di Romano Maria Levante
Termina il racconto della nostra visita alla mostra antologica aperta al Vittoriano dal 4 ottobre 2014 all’8 febbraio 2015, dedicata a “Mario Sironi. 1885-1961″ con 140 opere dai primi anni del ‘900 all’inizio degli anni ’60, realizzata da “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, a cura di Elena Pontiggia che ha curato anche il Catalogo Skira, insieme all’Archivio Sironi di Romana Sironi. Delineata la sua figura di uomo e di artista nel segno della tragicità e della grandezza, abbiamo ripercorso la sua vicenda commentando le opere esposte dagli inizi agli annni ’20 fino alla fase esaltante degli anni ’30. Ora concludiamo con la drammaticità degli anni ’40 e l’isolamento del dopoguerra, una “damnatio memoriae” frutto di faziosità e miope incomprensione fino alla metà degli anni ’50.
E’ una storia umana e artistica di forte suggestione quella che abbiamo potuto rivivere finora attraverso la figura di Mario Sironi. Tragicità e grandezza compresenti nelle sue opere anche quando l’intento era celebrativo se non propagandistico, espressione di una sensibilità inquieta, in una visione pessimistica della vita accompagnata da una ripresa volitiva frutto a sua volta nella fiducia nelle capacità realizzatrici dell'”Uomo nuovo”, costruttore ed edificatore del proprio futuro. A questa concezione risponde anche la cifra stilistica dei diversi periodi, di un artista che ha attraversato molteplici tendenze senza farsene fagocitare ma imponendo sempre il proprio sigillo. Così per il simbolismo e il divisionismo, poi il futurismo e la metafisica, fino alla Pittura murale e la Grande decorazione che diventa protagonista dell’intensa stagione degli anni ’30 riportando in vigore un’antica forma d’arte.
Questo percorso artistico si è innestato in un itinerario di vita e di impegno che per oltre due decenni ha coinciso con la parabola del regime nella cui ideologia vedeva riaffermati i suoi principi sulla dignità del lavoratore e sulla nobiltà dell’uomo degni di essere celebrati; anzi nell’esaltare tali valori superava il suo pessimismo esistenziale celebrando gli aspetti positivi e volitivi dell’umanità.
E’ illuminante tutto questo se correttamente valutato, mentre un’interpretazione cieca e distorta ha portato alla “damnatio memoriae” del dopoguerra, interrottà a metà degli anni ’50 per alcune iniziative coraggiose cui è seguito l’unanime riconoscimento del grande valore dell’artista.
Con il crollo del regime e la cessazione della Pittura murale, la Grande decorazione su cui aveva riversato il suo talento, crollò la sua utopia dei valori, e ci fu un ripiegamento sui temi del passato ma con in primo piano il pessimismo esistenziale: restò solo la tragicità perché la grandezza era rimasta sepolta tra le rovine della guerra, e non si attenuò neppure dopo la svolta del 1955. Di tutto questo parleremo nel racconto dell’ultima parte della nostra visita alla mostra, dalle opere degli anni ’40 al canto del cigno, “L’Apocalisse” del 1961, l’anno della morte.
Gli anni ’40: la fine dell’utopia
La Pittura decorativa, con i forti significati ideali piuttosto che ideologici dati da Sironi, unita al rifiuto del quadro come forma d’arte e delle mostre come rapporto con la parte interessata della società, sembra un punto di non ritorno; gli anni ’30, inoltre, oltre che esaltanti, sono quanto di più burrascoso si possa immaginare, il lavoro è incalzante, le scadenze stringenti, le polemiche violente.
Con gli anni ’40 cambia tutto: la guerra rallenta gli incarichi decorativi, e quando l’andamento del conflitto diviene negativo si rarefanno fino ad arrestarsi del tutto nel 1943 allorché cade il fascismo: il 25 luglio crolla il contesto in cui era collocata la sua concezione dell’arte e la sua produzione.
L’artista come reagisce? Non si arrende subito all’evidenza, nel maggio 1942 dopo tanti rifiuti di partecipare a qualsiasi mostra, comprese Biennali e Quadriennali, accetta che i nuovi mercanti Ghiringhelli gli organizzino una personale, ma vi espone soltanto progetti per opere monumentali; e nel Catalogo presentato da Bontempelli sostiene ancora che l’arte è nella Grande decorazione; nel 1943 e nel marzo 1944 dinanzi all’offerta di insegnargli l’utilizzo dell’encausto esprime gratitudine e manifesta ansia e speranza per questa tecnica di pittura murale.
Si rende conto tuttavia di quanto accade intorno a lui, non abbandona la Pittura murale ma riprende a dipingere al cavalletto, soprattutto paesaggi urbani tenebrosi e densamente materici, con i contorni che tendono a disfarsi, espressione visiva di quei tempi cupi. Presenta i pochi quadri alle rare mostre, venendo meno al netto rifiuto degli anni ’30: “Periferia” è esposta in una collettiva dell’aprile 1941 a Milano, un “Paesaggio urbano” dipinto in quell’anno, a Roma all’inizio del 1942, diverse opere tra cui “Gazometro” dipinte in quell’inverno, nella collettiva dei Ghiringhelli a Milano presso la nuova sede del Milione nel 1944.
In mostra sono esposti “Periferia”, 1942-43, e “Paesaggio urbano”, 1943: dei dipinti della fase futurista resta una traccia nel tram e nella bicicletta, ma questa volta i veicoli, simboli di modernità e velocità, non occupano più la scena; sono di dimensioni microscopiche rispetto ai grandi volumi degli edifici, nel primo due enormi blocchi disabitati, nel secondo una massa di volumi di case con gazometro, come un fondale.
Vediamo “Montagne”, 1943, dove riprende anche questo tema, ma ora ancor più senza indulgenze paesaggistiche, neppure le sagome delle Dolomiti come nelle “Vette” degli anni ’30: i volumi dominano per esprimerne la maestosità e la forza, con una solennità di marca teatrale. Lui stesso disse, trovandosi a Cortina: “Io le montagne le reinvento. E le sfido. C’è una corrente elettrica tra me e loro. Poi sopra esiste il cielo, spesso drammatico, con le sue strisce temporalesche e i suoi azzurri, o i suoi bianchi. Sono un solitario, e anche le montagne lo sono, si innalzano oltre la realtà abitudinaria, consueta. Mai inerti, esse vibrano di anima, di fantasia. Le sento come personaggi ai quali mi accosto come a divinità”. In esse, conclude, “la natura è ancora vitale, esprime la sua forza, si avverte l’eternità”. Parole di un’intensità straordinaria.
Di questo periodo anche “Il pastore”, 1940-42, e “Figura seduta”, 1942, che associamo in quanto esprimono entrambi la solidità scultorea delle forme con un arcaismo evidente: “Sono uomini e donne che appaiono pietrificati in luoghi altrettanto pietrosi e inospitali”, si legge nella scheda della Pontiggia. Nel primo c’è una visione claustrofobica essendo la figura umana seduta compressa nello scomparto inferiore, in quello superiore una sorta di villaggio scolpito nella roccia, “una Pompei del Medioevo dove tutti, forse, sono morti senza saperlo”, commenta la curatrice; nel secondo una figura totemica che sembra pietrificata come la parete a cui si appoggia, assorta in un clima di attesa senza tempo. In “Figure (il giudice)”, 1942-43, la stessa solitudine anche se le figure sono tre, ma senza alcuna comunicazione in una sorta di incomunicabilità: la forma è meno scultorea e abbozzata, risulta finemente disegnata con chiare reminiscenze classiche.
E’ un ritorno alla pittura con accenti metafisici, la “neometafisica di Sironi”: c’era stata una grande mostra di Carrà a Brera, visitata dall’artista, sentiva l’influenza di Bontempelli e del suo realismo magico, e così ebbe un ritorno di fiamma. “L’eclisse”, 1943, ritenuta tra le migliori opere di questa stagione, ne è un’espressione evidente: c’è la casa a più piani chiaramente ispirata a Carrà, il manichino, una squadra, lo spazio e la prospettiva caratteristica del genere. Era uscito quell’anno il romanzo di Angioletti “L’Eclisse di luna”, e in effetti nel 1942 c’era stato tale fenomeno cosmico: nel dipinto la sfera lunare che copre il sole con un disco nero dà drammaticità a un’ambiente senza vita: è una metafisica che – scrive la Pontiggia – “‘non è oltre le cose fisiche’, ma è immersa nella tragicità del reale, che negli anni della guerra mostra tutta la sua mancanza di senso”.
Mentre i paesaggi urbani si incupiscono e si sfarinano, e le immagini metafisiche sembrano dissolversi, le sue figure non sono più incantate e vitali ma inerti, in un’immobilità spettrale tra edifici o lande desolate.
In “Paesaggio urbano con manichino”, 1944-45, convivono i due motivi: è molto diverso dai suoi paesaggi urbani del passato, nessun contrasto tradizione-modernità, il veicolo futurista è praticamente invisibile, confuso nel nero dello sfondo, e la grande sagoma del manichino in primo piano sembra un automa; i grandi caseggiati scuri con i vani delle finestre ciechi senza aperture sembrano case per fantasmi, ci sono solo due ciminiere a ricordare le precedenti composizioni aperte alla modernità cittadina. Una “città morta”, con l’eco dell’incubo dei bombardamenti.
Abbiamo poi “Composizione”, 1944, in cui il disfacimento colpisce le architetture, confuse e frammentate, unite a una grande forma totemica antropomorfa, che incombono su due piccole figure umane di chiara ispirazione metafisica, la cui presenza non sottolinea l’attesa nei grandi spazi ma la loro inadeguatezza dinanzi al dissolversi nella confusione di ciò che prima appariva solido e ordinato: ricordiamo che c’era stato già, con il 25 luglio 1943, il crollo del regime fascista. “In un ambiente indecifrabile che potrebbe essere sia una piazza che una stanza perché spazio interno e spazio esterno si confondono – commenta la Pontiggia – è soprattutto una metafisica delle macerie, un mondo di architetture che non stanno più insieme”.
Ci sono anche novità assolute in questo pur tormentato periodo. La principale è la composizione in riquadri indipendenti ma collegati, eco nostalgica nella Pittura murale in cui aveva riversato tutto il suo talento mentre ora è divenuta definitivamente improponibile; ma nello stesso tempo segna la sua negazione trattandosi di comparti compressi, imprigionati rispetto agli ampi spazi di allora.
In queste che chiama “Moltiplicazioni”, al disfacimento del paesaggio e all’inerzia delle figure si aggiunge la frammentazione, come se il suo mondo pittorico solido e compatto si fosse frantumato, allo stesso modo del regime in cui credeva. Non è una fase transitoria di un periodo convulso, troviamo il titolo “Moltiplicazioni” anche in una composizione del 1955 che sembra uno studio per una pittura parietale, essendovi incorporato il vano nero di una porta; anche se sa bene che non si tradurrà mai più in una pittura murale, e forse per questo le varie scene sono appena abbozzate.
In “Composizione murale”, 1944, vediamo oltre al titolo la struttura della pittura murale, con tre parti senza un rapporto visibile: una figura solida di donna sulla sinistra, due riquadri a destra, persone plaudenti a lato di un grande albero in alto, un paese in basso, senza alcuna proporzione. Sembra uno studio preparatorio di una grande pittura murale che non ci sarà più, quasi che voglia coltivare l’illusione di proseguire in quello che ha definito “un viaggio continuo, rinnovato, che finisce per tornare su se stesso dopo aver compiuto ogni variazione”.
Entrano i temi sacri espressi in modo angoscioso, come il “Crocifisso” bombardato con la croce spezzata e il Cristo proiettato in avanti, è del 1943, l’anno in cui la sede del “Milione” a Brera fu distrutta dai bombardamenti costringendo il suo gallerista a spostarsi in via Manzoni; e “L’apologo”, 1944, con figure che si affidano alla parola di Cristo. Non sono esposti in mostra.
Così la Pontiggia riassume questa fase particolarmente inquieta: “Sironi, come si vede, modifica continuamente il suo stile: al realismo doloroso dei paesaggi urbani accosta l’atmosfera onirica della neometafisica, alla scena unitaria lo spazio policentrico, al soggetto tradizionale la moltiplicazione degli scenari, in un’incontentabile ricerca di nuove possibilità espressive”.
Ma la guerra si avvicina all’epilogo, Sironi aderisce alla Repubblica di Salò, coerente fino all’ultimo, e il 25 aprile 1945 nel giorno della liberazione a Milano rischia la fucilazione: come si è detto lo salva Gianni Rodari che fa parte del gruppo di partigiani, ha riconosciuto l’artista che stima.
Il dopoguerra: pessimismo senza illusioni
Nel dopoguerra viene assolto nel processo di epurazione ai personaggi del regime. “L’epurazione maggiore, però, osserva la Pontiggia, la subisce dal mondo dell’arte che attua verso di lui una completa rimozione”. Viene escluso dai repertori critici e nelle rassegne sull’arte italiana all’estero gli viene assegnata una posizione secondaria tra i futuristi, peraltro anch’essi alquanto boicottati.
E’ “la tempesta dopo la tempesta”, nelle parole della curatrice: riprende a dipingere opere cariche di angoscia e di pessimismo nelle quali tuttavia manca la ripresa volitiva che ne attenuava la tragicità.
Lo si vede nei temi religiosi che diventano consueti: “La penitente”, 1945, è un’immagine angosciosa con il senso di colpa espresso dal capo chino e il volto coperto dal cappuccio, nell’isolamento e nell’indifferenza delle due donne che la guardano con curiosità distaccata senza comprensione umana. Va ricordato che la cifra artistica di Sironi negli anni ruggenti era stata l’immagine eroica carica di valori positivi, nella sua drammaticità c’era sempre la spinta volitiva; questa figura ripiegata su se stessa racchiude in sé l’umiliazione e la depressione da cui è preso.
Ugualmente due opere non in mostra: “Lazzaro“, 1946, raffigurato sepolto sotto le rocce ben lungi dal risorgere, la “Fustigazione”, 1947, che non prevede il perdono ma solo il castigo, mentre “La Grande chiesa”, che nel dipinto esposto vediamo monumentale e imponente, vista dall’abside è come un monolite senza aperture per i fedeli che cercano conforto, solo il campanile appare un’immagine familiare.
Nel dopoguerra dipinge anche composizioni con figure come in “La siesta”, 1946, dove il riposo diventa impossibilità di agire, come se la donna ritratta fosse imprigionata nella roccia, mentre l’albero sopra di lei è tutt’altro che bucolico. E quando torna a un tema “futurista” con “Aereo e case”, 1948, non lo fa all’insegna della modernità, ma raffigura un gigantesco veicolo alato che sembra stia per abbattersi sull’abitazione sotto gli occhi terrorizzati di due figurine inermi sul tetto, forse evocando l’incubo dei bombardamenti.
In “Composizione con cavaliere”, 1949, torna la formula della pittura murale, riquadri senza collegamento con una serie di segni e immagini primordiali; l’unico che si distingue è il cavaliere stilizzato. E “Il lavoro” è una composizione analogamente in più riquadri, ma tematica: lo scalpellino a sinistra è umile e dimesso, chino con il suo martello, l’opposto delle figure monumentali statuarie dai lineamenti perfetti per i valori che esprimevano; un uomo con ruota dentata a destra sembra esprimere l’industria meccanica, in basso un’arcaica scena familiare.
Gli anni ’50: temi del passato in una visione sconsolata
Un sussulto dell’antica nobiltà si trova in “Donna con velo” , 1952-53, scultorea e fiera come una statua di Afrodite, e nel precedente “Donna con bambino”, 1952, in cui la Pontiggia vede, “archetipi ideali di una vita domestica senza tempo” in una pittura densamente materica che rende le immagini senza volto con le forme appena abbozzate. Ancora più abbozzate fino ad apparire sfatte e informi, “Due figure”, 1954, completano questa sorta di trilogia compositiva: in esse, però, nessuna nobiltà né archetipo di valori, è tutto un viluppo di linee cromatiche irregolari.
La parte della mostra dedicata agli anni ’50 è aperta da due opere anteriori a quelle ora citate, entrambe a dominante blu. “Periferia”, 1950, è un ritorno ai “Paesaggi urbani”, ma è profondamente mutato: anche se c’è il tram al centro con i caseggiati, questi sono scuri e opprimenti e le finestre cieche sembrano disfarsi, come le due ciminiere in fondo, viene ritenuto ispirato dal Rouault della banlieu parigina. In “Composizione blu”, 1951, gli scomparti richiamano l’amata pittura murale, dal contenuto indecifrabile, forse c’è la ricerca di una nuova armonia tra frammenti senza nome.
Mentre “Composizione sacra”, 1953-54, richiama “Composizione murale” di dieci anni prima, con la donna non più in piedi in posa statuaria ma seduta, in posa raccolta, sembra la Madonna, anche per il titolo; alla sua destra motivi ornamentali che diventano segni senza significato.
C’è di nuovo la montagna, precisamente “Paesaggio (le tre cime di Lavaredo)”, 1952,ma assomigliava di più alle cime dolomitiche “Le vette”, di venti anni prima, sebbene ora ne sia diventato frequentatore e non si ispiri più ai ricordi di guerra. Sono due masse nere, e non tre, con una fenditura fatta di bagliori: “Il loro profilo – commenta la Pontiggia – doveva sembrare troppo analitico per la sua sensibilità masaccesca”; materia e luce in un ambiente maestoso e cupo, “teatro di un dramma” come lui stesso lo ha definito, nulla di paesaggistico. “Paesaggio invernale”, 1956, è altrettanto maestoso ma più sereno, con la luminosità della neve unita ai volumi non più cupi della montagna: questa volta la drammaticità è di natura altamente spirituale.
Siamo ancora vicini agli orrori della guerra, tuttavia non ci sono stati altri mutamenti neppure quando nel 1955 è cessato l’ostracismo con l’uscita della grande monografia su di lui di Agnoldomenico Pica, e con l’inserimento alla pari di altri maestri della sua generazione in una grande mostra in Giappone sugli artisti italiani contemporanei. Inoltre gli viene conferito il Premio Einaudi nel 1954 e viene eletto Accademico di San Luca nel 1956.
Permane una “consapevolezza dolorosa, un pessimismo cosmico”, per usare le parole della Pontiggia, non solo per motivi psicologici ed esistenziali – una sua figlia muore tragicamente – ma anche per ragioni filosofiche.
Tra i temi del passato torna anche “La casa”, 1955, tempera su carta, un edificio bianco di quattro piani che si erge in verticale, ma ora le solite finestre cieche nei due piani inferiori si chiudono ancora di più fino a scomparire, quasi a voler esprimere la perdita di fiducia nella capacità di costruire un qualcosa di stabile e duraturo: ancora scotta il crollo dell’ideologia in cui credeva.
Le ultime due opere esposte, quelle terminali della sua lunga vita artistica, sono sconvolgenti per coloro che si appassionano alla sua storia rivissuta attraverso le sue opere, e noi tra questi.
L’epilogo all’inizio degli anni ’60
“Il mio funerale”, 1960, precede di un anno la sua morte, quasi una premonizione di un’intensità che non ha precedenti. Il piccolo carro seguito da pochi intimi passa dinanzi a un muro altissimo, quasi un fondale teatrale, con incise figure da pittura murale, come un compendio della sua amata arte decorativa e delle raffigurazioni futuriste con il veicolo che passa, carro o tram, bicicletta o auto, questa volta un carro funebre. L’arte monumentale domina sovrana, come un testamento.
Ma il suo canto del cigno è “L’Apocalisse”, 1961, si entra negli “irripetibili anni ’60”, connotazione positiva di una stagione di ottimismo e benessere. “Il maggiore pittore-architetto del XX secolo termina la sua vicenda artistica, e la sua vicenda umana – sono ancora parole della Pontiggia – con la visione di un terremoto universale che seppellisce la malvagia stirpe degli uomini. Dalla rovina si salva solo la materia: rocce ciclopiche, arroventate dal fuoco, che conservano una primordiale imponenza. Lo sfacelo ancora una volta convive con una dimensione di monumentalità, ma è la natura, non la storia, ad esprimerla”. Sono esposti due dipinti dello stesso anno con tale titolo, entrambi su uno sfondo corrusco in cui si muovono piccole figure umane tra grandi lastre di roccia nel primo, entro cavità come grotte di un formicaio nel secondo.
Così conclude la curatrice: “La fede di Sironi nella capacità dell’uomo di costruire si è infranta per sempre. E forse non poteva essere diversamente per un artista che ha incarnato come pochi i sogni, le illusioni e le tragedie del secolo breve”.
Conclusioni, l’artista e il fascismo
Si è cercato di approfondire il significato della sua adesione al fascismo fino a diventare il protagonista delle maggiori creazioni con la Grande decorazione in cui pittura, architettura e scultura si fondevano per celebrare i valori del regime, peraltro secondo la sua concezione dell’arte senza steccati. Nicola Tranfaglia, nel saggio “Il fascismo e l’esperienza di Mario Sironi” nel Catalogo della mostra alla Gnam del 1993, non ne restringe l’orizzonte artistico ad una presunta “Arte fascista” che non ci sarebbe stata, limitandosi il regime e propugnare i valori nazionali e la funzione sociale ed educativa dell’arte senza delineare criteri e canoni stilistici o di contenuto. Per lui, “Sironi perseguiva in una sua ricerca ed era sensibile a una trasformazione epocale in atto, che avveniva proprio con la crescita dei grandi complessi urbani e lo spostamento di masse popolari dalle campagne alle città, malgrado le leggi antiurbanistiche volute dal regime negli anni Venti e Trenta”, di qui i suoi tristi “Paesaggi urbani” e le sue espressioni definite di “umanità plebea”.
E anche per gli altri temi si può parlare “semmai di una presenza di motivi per così dire ‘culturali’ in cui si incontrano le speranze nella ‘rivoluzione fascista’ da parte del pittore, e i suoi interessi di ricerca formale, costruttiva, ed espressiva”. In queste “speranze” vedeva realizzati i propri valori, come la fiducia nella capacità dell'”Uomo nuovo” costruttore di ribaltare aspetti degradati della realtà su cui si incentrava la sua attenzione alimentando il pessimismo, e che non nascondeva neppure nelle opere celebrative, mentre la retorica del regime avrebbe voluto minimizzarli. “L’umanità ritratta da Sironi è sempre dolente, e quasi schiacciata dalla modernità, e di frequente riemerge l’ambivalenza di fronte al moderno che ancora oggi costituisce forse una delle maggiori ragioni del fascino di quel tormentato artista”.
Sul piano artistico era stimolato dalla valorizzazione dell’identità e dell’arte nazionale fino al classicismo e all’arcaismo propugnata dal regime, in una ricerca approdata, come ha scritto Rossana Bossaglia, a una “cultura figurativa che faceva tesoro dell’esperienza metafisica, adattandola a un naturalismo non descrittivo e non impressionistico” che univa il gruppo del “Novecento”.
Tutto questo dà il segno dell’intensità dei motivi umani e artistici che sottendono le opere di Sironi nel loro legame con le vicende della vita e del mondo nel quale aveva riposto tante speranze per un rinnovamento dell’uomo artefice della sua fortuna, in nome del quale riusciva a risollevarsi dalla sua visione di fondo pessimistica e stemperare la tragicità in un anelito di grandezza.
Abbiamo cercato di ripercorrerne l’odissea umana e la parabola artistica avvalendoci dell’accurata ricostruzione operata dalla Pontiggia, oltre che delle sue preziose schede sulle singole opere: un materiale prezioso da cui abbiamo tratto gli elementi che abbiamo ritenuto essenziali per corredare la nostra cronaca della mostra dei riferimenti necessari alla migliore comprensione dell’artista.
L’afflato umano e il valore artistico di Sironi, nel grande respiro della storia, della nostra storia, sono tali da meritare il massimo approfondimento. E’ anche una riparazione dovuta ai tanti torti che sono stati fatti a un artista così sensibile e così grande.
Info
Complesso del Vittoriano, via San Pietro in carcere, Roma. Tutti i giorni, dal lunedì al giovedì, ore 9,30-19,30; venerdì e sabato 9,30-22,00; domenica 9,30-2030.. Ingresso: intero euro 12,00, ridotto euro 9,00. Tel 06.6780664. Catalogo: “Mario Sironi. 1885-1961”, a cura di Elena Pontiggia, Skirà, ottobre 2014, pp. 302, formato 24×28. Dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo, con un riferimento al catalogo della mostra del 1993 alla Gnam, stesso titolo, Editore Electa, a cura di Fabio Benzi. pp. 492. In questo sito i nostri tre articoli precedenti sulla “grandezza e la tragicità” di Sironi il 1° dicembre 2014, gli “anni 20” il 14 dicembre, gli “anni ’30” il 29 dicembre 2014, ciascuno con 10 immagini. Per i riferimenti del testo cfr. i nostri articoli: in questo sito su “De Chirico” il 20, 26 giugno e 1° luglio 2013, sul “Futurismo” il 2 marzo 2014 ; in cultura.inabruzzo.it sulla mostra di Sironi al Museo Crocetti, il 26 gennaio 2009, su “De Chirico” il 27 agosto, 22 dicembre 2009, l’8, 10, 11 luglio 2010, sul “Futurismo” il 30 aprile e 1° settembre 2009, sugli “Irripetibili anni 60” 3 articoli il 28 luglio 2011. .
Foto
Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante al Vittoriano alla presentazione della mostra, si ringrazia “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura, “La penitente”, 1945; seguono “L’eclisse”, 1943, e “Paesaggio urbano”, 1943, poi “Paesaggio urbano con manichino”, 1944-15“, e “Composizione’, 1944; quindi “La grande chiesa”, 1947-48, e “Periferia”, 1950; infine “Sacro”, 1953, e “Paesaggio invernale”, 1956; in chiusura, “Apocalisse”, 1961.