di Romano Maria Levante
Al Vittoriano, dal 12 al 25 novembre 2015, la mostra “Tra materia e anima, tra memoria e tempo” espone le opere di A. T. Anghelopoulos e di Andrea Pinchi, apparentemente molto diverse ma tra le quali non mancano i collegamenti se viene approfondita l’analisi, come fa Claudio Strinati, curatore della mostra e del Catalogo di Gangemi Editore. Sono esposte circa 50 opere, dipinti in acrilico e tecnica mista su tela per il primo, in materiali vari come catrame, gesso, multistrato come supporto, legno e pelle negli elementi della composizione, regolarmente datati perché spesso di epoca antica, con i segni del tempo. Anche questo un messaggio da decifrare. Le differenze? Viene da osservare nell’immediato che il primo è astratto nelle sue immagini cosmiche, pur se le superfici sono rugose e tangibili, quindi concrete; il secondo è concreto nei materiali impiegati, di uso comune e datati come vini d’annata, pur se con intitolazioni criptiche, quindi astratte.
E’ un’altra mostra con due artisti, ricordiamo, tra quelle recenti, la mostra al Vittoriano con la Romano e la Del Monaco nel 2014 sotto il titolo eloquente “Similitudine & contrasto”, la mostra in atto alla RVB Arts con Marco Spaggiari e Luca Zarattini, “Interno 108”, e prima, nella stessa galleria, la mostra della Cafagna con la Thwaites, e la mostra alla galleria Russo “Match 2015. Critici a confronto” , ognuno dei due critici preentava due artisti scelti per l’analogia o la diversità.
In questo caso Claudio Strinati spiega il collegamento possibile tra due visioni molto diverse, quasi opposte: le astrazioni dal cromatismo omogeneo e moderato di Anghelopulos e i quasi collage dalle tinte vivaci di Pinchi. Li collega premettendo che “dal punto di vista dello stile e dell’espressione Anghelopoulos e Pinchi non hanno molto in comune” prospettando “una comunità di intenti non implicante una somiglianza esteriore ma una sintonia profonda di risultati creativi”.
Seguiamo il percorso del critico, che dalle sue stesse parole si rivela arduo perché “la vicenda di Anghelopoulos è più lineare e consequenziale, quella di Pinchi apparentemente anomala e alquanto insolita, eppure altrettanto seria e determinata”.
Che cosa li unisce, dunque, a parte la serietà e la determinazione? Anghelopoulos si è interessato alla musica, di casa nella sua famiglia, anche prendendo lezioni di chitarra classica, la sua formazione è figurativa anche se approda nell’astrazione. Pinchi è un musicista di organo, da tradizione familiare, come artista figurativo trae ispirazione dagli strumenti musicali, i cui pezzi avulsi dal contesto compongono uno spazio immaginario pur se con basi reali. Di qui le “analogie profonde” delle mentalità di due amici i cui riflessi nell’espressione artistica si possono cogliere soltanto “quando si entri realmente nel concreto dell’opera”, cosa che genera “pensieri, riflessioni, commenti”.
Il “disimpegno” di Anghelopoulos
La prima riflessione riguarda Anghelopoulos, e il suo “disimpegno” espresso esplicitamente nell’opera “Disengagement”, il Dio disimpegnato, che va in direzione opposta rispetto al concetto di “arte impegnata” diffuso dopo l’impressionismo fino ad assumere un valore politico. Così Strinati lo definisce: “E’ quel luogo dell’arte posto al confine tra un territorio e l’altro, il territorio dell’evidenza e della forza espressiva e quello del mistero e della sparizione”.
La sparizione riguarda non solo l’oggetto raffigurato, ma la volontà dell’artista di rappresentarlo. E qui l’analisi di Strinati si addentra nel territorio dell’essere e non essere, un “to be or not to be” artistico ed esistenziale. Per l’artista il “non esserci” corrisponde “all’ingresso in una dimensione analoga a quella che in matematica si rintraccia nei numeri ‘negativi’, nel ‘meno uno’ e così via”; Anghelopoulos, in particolare, “si sottrae, e lo mostra in visione, al confronto con l’impegno esistenziale per sprofondare in un’altra dimensione che retrocede rispetto all’ingresso in quello che viene percepito come reale e quotidiano”.
Una dimensione, non fantastica né onirica, ma meditata, che evoca le scoperte e i problemi insoluti della ricerca scientifica sull’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo, dall’antimateria ai buchi neri, dai neutrini alle altre particelle nell’alternanza o compresenza di massa ed energia. “Sono quesiti innumerevoli e traumatici – osserva Strinati – tendenti tutti a farci pensare che esista un altrove che è la vera realtà e quello che percepiamo sia apparenza al di là della quale c’è, appunto, l’‘oltre'” . Un “oltre” evocato dagli equilibri rigorosi che regolano il mondo degli astri come quello degli atomi, mentre nella nostra percezione non si avverte l’ordine che regna nell’immensità dell”universo e nella microscopica composizione della materia.
“L’arte di Anghelopoulos sembra mossa da tale istanza”, afferma il critico, le sue opere fanno pensare a “crateri lunari, visioni satellitari, filamenti celesti, viaggi in mezzo a cieli densi di nuvole pesanti e tempestose”, e cita Klee e Rothko; e parla anche di “visioni in cui non si riesce a scorgere più nulla, una specie di ritorno al futuro”.
Lauretta Colonnelli aggiunge un riferimento a Dalì, Magritte e Schifano e, dinanzi alla molteplicità dei suoi interessi culturali, dalla musica alla letteratura fino alla fotografia e alla pittura, cita il Rinascimento, “quando un artista era anche scienziato, letterato, filosofo, musicista” e il grande Michelangelo.
E riporta un’affermazione dello stesso Anghelopoulos: “L’arte non deve copiare la realtà ma tornare ad amare l’uomo, provocarne l’intelligenza, portare l’osservatore in una dimensione che trascenda il reale, nella quale proprio l’uomo sia il centro di tutto, di ogni pensiero, di ogni progetto, di ogni fine”.
Viene evidenziata la difficoltà di andare oltre l’apparenza con le superfici tormentate da scaglie e rugosità tra le quali traspare soltanto qualche piccolo lembo di azzurro nelle sue opere ispirate ai cieli. In quelle più recenti la tendenza all’astrazione prevale con un cromatismo che utilizza anche l’oro giottesco e bizantino, pur con squarci evanescenti.
L’oro lo vediamo nei rilievi rugosi longitudinali di “God Disengagement”, 2013, alternato a rilievi bianchi, e nei piccoli mosaici su parti limitate dell’ampia superficie grigia di “Weave”; mentre è grigia la “Superficie fratturata bianca”, 2012, la cui conformazione è analoga a quella di “God Disengagement”; da questa superficie fratturata omogenea , in un’opera del 2011 spuntava una mano, è come se l’anno successivo questo varco si fosse richiuso, lasciando solo una piccola fenditura blu. In “Inner Sky”, 2012, il cielo di un azzurro intenso sembra un planimetria urbana vista dall’alto, con tracciate le linee e gli agglomerati bianchi. La serie “(Under The) Dense Sky”, 2013, invece, mostra fratture quadrangolari dalle quali si intravede l’azzurro-blu sottostante.
Un cromatismo cangiante dall’ocra al marrone nelle serie “Passages” e “Untitled”, 2014 e 2015, senza rilevi rugosi né fratture sulla superficie a disvelare la parte sottostante: si va sempre più verso l’astrazione. L’abbinamento in un trittico di tre opere, “Untitled” in biacca grigia, “Passages” in ocra-oro compatto e “God Disengagement”in biacca e oro segnano il passaggio dall’Inferno al Purgatorio, quindi al Paradiso: una lucertolina esce dalla superficie compatta di “Untitled”, come aspirazione alla rinascita, l’Inferno non viene demonizzato perché, secondo l’artista, “se esiste un inferno questo è sulla terra”, e l’oro non trionfa nel Paradiso ma piuttosto nel Purgatorio, “perfino nell’aldilà c’è disordine”, commenta la Colonnelli. Ricordiamo l’Inferno nei disegni di Rodin, nei dipinti di Roberta Comi, e le tre cantiche in quelli di Testa.
Andando indietro nel tempo nella produzione dell’artista, “The Storm”, 2009, con le ondate blu e bianche che sembrano abbattersi, evoca effettivamente la rappresentazione realistica di una tempesta, e anche “Flowers” , 2010, ha del figurativo nel suo intenso cromatismo rosso con macchie bianche e nella forma compositiva.
Nella serie “Flying Houses”, 2012, sulla superficie rugosa grigia si intravvedono, appena percettibili, casette infantili su ruote; mentre cambia tutto con gli antecedenti “Me Shooting”, 2009, e “The Camera Man”, 2010: domina il figurativo, si distingue chiaramente il fotografo che punta la camera verso l’obiettivo.
Proseguendo la rassegna all’indietro, i due disegni a matita “Vita Interiore – Inner Life. Androide” sembrano in perfetto stile figurativo, raffigurano due volti con i lineamenti delicati, con e senza occhiali scuri. Ma c’è qualcosa di più e di diverso, anzi di anomalo per il ritratto nell’accezione corrente. L’orecchio destro di uno dei due volti e la fronte dell’altro sono occupati, diremmo deturpati da un vistoso quanto misterioso meccanismo applicato come una protesi.
Siamo nel 2007, potrebbe sembrare un tentativo sperimentale d’avanguardia poi abbandonato. Invece nel 2014 una nuova “Vita Interiore – Inner Life” senza la qualifica di “Androide”: questa volta mostra il delicatissimo profilo della “Bella Principessa” – attribuita a Leonardo a parte la notizia odierna dell”autodenuncia di un presunto falsario – con un ingranaggio come negli orologi che inizia nell’orecchio destro e poi si prolunga con un sottile collegamento sulla spalla.
Le parole dell’artista ci aiutano a penetrare il mistero di questa inattesa protesi, come della protesi ai due volti raffigurati nelle due opere citate del 2007: “Ho voluto raffigurare il suo lato nascosto, il lato sottratto per sempre agli sguardi del mondo e per ciò stesso metafora del mistero che circonda la vita interiore del soggetto ritratto”. E più chiaramente: “Quel personaggio è realmente esistito nella sua unicità, anzi è vivo, come è vivo il mistero che, attraverso i secoli, ella, come ciascuno di noi, porta con sé”.
Secondo la Colonnelli è il mistero della vita interiore, “sempre più misera e inaccessibile” nell’uomo che “non è più la magnifica creatura celebrata da Leonardo e dai pensatori suoi contemporanei, ma una macchina vivente totalmente manipolabile”. E non si deve dimenticare, aggiungiamo noi, che Leonardo da Vinci allo studio e alla rappresentazione dell’anatomia umana univa l’invenzione e la rappresentazione delle macchine più diverse, per cui l’associazione di idee nella “Bella Principessa” appare logico. Ma questa invenzione non nasce con l’opera attribuita a Leonardo, bensì l’abbiamo vista applicata nel 2007 a volti fotografici legati all’attualità.
Sono gli anni, dal 2007 al 2010, delle “Tiny Town”, la serie di plastici di precisione assimilabili ai circuiti stampati di apparecchiature con transistor, che vediamo in piccoli riquadri alle pareti e in una grande vetrina orizzontale di 1 metro e 30 cm per 1 metro; con la sua estensione sembra il plastico planimetrico di una città, in smalto e legno, in colore bronzeo, preparato con maestria artigiana e senso artistico.
“Una curiosa perplessità transita in tutte le sue immagini – commenta Strinati – e ci restituisce la figura di un artista che sa essere serio e ironico nel contempo lasciandoci la più ampia libertà di apprezzamento del suo lavoro”. Concordiamo con questa valutazione del critico che interpreta in tal modo – cosa inusuale nelle criptiche considerazioni di certa critica contemporanea – il nostro pensiero, che è quello del visitatore.
Le “macchine inutili” di Pinchi
Strinati definisce Andrea Pinchi “stralunato fabbricatore di oggetti fatti di elementi creati per funzionare, come le canne d’organo ed altri componenti degli antichi strumenti, e che egli smonta e rimonta per costruire quella sorta di ‘macchine inutili’ che ci riportano verso remote esperienze di marca dadaista e surrealista “.
Ma sono davvero inutili? Certo non più idonee alla funzione per la quale sono state ideate e realizzate nella loro integrità originaria; bensì lavorano, sempre secondo Strinati, “per fare ordine e pulizia nella nostra percezione e per indurci dunque a cogliere quel momento determinante, anche questa una sorta di crinale in cui un motto scherzoso può diventare la quintessenza di una scoperta della mente”.
A questo discorso serio e impegnato si aggiunge una considerazione più leggera: “Tutta l’arte divertita e divertente di Pinchi è una provocazione. Ma una provocazione buona che non deride l’osservatore ma anzi lo attira in una sorta di ‘simpatia’ esistenziale che anzi lo incita a entrare in un universo espressivo confinante col mondo della favola e dell’infanzia”.
Il riferimento “serio” è al “Reattore di idee pulite”, 2011, in due versioni, vediamo le canne da organo rivolte verso l’alto di altezza crescente, le più piccole nella “Prima generazione” sono cilindriche, nella “Seconda generazione” a tronco di cono; è costruito con “legni del XVII-XVIII secolo”. Sembrerebbe un assemblaggio volto a ricostituire alla bell’e meglio l’organo musicale, invece – nota Strinati – “qui tutto interessa meno la funzione, l’oggetto è stravolto rispetto a quello che forse avrebbe potuto essere e l’artista lo ha trasformato in una sorta di giocattolo metafisico con cui esplora le nostre percezioni”. E si chiede: “Che cosa riconosciamo o crediamo di riconoscere?”.
Una trasmissione nella prima fase della nostra televisione, più di mezzo secolo fa, sfidava i concorrenti a riconoscere “l’oggetto misterioso”, ma in quel caso corrispondeva a un oggetto reale anche se ripreso parzialmente, quindi indecifrabile; questa invece è una ricostruzione provocatoria, quindi non può richiamare nulla di reale ma qualcosa che la nostra fantasia associa a percezioni indistinte.
“Pinchi mette ordine in un materiale che ci è pervenuto logoro e dissestato da un tempo impreciso ma remoto e lo assembla nel contesto artistico che ci porta lontano le mille miglia da quelle origini eppure ce le ricorda sempre”, è ancora Strinati che si chiede “per arrivare a cosa?” e dà questa risposta: “Alla pulizia della mente, come recita il suggestivo titolo di quelle opere, alla chiarezza mentale”. Del resto, quello presentato dall’artista è un ordine “irrazionale probabilmente ma non certo irragionevole”.
Non c’è in lui la “meditata sparizione” che si rileva in Anghelopoulos, ma l’opposto, “una altrettanto meditata messa in evidenza”; però il fatto che il significato degli elementi presentati “si è perso nei meandri della storia” fa sì che venga riaffermata “una immagine di libertà creativa componendo e scomponendo gli elementi” senza il vincolo della realtà anche se sono dei veri oggetti. Questo “nel nome di una idea di armonia e bellezza che apprese fin dalla prima giovinezza nel campo della musica a lui così congeniale”. E tutti sappiamo come la musica apra gli orizzonti più vasti legata com’è allo spirito non alla materia.
Sono in legno, questa volta del XV secolo, al pari del “Reattore di idee pulite”, “Fiera Fiera” e “Fulginia perpetua fulgens?”, due sculture alte 80-90 cm poste al centro della sala alle cui pareti spiccano i colori brillanti dei suoi collage materici, e il cromatismo più tenue, a parte “Inner Sky”, di Anghelopoulos che tuttavia, con le sue “Tiny Town” si pone visivamente su una lunghezza d’onda assimilabile a quella dell’amico Pinchi.
Alle due sculture associamo, per la verticalità, due opere del 2011. La prima è “Stessa forza del Bis”, in “acrilico, pelle del 1846 e stagno del 1867 su multistrato”, la pelle del 1846 torna in altre opere e la meticolosa precisazione dimostra il valore attribuito dall’artista all’utilizzazione di vecchi materiali estraniati nel contesto del tutto nuovo, del resto è il segno del tempo impresso nella materia. l titolo ci fa pensare alle performance musicali reiterate a richiesta insistente del pubblico, a questo forse alludono le punte di diversa altezza che si protendono verso l’alto, come nelle ovazioni per il bis. Altra opera in verticale è “Geist # 1“, su fondo verde scuro tre livelli diversi, dal pesante blocco alla base ai grossi filamenti fino alla pioggia di elementi, quasi dei proiettili che cadono dall’alto.
Molto diverso “Geist # 3”, che alla pelle, questa volta del 1833 e 1922, aggiunge piombo del 1922: vediamo un vessillo triangolare sopra a 5 apparenti bersagli, come in un poligono di tiro, su un fondo rosso intenso. L’opera è del 1912, è esposta un’opera con lo stesso soggetto e forma compositiva, in legno del XX secolo, diverso è il fondo nero invece che rosso, molto diverso anche il titolo, “Marcia libera mesotonica“.
Notiamo il fondo di un rosso intenso in altre 4 opere. La prima, del 2010, “Anima in fiamme”, con tre elementi verticali in “pelle del XVIII secolo” su un compensato lamellare; le tre restanti, del 2012, sono “Well, it’s a real big mess!”, la grande mensa è resa con un agglomerato di elementi non identificabili in una confusione creativa; “Shack Jack forever # 1”, titolo misterioso per 9 quadrati chiari con un ampio foro al centro nel quale spicca il fondo rosso , sembrano dei bersagli, l’elemento di maggiori dimensioni nel bel mezzo; “Tertium datur (the Outsider # 2”, tre elementi circolari aventi un foro al centro collocati a triangolo con alcuni elementi lineari di collegamento tra i due superiori, sono ritagliati in una pelle del XVIII-XX secolo; presumibilmente si contesta l’antico adagio presentando un terzo elemento parte della composizione pur non essendo collegato agli altri due.
Il rosso è presente non come fondo ma come elemento della composizione in 2 opere del 2011, “Le estati di San Martino”, 6 strisce verticali disposte a quadrato, con l’acrilico c’è anche il gesso e la pelle del 1768 su multistrato; e “Onan il barbaro”, su fondo nero, oltre al rosso centrale c’è un filamento verde verso l’alto e un piccolo riquadro chiaro.
Su fondo nero lo stesso rosso brillante in 3 opere del 2014: “Gala tra anime e cuori”, in cui l’elemento del’opera precedente ripetuto due volte come dei gradi, è tra elementi con punti neri e due scritte “Tutto si concede” e “A chi porta luce”; in “Villa Borghese” e “Nanà sweet harmony”, la pelle è rispettivamente del 1881 e 1775, c’è il medesimo elemento con cerchi rossi, nel primo due in un riquadro con scritte, nel secondo uno con filamenti e scritte che cadono dall’alto.
Il nero domina in 4 opere del 2011, due intitolate alla luna, “Walking on the empty Moon” e “Walking on the Moon”, nella prima al fondo nero si aggiunge, nel rettangolo centrale, il nero delle 4 colonne ciascuna di 6 cerchi con un’ultima fila in alto di 7 cerchietti, mentre nella seconda gli stessi elementi geometrici sono di tinta chiara; in “Toxic”, dello stesso anno, i 12 cerchietti delle 3 colonne centrali sono rossi, il resto è simile. Sempre del 1911 vediamo “Dito intatto”, un quadrato con gli angoli superiori di stagno del 1867 staccati dal multistrato di base e ripiegati verso il basso.
Lo sfondo è nero anche in “Piume di stelle”, 2010, oltre al gesso il catrame e la pelle del XVIII secolo su multistrato, in questo caso il titolo rende ciò che mostra la composizione; così “She had a good flight (Mercurius says)”, sembrano delle sigarette che evocano un volo tranquillo. Con “Closer Nr. 3 (I wanna ride you”, il titolo torna criptico, sono lembi di pelle del 1938 allineati e volti verso l’alto, con parti scure in catrame.
Infine due opere del 2015, “Talis et claris” su fondo nero una sorta di scacchiera con 20 piccoli quadrati con le diagonali evidenziate, uniti in un rettangolo, è stata utilizzata questa volta la tela del 1848; e “Agnettomio”, su fondo bianco, acrilico e legno del XVIII secolo. Due titoli in cui spicca lo humor dell’artista.
Conclusione
Le opere di Pinchi e di Anghelopoulos, esposte nelle pareti opposte delle due sale al Vittoriano, per motivi diversi suscitano stimoli e pongono interrogativi per il visitatore. Non sempre l’astrazione è incomprensibile e non sempre il realismo di materiali ed elementi di uso comune è comprensibile. Il mistero della creazione artistica si ripropone ed è meritorio che ci siano questi momenti di riflessione unita al divertimento, vuol dire che la provocazione degli artisti ha colto nel segno.
Per questo si può convenire con la conclusione di Strinati che è anche la nostra conclusione: “C’è un bellissima e serrata dialettica in questa mostra, dove l’evidenza dell’espressione e la complessità dei contenuti si guardano reciprocamente per darci un momento di vero interesse e meditazione sui meccanismi stessi di funzionamento della creazione artistica”.
Info
Complesso del Vittoriano, ala Brasini, Salone centrale, lato Fori Imperiali, via San Pietro in carcere. Tutti i giorni ore 9,30-19,30, ingresso fino a 45 minuti dalla chiusura . Tel. 06.6780664. Ingresso gratuito. Catalogo “Tra materia e anima, tra memoria e tempo. A. T. Anghelopoulos, Andrea Pinchi”, Gangemi Editore, novembre 2015, pp. 112, formato 24 x 28, dal catalogo sono tratte le citazioni del testo. Per gli artisti e i temi citati cfr., in questo sito, i nostri articoli sulle rispettive mostre: Klee 1° e 5 gennaio 2013, Dalì 28 novembre, 2 e 24 dicembre 2012, Rothko, nella Collezione del Guggenheim 22 e 29 novembre, 11 dicembre 2012, Michelangelo (e Raffaello) 12, 14 e 16 febbraio 2012; per le mostre con 2 artisti, al Vittoriano Romano e Del Monaco 26 aprile 2014, alla galleria RvB Arts, Cafagna e Thwaites 22 ottobre 2015, Spaggiari e Zarattini 9 novembre 2015; per le rappresentazioni dell’Inferno, Rodin e Roberta Comi 20 febbraio 2013 e Gianni Testa 14 settembre 2014; per “Meteoriti” 5 ottobre 2014 , “Numeri” il 23 e 26 aprile 2015.
Foto
Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nel Vittoriano alla presentazione della mostra, si ringrazia “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia con i titolari dei diritti, in particolare i due artisti Anghelopoulos e Pinchi, per l’opportunità offerta. In apertura, A. T. Anghelopoulos, “Vita Interiore – Inner Life”, 2014; seguono, dello stesso autore, “God Disengagement”, 2013, e “Untitled”, 2014; poi, “Under the Dense Sky”, e “Inner Sky”, 2012; quindi, “Sulle orme di Dante (Trittico)”, particolare di Paradiso e Purgatorio, da sin, l’Inferno segue a dx , e “Tiny Town” ,2010; .inoltre, di Andrea Pinchi, “Tertium datur (The Outsider # 2)”, 2012, e, dello stesso autore, “Nanè sweet harmony”, 2014, ancora, “Geist # 3”, 2012, e “Walking on the empty moon”, a sin,, “Toxic”, a dx, entrambi 2011; infine, “She had a good flight (Mercurius says)”, 2012, e “Gala tra anime e cuori”, 2014; in chiusura, “Well, it’s a real big mess!”, 2011.