine più alte della pittura italiana, e non solo italiana, dell’epoca”.
Sono paesaggi di desolazione e solitudine, che esprimono la propria visione pessimistica, pur temperata dalla volontà di reagire. Abbiamo già ricordato che Margherita Sarfatti vi vede la trasposizione dello squallore delle periferie in forza e grandiosità, ordine e armonia, quasi non fosse la visione pessimistica dell’artista a rendere cupa la scena, ma la realtà urbana che lui poi illumina.
Dal punto di vista stilistico con queste opere riafferma il prevalere delle sue concezioni volumetriche ed architettoniche sulle spinte alla scomposizione e al dinamismo delle correnti che lo hanno influenzato, dal divisionismo al futurismo con i passaggi metafisici, facendogli introdurre nuovi elementi ma senza sconfessare la matrice prima del suo stile.
I “Paesaggi urbani”
Vediamo, del 1920, 4 paesaggiurbani con i tipici veicoli della vita cittadina. “Paesaggio (Paesaggio urbano con camion)” è uno dei primi e l’unico datato con certezza. Sono grandi caseggiati senza tracce di vita, strade senza alberi né passanti, una ciminiera, la composizione è immersa nella più assoluta staticità in un clima metafisico sospeso di chiara ispirazione dechirichiana, ma con l’impronta della propria solidità architettonica. E il futurismo? E’ nella sagoma del camion che attraversa l’incrocio e nel fumo che esce dalla ciminiera, espressioni della frenetica attività cittadina; ma il fumo sia pure dalle locomotive era un “imprinting” delle piazze di de Chirico ben conosciute da Sironi.
Analogamente il “Paesaggio urbano con taxi“, qui come in “Il camion giallo” il taxi occupa trasversalmente la strada quasi bloccandola ed è bloccato a sua volta in una staticità forzata dove non c’è più il dinamismo del movimento; il veicolo è semplificato per accentuarne la solidità geometrica, mentre gli edifici pur in secondo piano, si impongono per la loro solidità nella loro primitiva collocazione prospettica: è la costruttività cara a Sironi, anche qui strutture e atmosfera sospesa di tipo metafisico.
In un secondo “Paesaggio urbano con camion” le forme degli edifici, pur nella loro solidità, si rarefanno e si rimpiccioliscono nello sfondo lontano dove il dinamismo operoso è riassunto da una gru, c’è un camion che passa su una strada ma questa volta senza bloccarla, tutt’altro, si perde nella vastità della scena, schematica e geometrica: è “la compostezza e sobrietà squadrata e semplice” apprezzata dalla Sarfatti come lascito dell’antica classicità.
Con “Il tram” la compresenza di motivi futuristi e metafisici è evidente, il tram elettrico era la modernità dopo quelli a vapore, c’è anche l’autovettura, cosa si vuole di più per esprimere il motivo futurista? Ma il tram che blocca l’auto e gli edifici sul fondo riportano alla staticità e alla solidità in una composizione in cui aleggia l’atmosfera metafisica.
A queste opere dalla forte analogia tematica e compositiva ne seguono 3 anch’esse esposte in mostra, riferite al 1921, che raffigurano visioni urbane molto diverse: non ci sono più veicoli e neppure caseggiati con i riquadri delle finestre.
“Sintesi di paesaggio urbano” è privo di qualsiasi elemento riconducibile alla realtà, sono forme architettoniche semplificate e ridotte all’essenziale fino a perdere il senso della loro funzione, pareti senza aperture come in un’acropoli inaccessibile, gli angoli netti e senza curve: ci sono le ombre nette e anche “la preziosità del mezzi toni dorati” di cui ha parlato la Sarfatti. E’ lontano dai paesaggi urbani, per cui è centrato il titolo in cui si sottolinea il concetto di sintesi, il dipinto esprime con efficacia l’impianto costruttivistico novecentista senza interferenze figurative.
Invece “Il molo” presenta tutti elementi reali, ma realizza ugualmente una sintesi essenziale senza particolari descrittivi incentrata su pochi elementi, nella semplificazione novecentista. C’è una lunga costruzione con quattro piccolissime finestre, e in alto sullo sfondo un normale caseggiato, poi la direttrice del molo “dove un cavaliere senza nome procede solitario – scrive la Pontiggia nella scheda del Catalogo – come un Guidoriccio da Fogliano metafisico, verso un luogo misterioso e un misterioso destino”.
La terza opera del 1921 esposta è “La cattedrale”, ugualmente c’è la semplificazione, nessun orpello nella chiesa come nel piccolo campanile e battistero di piccole dimensioni visibilmente sproporzionate rispetto alla grande cupola di cui vuol far risaltare l’imponenza come espressione della forza del sacro. Richiama quella di Santa Maria del Fiore a Firenze nella sua essenzialità costruttiva, che aveva visto in un viaggio nella città del 1908; la Pontiggia riporta le parole eloquenti su Brunelleschi scritte dall’artista quasi 30 anni dopo, nel 1950: “La sua legge è l’armonia; una musicalità dello spirito costruttivo – edifica su rapporti armonici su astratte invenzioni di spazialità geometrizzata”.
Le figure solide e armoniose
Siamo al 1922, anno chiave per l’avvento del fascismo: il 7 dicembre, festa di Sant’Ambrogio, viene fondato a Milano il “Novecento italiano”, appoggiato da Margherita Sarfatti, Sironi vi partecipa subito come caposcuola nel segno di una “classicità moderna” basata su volume e peso, proporzioni e prospettiva, nonché sulla prevalenza della figura umana sugli altri soggetti e del disegno sul colore. “L’estetica platonica, ellenica – scriverà poi – è fatta soprattutto di compostezza e di equilibrio”.
Troviamo figure solide nelle sue opere del periodo, come in quelle di Carrà e De Chirico, ma le sue non hanno più matrice metafisica bensì esprimono questa ricerca di compostezza ed equilibrio, in definitiva di armonia, per riflettere i ritmi naturali: studia la sezione aurea e le proporzioni ritmiche.
Le sue sono “misure istintive”, per dare ordine ed equilibrio. “Anche per questo – secondo la Pontiggia – la pittura sironiana non è mai completamente espressionista nemmeno nei momenti di maggiore pathos: perché la sua tensione drammatica non esclude un presentimento di armonia” . Ma c’è anche il risvolto: “Il suo sarà sempre un pitagorismo doloroso, dove i ritmi armonici non escludono una dimensione tragica, anzi si caricano di presentimenti allarmanti”.
La maturità espressiva e compositiva si manifesta con uno dei suoi capolavori, “L’architetto”, 1922-23, raffigurato nel suo studio ricco di numerosi elementi simbolici: dalla colonna col capitello corinzio al pilastro, dalla porta al vaso; lo sguardo non è rivolto alle carte davanti a lui ma a un orizzonte lontano, per il significato che l’artista gli attribuiva, non solo progettista di edifici, ma costruttore di città e della stessa Nazione.
Altrettanto espressiva “Venere”, 1923-24, in cui rifulge la sintesi compositiva nelle linee nette e nel rilievo della figura con il seno nudo tratta dal mito ma attualizzata in un’ambientazione moderna in cui invece della mela c’è un fruttiera con diversi frutti, un pomo ma anche un grappolo d’uva. Di classico c’è una testa scolpita su un pilastro, con cui sembra confrontarsi la figura in una posa statuaria. “Corpo vivo e scultura allora si confondono – commenta la Pontiggia – in una metamorfosi di ascendenza metafisica che preannuncia già il realismo magico”.
Scultorea anche “Solitudine”, 1925, stesso seno sinistro nudo, sembra la Venere disposta di profilo, la veste bianca invece che nera, l’espressione non è assorta ma severa, riflette l’isolamento quasi claustrofobico come in un maniero con uno stretto arco dechirichiano dal quale guarda fuori in attesa di qualcosa o di qualcuno. Più che il lato psicologico viene apprezzato il lato compositivo, la forma architettonica dell’ambiente, la solidità e compattezza dei volumi.
Nello stesso anno un’altra figura di “Architetto”, 1925, meno intensa della precedente ma con una sua nobiltà che richiama il “ritorno all’ordine” nella nuova centralità della figura umana dopo le deformazioni delle avanguardie. Ad essere deformata è l’architettura con l’accostamento anomalo di una colonna sotto a un arco senza alcun motivo, vi viene vista l’espressione del “realismo magico”. La figura e l’ambiente hanno comunque un che di metafisico.
Con “Il pescivendolo”, 1925-26, nobilita il lavoratore di un mestiere ritenuto umile, in una straordinaria finezza di lineamenti nel profilo da scultura greca. Il corpo nudo fino alla cintola è statuario, spicca sul vano chiaro della finestra, sul banco dove appoggia le mani si vedono delle forme confuse, il pesce. E’ un’evoluzione del precedente “Il povero pescatore”, 1925, non in mostra: stessa figura statuaria a torso nudo forse più imponente, in basso si intravede la rete dei pesci, lo sfondo questa volta è nero.
Partecipa ad una serie di mostre con gli altri “Novecentisti”, dalla Biennale di Venezia del 1924 alla Biennale romana del 1925 con “Il povero pescatore”, nel 1026 mostre a New York e a Parigi con gli altri artisti italiani contemporanei, poi il rifiuto ad altre esposizioni, tanto che nella mostra dei “quindici artisti del Novecento” a Milano nel 1927 furono presentati solo “quattordici artisti” per la sua defezione all’ultimo momento; ma partecipa alle mostre di Ginevra con 9 opere e di Amsterdam con 2 quadri. Nel 1928 partecipa a due mostre collettive a Milano ma rinuncia alle mostre del “Novecento” ad Amburgo, Lipsia e Madrid.
Motivo di queste rinunce? Crisi depressive ed eccesso di impegni legati al ruolo assunto da “Novecento” di cui è il massimo esponente, con la Sarfatti: entra nel direttorio del Sindacato artisti e nelle giurie, scrive critiche d’arte sul “Popolo d’Italia”, cura gli allestimenti di esposizioni e i padiglioni per mostre internazionali, lavora per il teatro, fa l’illustratore e il grafico, mentre continua ad impegnarsi per “Novecento”. Realizza così – commenta la Pontiggia – “il sogno dell’artista completo che è insieme pittore, scultore, architetto, decoratore e scenografo”.
Il nuovo paesaggio urbano e il paesaggio montano
Tra il 1926 e il 1928 torna il paesaggio urbano, con temi legati al lavoro. “Paesaggio urbano”, 1926, presenta la consueta solidità volumetrica nelle case contadine non allineate come nelle altre raffigurazioni, ma sfalsate, in una semioscurità rischiarata da due fonti luminose: il mantello del cavallo che sulla sinistra traina un carretto immerso nel buio e la facciata di una casetta in lontananza, sotto un’alta ciminiera all’estrema destra. E’ come se fossero i poli di due realtà opposte, la civiltà contadina che si allontana e la modernità industriale che resta padrona del campo. In “Paesaggio urbano con ciclista, 1928-30, non in mostra, l’ antinomia sarà tra carretto e ciclista.
Prima di questa diversa raffigurazione della contrapposizione tra tradizione e modernità ci sono opere sul tema in cui sembra passare il Rubicone della modernità per sposarla senza riserve, cosa che può sorprendere in un artista così legato alla classicità e refrattario alle avanguardie.
In un altro “Paesaggio urbano”, 1927, occupano gran parte del quadro 4 gigantesche ciminiere che si stagliano come delle torri su 2 volumi scuri e squadrati; al loro fianco un caseggiato bianco in forma prospettica che richiama la casetta dell’opera del 1926, anche in quel quadro sovrastata dalla ciminiera. A questo dipinto viene accostata una tavola del 1925 per la pubblicità e una dello stesso anno per “Il Popolo d’Italia” ad esaltazione del modernismo incalzante. L’attenzione volumetrica e architettonica dell’artista è evidente nelle linee ortogonali e nella vertiginosa verticalità delle ciminiere contrapposta alla struttura del caseggiato che si sviluppa in orizzontale: anche questo può essere un modo per esaltare la modernità della civiltà industriale.
Due ciminiere si vedono anche nel terzo “Paesaggio urbano” di questo periodo (1925-28) esposto in mostra; ma sono appena percepibili in un addensamento di edifici di gran lunga prevalente sui simboli della modernità, anche se questa si avvale dell’immagine del tram giallo che risale la strada deserta in una visione dall’alto che lo fa sembrare miniscolo rispetto alle case la cui facciata ha solo una o due finestre su cui batte la luce e l’altra facciata con il tetto immersi nel buio. Colpisce la netta diversità tra la parte destra, precisa nell’architettura degli edifici e nitida nei giochi di luce, e la parte sinistra più confusa di tipo espressionista.
Dalle periferie urbane alla montagna il passo sembrerebbe lungo, ma la sua famiglia ne era appassionata e lui stesso, oltre ad andarci per la villeggiatura estiva sin dalla giovinezza, vi era stato a lungo in trincea da volontario alla Grande guerra. In “Paesaggio montano”, 1927, vediamo una rappresentazione con i monti viola sullo sfondo, delle case, una chiesa e relativo campanile in primo piano, in mezzo un laghetto di montagna dalle acque scure con macchie luminose. Anche se si è creduto di trovarvi le caratteristiche delle località di montagna lombarde, è tutt’altro che una rappresentazione realistica della natura: nessuna cura dei particolari, si vuole magnificare la maestosità della vallata con una forza drammatica che sovrasta ogni presunta apparenza idilliaca.
Ben diverso é “Vette”, 1931, la nuda roccia nell’imponenza dei volumi segnati da ombre cupe, “la montagna non è giardino ma tragedia”, diceva l’artista, sono quattro guglie, ricordano vagamente le tre cime di Lavaredo sdoppiate, come il quadro “Rocce cadenti” del 1854, che Sironi forse conosceva, avendo citato come “splendido esempio, Courbet, nei suoi romantici paesaggi alpestri”.
I richiami arcaici, dalla famiglia al lavoro
Nessuna visione idilliaca in “La famiglia”, 1927-28, che, scrive la Pontiggia, “rappresenta un’umanità delle origini, un gruppo di famiglia senza tempo ritratto sulla sfondo di un paesaggio primordiale”. Si vede la madre seduta che prende in braccio il piccolo, il padre in piedi a torso nudo guarda la scena interrompendo il faticoso lavoro, le loro figure vengono accostate a Masaccio e anche a Picasso; l’ambiente in cui si trovano si apre su uno sfondo montano imponente, si intravede un pilastro e uno scalino sulla sinistra, tutto sembra scolpito nella roccia. La Pontiggia aggiunge: “Da tutta la composizione si sprigiona un senso di arcaica energia e insieme di biblica solennità, le figure si stagliano immobili davanti ai millenni”.
Arcaico, rispetto al modernismo di tante opere precedenti, sembra essere anche “L’aratro“, 1928, che fa parte di una serie di opere dedicate al tema, dal 1925 al 1944, al quale si era interessato anche in gioventù copiando “L’Aratura” di Segantini. Ma questa considerazione è sovrastata dalla presenza ammonitrice, dietro il contadino chino sull’attrezzo trainato da un bue rischiarato dalla luce, di un’erma con la testa a forma di teschio, che sembra contrapporre alla fertilità dei campi l’evocazione della morte. Ma questo non sembra avere un significato negativo, viene visto come la riaffermazione dei valori della vita come missione da compiere pur se il destino dell’umanità è espresso nell’erma, tra l’altro utilizzata dagli antichi, e forse anche qui, come segno beneaugurante.
Un richiamo arcaico alle origini dell’uomo viene trovato anche nel “Contadino”, 1928: in “L’Aratro” spingeva a fatica l’attrezzo curvo in avanti, qui si appoggia alla vanga per riposarsi, ma non appare fragile e contratto come in tante raffigurazioni, né schiacciato dalla pesantezza del lavoro: è una figura monumentale e composta, domina l’albero al suo fianco e la casa dietro di lui. Viene assimilato a un’opera sullo stesso tema, “La vanga”, 1928, in entrambe le opere la luce batte sull’attrezzo. Così si espresse la Sarfatti: “Grandiosa come un frammento di pittura antica, religiosa e solenne con patriarcale semplicità’, si riferiva a “La vanga”, ma concordiamo con il commento della Pontiggia: “Sono parole che si possono riferire anche al ‘Contadino’, che della ‘Vanga’ è contemporaneo”.
I paesaggi, dunque, non sono più urbani ma di ambiente contadino, senza intenti descrittivi e tanto meno pittoreschi; e hanno un riflesso lirico come retaggi di un mondo arcaico, solido ed armonioso, e un respiro teatrale.
Nel 1929 partecipa a tre mostre con il gruppo del “Novecento”: a Nizza, a Ginevra-Berlino, a Parigi; nel 1930 ad altre due rassegne “novecentiste”, a Basilea-Berna e Buonos Aires; nel 1931 a una mostra itinerante da Stoccolma agli altri paesi nordici. Nel frattempo è presente alla Biennale di Venezia e alla Quadriennale di Roma che gli dedica una intera sala: “Entrambe, segnano l’acme di una crisi espressionista” dovuta alla sua concezione tragica dell’uomo.
La “crisi espressionista” e il nuovo classicismo
Il segno diventa via via meno stilizzato, si ispessisce ed è più materico, sia nei nudi che negli altri soggetti; alla classicità subentra “una tensione romantica, un pathos concitato” che fece definire “neoromantici” lui e gli altri del “Novecento” lombardo. Alla fine del decennio la sua pittura si sofferma sui lavoratori di ogni attività, visti senza la retorica del lavoro o il realismo della fatica ma in chiave mitica come simboli di nobiltà; diventa mitico pure il paesaggio, mentre dipinge anche alcuni personaggi della mitologia antica.
Abbiamo visto i lavoratori del mondo agricolo, troviamo ancora un “Pescatore”, 1930, ma ben diverso dal “Povero pescatore” che abbiamo associato al“Pescivendolo”, entrambi idealizzati nella nobiltà e nella bellezza dei lineamenti come del corpo nudo da statua greca, mentre i pesci erano poco visibili e comunque ordinati. Qui invece occupano il primo piano come una massa informe si cui si cala una mano rossa altrettanto informe, del lavoratore spiccano le braccia nude, il resto del corpo emerge da uno sfondo corrusco; il viso è segnato come una maschera drammatica, si fa fatica ad attribuire questi dipinti allo stesso autore. E’ un segno alla Rouault e non disdegna le sgocciolature del pennello. “‘Insieme monumentale ed approssimativa la figura acquista una ‘bellezza sensibile, per usare le parole della Sarfatti”, commenta la Pontiggia.
Dei nudi, maschili e femminili, spiccano in alcuni dipinti del 1929-33 ispirati a temi classici.
In “Composizione (Architettura con vestale e atleta)”, 1929, è evidente la derivazione dal “Doriforo” di Policleto, ma senza estetismo classicheggiante né vitalismo futurista, bensì con una tensione verso un qualcosa di elevato, che va ben oltre l’aspetto fisico: la missione dell’uomo che sovrasta l’individuo. La figura femminile di vestale sulla destra con la veste bianca è una fonte di luce, il tutto in un ambiente classico con le consuete incongruenze architettoniche.
Un torso maschile nudo in “Busto virile”, 1931-33, la cui straordinaria monumentalità fa pensare che fosse uno studio preparatorio per un lavoratore della pittura murale sulla “Carta del lavoro”, oppure per l’affresco “Il lavoro”; ricorda soprattutto nel braccio sinistro la positura di “Il pescivendolo”.Ha chiare ascendenze classiche nella statuaria degli atleti, ma è propria dell’artista la fierezza e la nobiltà della figura in cui si incarna il valore fondamentale del lavoro: il busto eretto, i muscoli tesi in un’anatomia perfettamente modellata ne sono l’espressione visiva.
Il nudo femminile “Nudo e albero”, 1929-30, si ispira alla “Niobide” degli Horti Sallustiani, la statua classica sulla vendetta degli dei che la trafissero con i quattordici figli. E’ una figura potente e drammatica, le braccia levate per strapparsi la freccia dalla schiena, invisibile come nella Niobide, la disperazione nel viso. Il suo urlo, scrive la Pontiggia, ” esprime un dolore universale, che sembra riecheggiare silenziosamente nel tronco mutilato e nelle scabre montagne sullo sfondo”. C’è tutto Sironi in questo dipinto, l’ispirazione classica, la monumentalità della figura e la cura dei volumi, la drammaticità per la condizione umana; lo stile pittorico è quello del periodo, non più nitidezza ma pesantezza del segno quasi volesse accompagnare l’accentuarsi della visione drammatica.
La stessa posizione delle braccia in un’altra figura anch’essa mitica, “La vergine delle rocce”, 1932, un nudo dall’espressione altrettanto sofferente, anche se c’è minore solennità e il segno è più greve e materico. Domina le rocce in cui è come incastonata, l’albero e la casupola sulla vetta sono minuscoli rispetto alla sua monumentalità che rimanda alle coeve pitture murali.
La “Composizione (San Martino)”, 1930, segna l’accentuazione dell’addensamento materico dal tratto espressionista nella pittura a macchie pesanti che tendono al rosso con bagliori luminosi che conferiscono una forte drammaticità alla scena. Sono “personaggi deformati e dolorosi che sembrano dipinti col sangue” fu il commento di Costantini allorché fu esposto alla Quadriennale di Roma del 1931. La Pontiggia, nel riportare questo giudizio e quello di Marziano Bernardi secondo cui Sironi, per l’influenza di Rouault, “rifiuta ogni umanità”, replica: “In realtà quest’opera non rifiuta affatto ‘ogni umanità’, ma è anzi umanissima nel colloquio muto fra il santo e il povero (supplice ma imponente perché, pur accennando a inginocchiarsi, è ben più alto del cavaliere)”. E nota come San Martino non si limita a donare parte del mantello ma se ne priva del tutto e resta nudo anche lui per condividere la condizione del povero. In fondo, la stessa condizione umana.
Concludiamo l’excursus nelle opere degli anni ’20 esposte in mostra con “Natura morta“, 1926, l’abbiamo isolato perché è uno dei pochi dipinti di un genere da lui non prediletto, tanto che lo riteneva espressione dell'”impotenza immaginativa della pittura contemporanea”. Il carattere intimo e quotidiano, che toglie ogni tensione a questo genere, era in contrasto con la sua pittura, ma in questo dipinto si impegna nella “missione impossibile” di rendere la natura morta congeniale con i suoi contenuti di artista. Ci riesce evidenziandone i volumi con tre vasi accostati e accentuando le ombre che anneriscono i contorni dei frutti, ottenendo un risultato di forte drammaticità.
Termina così la rassegna delle opere degli anni ’20 e dei primissimi anni ’30 in cui si esprime compiutamente la sua maturità con un’evoluzione stilistica e compositiva pur nella persistenza dei suoi motivi fondamentali. Prossimamente le pitture murali degli anni ’30, il riflusso nei quadri degli anni ’40 e l’epilogo con la “damnatio memoriae” del primo dopoguerra.
Info
Complesso del Vittoriano, via San Pietro in carcere, Roma. Tutti i giorni, dal lunedì al giovedì, ore 9,30-19,30; venerdì e sabato 0,30-22,00; domenica 9,30-2030.. Ingresso: intero euro 12,00, ridotto euro 9,00. Tel 06.6780664. Catalogo: “Mario Sironi. 1885-1961”, a cura di Elena Pontiggia, Skirà, ottobre 2014, pp. 302, formato 24×28. Dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo, con un riferimento al catalogo della mostra del 1993 alla Gnam, stesso titolo, Editore Electa, a cura di Fabio Benzi. pp. 492. In questo sito l’articolo precedente sulla “grandezza e la tragicità”, il 1° dicembre 2014, ne seguiranno due, tra dicembre e i primi di gennaio 2015, sempre con 10 immagini ciascuno. Per i riferimenti del testo cfr. i nostri articoli: in questo sito su “De Chirico” il 20, 26 giugno e 1° luglio 2013, sul “Futurismo” il 2 marzo 2014 ; in cultura.inabruzzo.it sulla mostra di Sironi al Museo Crocetti, il 26 gennaio 2009, su “De Chirico” il 27 agosto, 22 dicembre 2009, l’8, 10, 11 luglio 2010, sul “Futurismo” il 30 aprile e 1° settembre 2009.
Foto
Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante al Vittoriano alla presentazione della mostra, si ringrazia “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura, “Venere”, 1923.24; seguono “Il tram”, 1920 e “Il molo”, 1921; poi “L’architetto’, 1922-23, e “”Solitudine”, 1923-24; quindi “Paesaggio urbano”, 1925-28 e “La famiglia”, 1927-28; infine “L’aratro”, 1938, e “La vanga”,1928; in chiusura “Le vette”, 1931.