di Romano Maria Levante
Dall’8 marzo al 3 maggio 2015 nel salone centrale del Vittoriano, lato Fori imperiali, la mostra “Armenia, il Popolo dell’Arca” presenta un’accurata selezione di reperti archeologici e codici miniati, documenti e opere d’arte in un racconto per simboli della storia millenaria di un popolo in cui venti secoli di tradizione e cultura si intrecciano con il Cristianesimo, dal 301 religione di Stato. La mostra, realizzata da “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, è promossa dalle Ambasciate della Repubblica Armena in Italia e nella Santa Sede e dal Ministero della cultura armeno. Curatore Vartan Karapetian che ha curato insieme a Paolo Lucca anche il Catalogo cui è unito il volumetto “A cent’annio dal genocidio armeno”, editoreSkira..
Non rientra nel programma “Roma verso Expo”, l’Armenia non partecipa all’evento milanese, ma risponde alla stessa logica di far conoscere meglio un paese e un popolo. La mostra si inserisce invece nel ricordo dell’olocausto armeno a cento anni dal crimine perpetrato fino al 1915.
Ma nessun accanimento nella rievocazione, l’occasione serve a sollecitare la memoria e il ricordo, non tanto della strage compiuta, quanto della storia del popolo armeno, radicata nella storia dell’umanità. E’ il “popolo dell’Arca”, che si arenò sul Monte Ararat mettendo in salvo gli esseri viventi, la specie umana e animale, dall’estinzione nel diluvio universale, l’inizio della storia.
Vicende storiche miste a credenze e leggende sono viste in un’ottica documentale mediante reperti, cimeli e documenti esposti nelle apposite vetrinette. In questo si differenzia dalle mostre di “Roma verso Expo”, per lo più limitate alle attrazioni locali, dalla natura alla tradizione fino all’arte.
Motivazioni e impostazione della mostra
Il presidente dell’Unione degli Armeni in Italia, Baykar Sivazliyan, dice chiaramente che il ricordo del genocidio è stato alla base della decisione della mostra, e non poteva essere altrimenti: nel 2015 ricorre il centenario dell’evento tragico, il massacro di gran parte della popolazione armena, con l’intento disumano di eliminare del tutto un popolo dalle origini così cariche di significati e valori.
Ma con la stessa chiarezza con cui rivela l’ispirazione, non manca di precisare che lo sguardo non è rivolto al passato ma va verso il futuro: “Il valore memoria è fondamentale come antidoto al ripetersi di eventi così drammatici e passa attraverso un recupero ragionato e ‘vivo’ del passato, inteso non come semplice categoria di eventi da commemorare, ma come fatto che investe il nostro presente e condiziona il nostro evolverci”. Questo recupero avviene attraverso la conoscenza della storia armena, della “millenaria civiltà e cultura anche laddove essa attraversa quella italiana”. Quindi obiettivo della mostra a Roma , e in altre città italiane, è “far conoscere cosa è stato e cos’è oggi il popolo armeno, cosa esso ha saputo dare al mondo con la sua storia”.
Nel rivendicare lo straordinario patrimonio storico e culturale del popolo armeno si torna al ricordo del genocidio: “Quello che la Turchia ottomana ha fatto è stato cercare, fortunatamente senza pieno successo, di radere al suolo una tradizione che affonda le sue radici nel ‘popolo dell’Arca’”. E viene rimproverato alla Turchia laica di Ataturk e a quella attuale è il pervicace “esercizio di rimozione”, definito dal presidente degli Armeni in Italia, “un’ostinazione che la condanna a rimanere , nonostante i proclami e le apparenze, ancora lontana dall’Europa”.
E’ un “negazionismo” di Stato che alimenta l'”armenofobia” nel Medio Oriente e porta agli eventi odierni in Siria con “chiese apostoliche armene rase al suolo, migliaia di profughi in fuga verso l’Armenia, la ritrovata difficoltà di rappresentare una minoranza evidentemente sgradita”.
Non è una posizione preconcetta contro la Turchia, infatti è alla “Turchia ottomana” che viene imputato il genocidio, come alla “Germania nazista” si imputa l’olocausto degli ebrei, ma il popolo tedesco non si è sottratto alle responsabilità del passato e il negazionismo in molti paesi è addirittura un reato: “E’ un’ostinazione che fa male alle giovani generazioni di turchi che non potranno mai in questo modo essere veramente liberi di guardare al futuro”. Ancora più chiaramente il presidente degli Armeni in Italia afferma: “Mi piace ricordarlo in questa occasione, da parte nostra non c’è nessuna turcofobia. Noi chiediamo che ci sia riconosciuto quello che la storia finora ci ha negato”.
Per questo si ricorre all’esercizio della memoria considerato “nel senso più alto, diffondendo la cultura armena per come essa ha saputo esprimersi in Italia e nel mondo con i suoi tanti figli allontanati dalla terra d’origine”. I segni eloquenti di questa cultura millenaria sono raccolti in sette sezioni: nella tre sezioni iniziali soprattutto i richiami religiosi, dalla storia del Cristianesimo e la Bibbia nella prima sezione, alla ricostruzione di un altare nella seconda, all’iconografia della Croce nella terza; le due sezioni successivesulla cultura, dalla nascita e codificazione del nuovo alfabeto nella quarta, all’arte e architettura nella quinta, mentre la settima sezione è sui rapporti secolari tra Armenia ed Italia, fin dalla repubblica di Venezia e sulla presenza armena nel nostro paese; nella sesta sezione viene ricordato il genocidio in modo discreto, ma con dati eloquenti..
Abbiamo visitato la mostra con la guida colta e appassionata del curatore Vartan Karapetian , citeremo i reperti e documenti esposti accennando al loro sottofondo culturale e storico.
Le radici bibliche e cristiane, dall’Arca alla Croce
Dall’Abate generale della Congregazione Armena Mechitarista è venuta una suggestiva citazione biblica, Noè che dall’Arca manda una colomba e un corvo ad esplorare, ritorna solo la colomba e la seconda volta con un ramoscello d’ulivo, la terra è ormai vicina. “I figli dell’Arca, ha concluso, continuano ancora oggi a seguire la colomba, come già allora sul Monte Ararat e nelle vicende successive, dall’epopea cristiana all’insorgere dei “corvi della morte e della distruzione”.
Gli Armeni sono uno dei più antichi gruppi etnici del Caucaso che da migliaia di anni abita l’altopiano con il Monte Ararat; prima del Cristianesimo erano pagani, il territorio era punteggiato da templi che furono distrutti dai cristiani, ad eccezione del tempio greco-romano di Gami; altra preesistenza millenaria un osservatorio astronomico del 4200 a. C., e pietre dell’età del bronzo.
Il Cristianesimo si diffuse in Armenia sotto il regno di Tiridate III che prima era stato un persecutore della fede. La conversione avvenne quando guarì da una grave malattia e lo attribuì a San Gregorio l’Illuminatore che 13 anni prima aveva condannato a morire in una fossa, chiamata Khor Virap, cioè fossa profonda, nell’antica città ellenistica di Artashat. La capitale Yerevan fu fondata nel 782 a. C. dal re urateo Argisthi I, è oggi una città dinamica in continuo sviluppo.
L’Armenia fu la prima nazione ad adottare il Cristianesimo come religione di Stato, questo avvenne nel 301. E’ del 303 una delle chiese più antiche del mondo cristiano, la chiesa di Echmiadzin, da cui vengono molti dei reperti esposti; il suo nome significa “discesa dell’Unigenito”, Cristo, è tra i siti Unesco patrimonio dell’umanità. Innumerevoli le chiese e i monasteri cristiani in Armenia e dovunque gli Armeni si sono trasferiti nella loro lunga diaspora.
Delle chiese più antiche vediamo esposti dei piccoli Modelli in pietra, che rientrava nella tradizione realizzare e conservare, sono la testimonianza di tutti i templi armeni andati perduti, da quelli pagani distrutti dai cristiani a quelli cristiani distrutti dagli ottomani tra i massacri del Genocidio Uno è a cupola centrale, del VII sec., il più antico esempio armeno di manufatti architettonici, l’altro a pianta rettangolare con copertura conica, XI-XIII sec.,sono alti 70 e 50 cm circa.
I reperti delle chiese cristiane esposti vanno dai Capitelli con rilievi raffiguranti la Vergine e il Bambino, la Crocifissione e San Giorgio, entrambi del V-VI sec., ai Portali con rilievi scultorei e iscrizioni. Sono esposti il Portale ligneo della chiesa dei Santi Apostoli nel Monastero di Sevan, 2 metri per 1 m, con decorazioni cruciformi e una lunga iscrizione da cui si risale all’anno 1176; e due copie in gesso color terracotta della larghezza di un metro dei Timpani con rilievi raffiguranti Dio Padre, la Vergine e il Bambino, tra il XIII e il XIV sec., della chiesa di Noravank. Inoltre un Tappeto Astghahavk in lana del XIX sec., decorato con medaglioni romboidali e scudi a otto punte nella parte centrale, e una Tenda liturgica del 1689, su lino, usata in alcuni momenti del rito, da Tokat (Eudocia), con raffigurati i luoghi santi di Gerusalemme ed episodi della vita di Gesù.
Degli oggetti liturgici presenti in mostra citiamo innanzitutto un Turibolo globulare con bassorilievi del X-XI sec. su 5 episodi della vita di Cristo, e un Leggio in legno e pelle con rilievi scultorei e iscrizione del 1273, entrambi provenienti da Ani; un Incensario in argento dorato del XVIII sec., con decorazione molto elaborata, da Akn, e due Flabelli, con serafini, in bronzo, del 1665, dal Monastero di Sevan, e in argento, del 1808, da Karin (Erzerum), sono strumenti finemente decorati con un’impugnatura, per accompagnare momenti della liturgia armena.
Le croci spiccano per la versatilità in fatto di materiali, dal bronzo all’argento fino alla pietra. E’ esposta la Croce (flabello ?) in bronzo, forse del X-XI sec., da Ani, un disco traforato con la croce al centro che sarebbe il primo flabello conosciuto. Poi la Croce in pietra con iscrizione, 1477, in tufo, e il Khachkar, del XIII-XIV sec., in felsite, dal Monastero di San Gregorio Bardzrakash, riccamente decorato . In argento dorato la Croce d’altare, forse del XIII-XIV sec., dalla Cilicia, con Cristo risorto, la Croce lignea del XII-XIII sec. con medaglione in argento dorato del XIX sec, e la Croce con reliquie di San Giorgio, del 1746, con pietre preziose; tutte vengono da Echmiadzin.
Cultura, fede e arte, dall’alfabeto armeno ai Vangeli
A questo punto entra in scena l’Alfabeto armeno con una spettacolare installazione interattiva: una grande piattaforma con tutte le lettere dell’alfabeto e la possibilità di ascoltarne la fonetica pigiando il relativo tasto. E’ un modo originale per far entrare nello spirito di questo popolo consentendo di ascoltare il suono dei segni con i quali iniziò a comunicare e a cimentarsi nella scrittura unendoli in modo da formare parole, e collegandole in concetti e in quant’altro sfocia poi nella cultura.
Dopo un Capitello con bassorilievi, senza scritte, del IV-V sec., dalla Basilica di Kasagh, in tufo, vediamo una Lapide con iscrizione in armeno su tre righe, del V sec., da Verin Talin, in tufo, e una Lapide commemorativa per l’inaugurazione di una fontana, del 1785, da Nor Nakhhijevan, in marmo, con iscrizione su otto righe: sono esempi di scrittura su pietra nella lingua armena.
Ed ecco due Vangeli, con le preziose miniature e un gran numero di fogli, sono il Vangelo del 1357, dal Monastero di San Giorgio, Vaspurakan,, e il Vangelo del XVII sec. da Echmiadzin.
L’attaccamento del popolo alle tradizioni e ai cimeli della sua storia millenaria è dimostrato dal salvataggio di un antico libro prezioso dividendone i fogli tra moltissime donne che li portarono in salvo dalle razzie ottomane nella diaspora verso la salvezza al posto di propri oggetti personali.
L’Armenia e l’Italia, nei secoli e oggi
Sono esposti anche altri Vangeli e libri religiosi che ci portano ai contatti degli Armeni con l’Italia, allorché era al centro dei traffici mercantili tra Oriente ed Occidente, in particolare con Venezia e Genova per le loro fiorenti attività marinare; contatti vi furono anche con Roma e Milano, Padova, Bologna e Firenze, Livorno e Napoli.
Vengono presentate nella mostra preziose opere che testimoniano questi contatti, custodite a Venezia, nella Biblioteca dei Padri Mechitaristi di San Lazzaro, tra cui in primo piano i preziosi volumi di quattro Vangeli miniati. Il più antico è il Vangelo di Mike, dell’862, da Vaspurakan, finissime miniature raffigurano a piena pagina gli evangelisti Matteo e Luca; seguono il Vangelo di Trebisonda,del X-XI sec., che presenta le Tavole di concordanza, e il Vangelo di Skevra. del 1193, con la “sontuosa miniatura” della Crocifissione; infine il Vangelo di Sargis Pitzak, del 1331, da Drazark, con la miniatura del Ritratto dell’evangelista Matteo. Vediamo una ricca Legatura di Vangelo, 1731, da Echmiadzin, altorilievo in argento con Gesù crocifisso e le due Marie.
Altri volumi religiosi con la stessa collocazione veneziana sono il Libro della Lamentazione, di Gregorio di Narek, del 1237, da Skreva, e l’Omelario di Mush, del 1205, da Avag. Inoltre vediamo Il Romanzo di Alessandro, con la miniatura del’arrivo a Melfi, 2^ metà del XIV sec., dalla Cilicia.
Dal Monastero dei Padri Mechitaristi di Venezia proviene il dipinto a olio del 1832 esposto, di P. Alessandro Besciktashlian con il Ritratto dell’Abate Mechitar, fondatore dell’ordine; c’è anche una Veduta dell’Isola di San Lazzaro dei PP. Armeni in Venezia, incisione del XVIII sec.
Mentre dalla Chiesa del monastero viene la spettacolare pala centrale dell’altare, 2 metri per 1,13, di Francesco Zugno, Trittico raffigurante San Gregorio che battezza il Re degli Armeni e scene del suo martirio,XVIII sec., abbiamo già ricordato la storia culminata nel prodigio della guarigione del Re che portò alla conversione del popolo e fece assurgere il Cristianesimo a religione di Stato.
Oltre questi libri religiosi sono presenti documenti conservati nell’Archivio di Stato di Venezia: la Nota di quanti Armeni, e Figli d’Armeni adulti che si ritrovano in questa Inclita Città di Venezia, tanto Secolari, quanto Religiosi in questo dì Primo Agosto 1750, che consente di valutare con precisione la loro presenza; inoltre una copia seicentesca del Privilegio commerciale accordato ai Veneziani (1271), data che prova come i rapporti commerciali fossero molto antichi.
Altri due documenti dello stesso tipo sono esposti in mostra: il Privilegio commerciale accordato ai Genovesi, del 23 dicembre 1288, presso l’Archivio di Stato di Genova; e la copia del 1472 del Privilegio commerciale ai Bardi di Firenze, datato 1335, dalla Biblioteca Riccardiana fiorentina.
La presenza degli Armeni in Italia è documentata inoltre da disegni ed acqueforti anch’essi esposti, che si aggiungono a quanto abbiamo già citato proveniente dai Padri Mechitaristi di Venezia.
Su Venezia vediamo il disegno della seconda metà del XIX sec., di Giovanni Pividor, con la chiesa Santa Croce degli Armeni; su Roma, due acqueforti provenienti dal Museo di Palazzo Braschi, la Veduta del Tempio della Fortuna Virile, poi Chiesa di Santa Maria Egiziaca, di Ducros e Volpato, 1780, e il Palazzo Sacchetti a Via Giulia, di Vasi; su Napoli la Pianta topografica del monastero di San Gregorio Armeno, nel cuore della città, 1864, conservata nell’Archivio di Stato napoletano.
L’esposizione non è terminata, resta da parlare della sesta sezione dedicata al centenario del Genocidio, culminato nell’aprile 1915. Abbiamo preferito riservarla alla conclusione.
Il genocidio armeno nel centenario
Come si è accennato all’inizio, al tragico evento ricordato nel centenario la mostra dedica uno spazio di meditazione, in una sala con il pavimento occupato interamente da una grande Pianta topografica del territorio in cui si perpetrò il massacro con indicate le direttrici delle deportazioni. Ricordano le “marce della morte” dai campi di sterminio nazisti, documentate in una mostra sempre al Vittoriano, che per la settimana dall’8 al 15 marzo ha coinciso con questa dell’Armenia.
Sopra alla pianta geografica luminosa scorrono su un video i dati del genocidio, con le terrificanti cifre delle vittime, e le immagini delle chiese prima della furia ottomana e i ruderi dopo la distruzione; i templi non sono stati ridotti in ruderi dal tempo ma dalle demolizioni dei persecutori.
Ma come fu possibile che un simile crimine contro l’umanità potesse essere perpetrato? Il primo massacro ci fu nel 1878, poi nel 1894 i predoni arruolati nei reggimenti di cavalleria massacrarono 7000-8000 Armeni e distrussero i loro villaggi, le proteste di piazza successive furono represse nel sangue. E mentre le potenze europee, Gran Bretagna e Francia oltre alla Russia, chiedevano ai turchi di dare autonomia alla minoranza cristiana, la repressione divenne sistematica con stragi degli Armeni in un gran numero di località: ad Aleppo 16.000 uccisi, ad Harput 40.000 in 10 giorni di massacri. Nel 1896 le stragi continuarono, documentate dalle relazioni consolari presso le cancellerie dei paesi occidentali, dai missionari e da altri testimoni oculari. Dalle testimonianze emerge la ferocia delle soldataglie ottomane, che violentano donne e bambini, danno fuoco alle chiese richiudendovi fedeli e prelati, saccheggiano città e villaggi: uccisi 200.000-250.000 Armeni.
Dopo i massacri del 1894-96 , anche per le proteste delle potenze occidentali, la persecuzione si attenuò, ma solo in apparenza, il peggio doveva ancora venire. La miscela tra spinta nazionalistica e mistica aberrante della purezza etnico-razziale portò a rivendicare la riunione dei turchi dell’Anatolia e del Caucaso con la conquista della provincia russa dell’Azerbaigian: un vasto territorio in mezzo al quale la zona abitata dagli Armeni era un cuneo da eliminare sopprimendo il popolo e confiscandone i beni e le terre. Un’escalation inarrestabile con persecuzioni e uccisioni, e l’infiltrazione tra gli Armeni dei turchi di altre province animati da risentimento anticristiano.
Ai Giovani Turchi viene attribuita la tremenda responsabilità della pianificazione scientifica di quello che si sarebbe presto rivelato “il primo genocidio programmato dell’era moderna”: vennero predisposti precisi piani a ogni livello al fine di far prevalere l’elemento turco immettendo i turchi-mussulmani caucasici e dell’Asia centrale. Si vollero eliminare anche i greci dell’Anatolia, che furono i primi a subire la “pulizia etnica” dell'”Organizzazione Speciale”, con le squadre di banditi liberati dal carcere scatenati per espellerli: 250.000 furono respinti fuori dai confini dello stato ottomano con molte uccisioni e vittime per il freddo, la fame e i maltrattamenti. Ma fu solo la prova generale che dimostrò la possibilità del successo della “pulizia etnica” contro gli Armeni.
Ne fu protagonista la stessa “Organizzazione Speciale”, alle dipendenze del Ministero della guerra turco, con la collaborazione dei ministeri dell’Interno e della Giustizia, e allo scoppio della Prima Guerra Mondiale il disegno criminoso dell’eliminazione del popolo armeno trovò un’ulteriore perversa motivazione nella minaccia ai confini da parte della Russia che aveva invaso la regione armena dell’Anatolia. Seguì una campagna di persecuzioni, decine di migliaia gli arrestati e torturati, migliaia i morti in una serie di province, tranne quelle occupate dai russi.
Nonostante l’eroica resistenza degli Armeni assediati e le proteste di Germania e Austria, alleate della Turchia, la “pulizia etnica” fu inesorabile: nel 1915 addirittura fu pianificato lo sterminio dei maggiori di 43 anni, fino ad allora impiegati nei lavori per sostenere lo sforzo bellico, mentre i giovani erano stati eliminati con i continui massacri, e le donne e i bambini seguirono la stessa sorte, per le ragazze giovani c’era l’alternativa perversa della destinazione agli harem e ai bordelli.
Le deportazioni di massa, come le “marce della morte” dai campi di sterminio nazisti, facilitavano il Genocidio in quanto radunavano i condannati all’eliminazione, li decimavano con la fame e gli stenti dei trasferimenti per poi giustiziare i sopravvissuti, e confiscarne i beni, per un valore che nel 1916 ammontava a un miliardo di marchi.
Tutto questo è dimostrato da prove raccolte a livello internazionale, come è documentato il numero spaventoso di vittime che ha portato alla quasi completa eliminazione di un popolo. Il primo censimento della repubblica turca nel 1927 contò meno di 125.000 Armeni, salvatisi o perché vicini alle ambasciate, o protetti dai tedeschi, o fuori dall’area di intervento dei turchi. Mentre prima dell’eliminazione sistematica culminata nel 1915 il numero di Armeni oscillava tra i 2.400.000, stimato dal governo ottomano nel 1878, e i 2.100.000 stimati dal Patriarca nel 1912; mentre l’Atlante ufficiale ottomano per il 1892 riporta 1.475.000 armeni. Cifre che, qualunque sia la più attendibile, confrontate con i 125.000 superstiti danno la misura dell’olocausto armeno.
Nella mostra non c‘è la ricostruzione storica, solo alcuni dati, lo scopo è prendere lo spunto dalla celebrazione del centenario per guardare avanti, facendo conoscere un popolo armeno che ha resistito vittoriosamente al tentativo di eliminarlo trovando forza e motivazioni per avere un ruolo da protagonista nella vita attuale con le sue radici storiche e culturali e le attrattive del territorio.
Insieme al Catalogo è stato realizzato un volumetto sul genocidio armeno, con il sottotitolo significativo “La storia di una rinascita”. Oltre a “uno sguardo storico sul genocidio degli Armeni”, all’accorato ricordo dell’ “ombra lunga del 1915” di Antonia Arslan, l’autrice del romanzo-denuncia “La fattoria delle allodole”, e alla testimonianza di “Wegner, il Lawrence degli Armeni” raccontata da Gian Antonio Stella, ci sono due interventi significativi: “I giusti ottomani nel genocidio armeno” , “Il genocidio degli Armeni e l’impegno e la solidarietà dell’Italia”.
Nel secondo viene ricordata la denuncia sulla stampa italiana dei massacri – tra cui una copertina della “Domenica del Corriere” nel maggio 1909 e un titolo in prima pagina sul “Messaggero” nell’agosto 2015 – fino alla fondazione a Torino della rivista “Armenia” nell’ottobre 1915 che ebbe il plauso di Antonio Gramsci. Inoltre vengono sottolineati i Comitati pro Armenia sorti in diverse città italiane, e la fondazione da parte di Luigi Luzzatti nel 1918 del “Comitato italiano per l’indipendenza dell’Armenia”, progetto politico votato il 26 novembre dello stesso anno, il primo ministro Orlando assicurò a Luzzatti “che io fo mia la loro causa”, anche se potette fare ben poco per l’andamento delle trattative di pace e la caduta del suo governo..
Il primo intervento riguarda l’esistenza dei ” giusti ottomani” , tra i quali uno “Schkindler turco”, l’ industriale che salvò molti Armeni impiegandoli nelle sue fabbriche : ciò rientra nell’intento di pacificazione che fa onore agli Armeni, e per questo abbiamo voluto ricordare noi qualcosa in più rispetto alla mostra della loro tragedia, e rinviamo al volumetto unito al Catalogo, oltre che a un nostro precedente scritto del 2010 per conoscerla meglio.
Chiudere gli occhi dinanzi ai fatti della storia, anche aberranti, è una cosa negativa per tutti, e ancora di più per i turchi se continuano nel negazionismo.
Ripetiamo le parole del presidente degli Armeni in Italia: “E’ un’ostinazione che fa male alle giovani generazioni di turchi che non potranno mai in questo modo essere veramente liberi di guardare al futuro”. Perciò nel ricordare il Genocidio la mostra non guarda al passato ma apre una finestra sul futuro.
Info
Complesso del Vittoriano, Via San Pietro in Carcere, lato Fori Imperiali. Tutti i giorni, compresa domenica e lunedì, ore 9,30-18,30, si entra fino a 45 minuti prima della chiusura. Ingresso gratuito. Catalogo Skira. Segreteria mostra tel. 06.6780664-06.6780363. Organizzazione tel. 06.3225380. http://www.comunicareorganizzando.it/; info@comunicareorganizzando.it , tel. 06.3225380. Catalogo “Armenia. Il Popolo dell’Arca”, Skira 2015, pp. 174, formato 16,5 x 24; “A cent’anni dal genocidio armeno. La storia di una rinascita”, Skira 2015, pp 62. Per il nostro precedente approfondimento del genocidio armeno, cui rinviamo a conclusione del resoconto della mostra, cfr. in “cultura.inbruzzo.it” , i nostri 2 articoli del 2010, corredati da immagini eloquenti: “Il Genocidio armeno ricordato a Forca di Valle (Te)” 30 novembre, e “Le prove del Genocidio armeno, e il modernismo a Forca di Valle (Te)” 29 dicembre.
Foto
Le immagini sono state riprese alla presentazione della mostra nel Vittoriano da Romano Maria Levante, si ringrazia Comunicare Organizzando di Alessandro Nicosia con l’Ambasciata armena in Italia e i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. In apertura, “Capitello con altorilievo della Vergine e del Bambino”, V-VI sec.; seguono “Capitello con scena della Crocifissione e san Giorgio”, V-VI sec., e “Croce in pietra con iscrizione”, 1477, (a sin.), “Khachktar“, XIII-XIV, (a dx.) sec.,; poi, “Portale di chiesa con rilievi scultorei e iscrizione “, 1176, e Tappeto Astghahavk”, XIX sec.; quindi, “Croce con reliquie di san Giorgio” , 1746, e “Vangelo di Mike”. Gli evangelisti Matteo e Luca, 862; inoltre, “Vangelo di Trebisonda” . Tavole di concordanza,X-XI sec., e “Il Romanzo di Alessandro”. Arrivo di Alessandro a Menfì, 2^ metà XIV sec.; ancora, “Timpano di portale”. Altorilievo raffigurante Dio Padre, inizio XIV sec., e “Lapide con iscrizione in armeno”, V sec.; infine, “S. Flabello con innagine di serafino”, 1808, e, in chiusura, “Tenda liturgica”, 1689.