di Romano Maria Levante
Abbiamo frugato in “Un vecchio zaino di ricordi” di Clorindo Narducci, il compianto Angelino, il grande alpinista, guida alpina che ha aperto nuove vie di difficoltà estrema sul Gran Sasso d’Italia, scomparso il 27 giugno 2016, restando ammirati dal suo amore sviscerato per la la montagna, da lui descritta in termini incantati di fronte alla bellezza naturale e spirituale che vede e sente irradiarsi: dalle albe e dai tramonti, dai fiori e dai boschi, dalle verdi vallate e dalle cime rocciose.
Non è una montagna generica, è la “sua” montagna, il Gran Sasso dove ha vissuto nei due versanti, uniti e non divisi dalla catena montuosa: la prima parte della vita, in particolare infanzia e giovinezza, nel versante teramano a Pietracamela, la seconda parte della sua vita nel versante aquilano a Fossa, con la residenza portata vicino al luogo di lavoro.
Già abbiamo ricordato le espressioni rivolte al suo paese di adozione, definito “luogo delle beatitudini”. E anche la sua esclamazione “paese mio, non ti ho scordato e non ti scorderò mai”: che non l’ha dimenticato lo dimostra il secondo aureo libretto, “Pietracamela. Tra storia e leggenda”, Demian Edizioni, 2014, nel quale scende idealmente dalla montagna alla ricerca delle radici di quel retaggio di usi e costumi, tradizioni e valori di cui è orgoglioso e che non vuole vadano dispersi.
Seguiamolo passo passo anche in questa impresa, estremamente impegnativa per un montanaro la cui passione unita alla tenacia riesce a fargli svolgere una ricerca storica molto personale, che utilizza la logica più che gli scarsi reperti; una logica alimentata dalla propria visione idealizzata. Questa volta l’idealizzazione non è rivolta alla natura ma alle radici umane, nasce dalla constatazione che solo esseri straordinari potevano superare le inenarrabili difficoltà di un luogo inospitale e isolato, e creare una comunità rinserrandosi nel “borgo murato” superando cimenti ardimentosi. E si cimenta anche in un campo estraneo a lui, uomo di montagna, quello linguistico: l’amore per l’idioma della sua terra, il “pretarolo”, lo porta a inserire al termine del libro un glossario dei vocaboli a lui più noti, può essere l’avvio di un vero Dizionario da comporre partendo da questa base iniziale fortemente evocativa.
Dalla montagna al borgo, dal Gran Sasso a Pietracamela
L’evocazione del suo paese è preceduta dall’immersione nella montagna, “la montagna vera, chiesa madre, maestra di umanità, sorgente di vita, luogo di pace”, vissuta da semplici escursionisti oppure da provetti alpinisti, perchè “non vi è differenza” se non dal lato tecnico: “Il merito, l’orgoglio, la gioia sono sullo stesso piatto d’argento, per essere offerti come una preghiera bellissima a quel Dio che ci governa e che quassù ci è un po’ più vicino e non solo perché siamo più in alto, ma perché il nostro animo è più disposto a riceverlo e onorarlo”. La montagna è per tutti: “E’ un universo bello, dove l’uomo trova pace, tranquillità e soprattutto la gioia di vivere. Ognuno ritrova se stesso immerso nella natura a totale completamento di essa”.
Un’immersione estasiata, nei boschi secolari “si scopre un mondo nuovo, un mondo di folletti, si respira un’aria pungente, impregnata del sapore acre del muschio, sovrastato dal profumo dei frutti del bosco, dai mille gusti e con tanti colori”. Dagli odori e dai colori ai suoni, “che vanno dallo stormire delle foglie mosse dal vento al canto degli uccelli o al rumore secco di uno scoiattolo impaurito, che rompe un ramoscello e fugge via lontano, fra i rami che sono la sua casa”. E la vegetazione, dai licheni alle felci, dai funghi alle bacche, tra “piccole sorgenti di acque sempre molto fresche, che rotolando verso il fondo valle cantano l’eterna canzone dei grandi alberi che le sovrastano”.
Non è soltanto ammirazione estasiata, è prodigo di consigli per approfittare di tutto questo e di raccomandazioni per evitare i pericoli. E conclude: “Che cosa si può immaginare di più bello che camminare in mezzo ai fiori? Sembra di essere in paradiso: mentre si avanza si apre un invisibile sentiero come il mare davanti a Mosè… Quanti fiori! Una sinfonia di colori… Ultimo, ma non ultima, l’aria sana, pulita, pura e frizzante. Tutto questo, e non è poco, è la montagna”.
Montagna che appare in tutta la sua bellezza percorrendo la tortuosa strada provinciale che sale da Ponte Arno in un ambiente a prima vista “inospitale e a tratti tenebroso”. Superato l’ennesimo tornante, “appena completata la svolta, esplode l’orizzonte: la visuale si allarga, riappare il sole con tutto il suo splendore e si ha di fronte Lui, in tutta la sua maestosa bellezza”. E chi è Lui? “Sua altezza il Gran Sasso, il Gigante d’Abruzzo, che sta lì immoto nei secoli, con tutta la lunghezza della sua catena, a formare la spina dorsale dello Stivale, cioè l’Italia nostra”.
A questo punto in mezzo al verde, in alto, appare lei: “Pietracamela. Elegante e snella ma superba come una nobildonna dell’ottocento. Contornata e protetta: dal Rio Porta a sinistra e dal Rio d’Arno a destra. Un’immagine irreale, un quadro affrescato da un Angelo del Paradiso, come se aspettasse di essere appeso alle pendici di Capo le Vene, a completamento di quel mondo dai mille colori e dai tanti aspetti”. Con la montagna,”il Gran Sasso, a totale protezione dello splendido Borgo”.
Angelino si dedica esclusivamente alla ricerca delle radici del paese natale, dove sono anche le proprie radici, quelle della sua famiglia. Di queste ha parlato nel primo libro tirando fuori da “un vecchio zaino di ricordi” la descrizione delle tre ascensioni dell’insigne botanico D’Amato, di cui il nonno era la guida, che conclude: “Commetterei ora un imperdonabile errore di omissione se non raccomandassi caldamente agli ascensionisti sul Monte Corno la Guida Giuseppe Narducci di Pietracamela, e ciò è unicamente nel loro interesse”, siamo nel 1873. Inoltre ricorda la scoperta casuale sul tetto della propria casa a Pietracamela di un “pinco”, un coppo con l’iscrizione datata “24 luglio1582” attribuita ai suoi antenati, creando un collegamento forte tra le origini della sua famiglia e quelle del suo paese, e rivendicando tale nesso indissolubile.
Gli abitanti
Ora, nella sua ricerca appassionata, con pochi elementi disponibili, interroga se stesso, in un commovente attaccamento.
“I pretaroli li conosco bene e posso affermare che non sono stati mai secondi a nessuno. La primitiva stirpe ha prodotto uomini geniali, che si sono distinti in tutti i campi: la medicina, la pittura, le lettere, le scienze. In poche parole sono molti coloro che con le loro imprese e le tante opere hanno reso grande il nostro piccolo Borgo Murato”. Ricorda Ernesto Sivitilli, fondatore del gruppo “gli Aquilotti del Gran Sasso”, i primi valligiani che si dedicarono all’alpinismo, prima riservato “a pochi eletti cittadini” – precedendo gli “Scoiattoli” di Cortina e i “Ragni” di Lecco – dei quali cita i precursori, tra cui i grandi alpinisti, guide emerite e Accademici del CAI Bruno Marsilii e poi Lino D’Angelo, fino agli attuali componenti del gruppo; e cita il pittore Guido Montauti, la sua arte e le sue “Pitture rupestri” del Pastore Bianco.
Risalendo ai più antichi progenitori che hanno creato il borgo si chiede: “Sono venuti, poco alla volta e in varie zone di tutto il territorio o forse tutti insieme? E quale fu il vero motivo che li spinse a migrare e da dove venivamo, per la conquista di quelle che all’epoca dovevano essere delle lande alquanto inospitali, oltre che deserte? Era un’unica comunità oppure erano di più origini?”.
Per rispondere in modo documentato occorrerebbero elementi di cui Angelino non dispone, ma non si arrende per questo, adotta il metodo personalissimo di trarre conclusioni da ciò che sente con la sua sensibilità: “Di una cosa ho certezza incrollabile: i fondatori di Pietracamela erano persone speciali, una razza forte e con sani principi… il mo istinto mi dice che quel popolo era formato da uomini che avevano un unisco scopo: la sicurezza dell’intera comunità”, di qui la scelta dell’ubicazione, il “nido d’aquile” in una zona inospitale, arroccato alla base della montagna.
Considera innanzitutto l’ipotesi di diverse etnie con propri usi e costumi e propri dialetti, ma ne prende subito le distanze: “Qui i dubbi che sorgono sono molti. Questo popolo così composto, come una piccola babele, con linguaggi diversi tra loro, con usi e costumi probabilmente incompatibili gli uni con gli altri, certamente non avrebbe avuto vita facile. Conseguenza logica la incompatibilità in tutti i sensi e il risultato una chiara conseguenza: quasi certamente Pietracamela e quindi i pretaroli, non esisterebbero”. Dato che un evento impellente sembra essere alla base della scelta di una località impervia dove stabilirsi, l’ipotesi più coerente è che fosse un’unica comunità “forzata chissà da quale causa da noi ignorata ad abbandonare la madre patria per andare in luoghi più sicuri”.
Quindi nessuna fusione tra etnie diverse ed eterogenee, ma “unicità di razza” e impegno solidale fin dall’inizio nel provvedere “alla sopravvivenza e all’integrità dell’intera comunità”. Per prima cosa “la realizzazione di un villaggio fortificato, quasi inaccessibile a qualsiasi attacco di ladri, o malfattori di qualunque specie”. Viene da immaginare il fervore di attività per ricostruire il borgo che erano stati costretti ad abbandonare nel “territorio da edificare, piuttosto vasto, rupestre, difficile, quindi pericoloso”; e l’impegno estremo, considerando anche l’altezza degli edifici, molti di tre e quattro piani, con la difficoltà date dai poveri mezzi di allora.
Sempre basandosi su una logica stringente unita alla sensibilità di profondo conoscitore dei luoghi e delle persone, Angelino va avanti nella sua ricostruzione storica: dal nutrito complesso di case di epoca antica deduce il notevole numero di persone e dall’esigenza di sicurezza che le muoveva deduce l’organizzazione della vita urbana: “Corpi di guardia veri e propri a protezione del nascente borgo e del suo popolo”, presidi adeguati per la difesa e vedette pronte ad allertare la comunità con segnali luminosi, così la popolazione impegnata nei cantieri di lavoro, la notte poteva riposare.
Gli insediamenti per l’avvistamento e la difesa come una cintura protettiva tutt’intorno hanno fatto pensare a una pluralità di villaggi, invece per lui confermano l’esigenza primaria della sicurezza in una comunità unica e solidale, forte e laboriosa.
Come si svolgeva la vita in questa comunità all’interno del “Castello”, il borgo urbano nascente all’ombra della grande roccia a forma di cammello, che forse ha dato il nome al paese, nella zona di Sopratore, alla quale è particolarmente affezionato?: “Sopratore per noi era tutto. Campo di gioco, le prime conquiste alpinistiche, all’inizio solo sulla rocca, piccolo Gran Sasso, normalmente già abbastanza impegnativo: raggiungere la vetta della Vena Grande equivaleva alla conquista del Gran Sasso”, E non solo: “Inoltre la Vena Grande, con il piazzale di Sopratore, risulta il belvedere più alto del Paese ed è da lì che parte il sentiero che va dal centro abitato verso il Canale , la fonte delle monache e i Prati di Tivo”.
Questo ancora oggi, per i tempi antichi Angelino parla di “una vivibilità più umana, una sicurezza totale”, quindi di gente evoluta che non era costretta a vivere da selvaggi trogloditi, ma nelle migliori condizioni consentite dal borgo.
La sua costruzione ha richiesto un'”immane fatica” da parte di soggetti evoluti tanto che il borgo “è ancora quasi totalmente in piedi, quindi la loro opera fu ed è tuttora un’opera di alta ingegneria”, il cui significato va ben oltre l’aspetto materiale, dà un’alta qualifica a coloro che l’hanno realizzata: “Il loro quotidiano lavoro, fatto con molta passione e non privo di grandi sacrifici, protrattosi in tempi anche molto più vicini ai nostri giorni, è la testimonianza che trattasi di una stirpe sicuramente speciale, con un coraggio indomito, con un’intelligenza acuta e pronta e con uno spirito della comunità e del dovere collettivo, veramente straordinari”.
Non è un elogio narcisistico, tanto che subito dopo afferma: “Noi uomini moderni siamo diventati un popolo che per tante ragioni non ha più la connotazione primitiva, vera condizione per una società sana e unita”; un popolo al quale manca “lo spirito combattivo che oggi dovrebbe essere innato in noi perché eredi di qui grandi che ci hanno preceduto”.
E non solo, “abbiamo anche perduto l’acutezza della nostra intelligenza in quanto non siamo più stati capaci di vedere quanto avevamo ancora sotto gli occhi, come in un libro scritto che non siamo riusciti ancora a leggere, se non qualche paragrafo di rare pagine di un grande libro, molto spesso anche poco chiare e sparse qua e là per i secoli passati”.
Angelino non pretende di aver saputo leggere il libro lasciato dagli antenati con le loro opere, anzi lancia un appello perché altri si impegnino per approfondire i temi che ha cercato di evocare soltanto con la forza della logica e la spinta del sentimento. E arriva ad immaginare le origini e la provenienza dei progenitori, il loro percorso epocale, dal lontano Oriente alle coste illiriche, “traghettato per l’Adriatico dai Liburni, popolo di navigatori, e sbarcato sulla foce del Tronto (presso la moderna Martinsicuro) per poi occupare la vallata del Gran Sasso oggi chiamata Valle Siciliana”.
Per concludere: “Proviamo a immaginare lo stato d’animo di quegli improvvisati esploratori che, nonostante tutto, superano tutte le difficoltà, alla fine conquistano l’intero territorio di cui diventano padroni e ne fanno buon uso”. Con questo interrogativo: “Siamo noi alla loro altezza visto che oltretutto non dobbiamo più costruire ma solo mantenere il già fatto?”.
Il borgo, la Rocca e le Porte
Darà una risposta amara al termine della sua appassionata ricognizione nell’intero borgo, che segue l’altrettanto appassionata rievocazione, sempre immaginifica, del suo assetto originario.
La Rocca del “nido d’aquile”, il “Castello”, aveva una struttura urbana molto solida, con edifici alti e senza finestre ai piani più bassi e finestrelle a fessura ai secondi piani per impedire accessi abusivi, con maggiore altezza rispetto al terreno sottostante, sempre a protezione; oggi ciò non vede più per la vegetazione sviluppata alla base e lo spessore creato dai materiali di risulta che visivamente ha ridotto l’altezza delle fondamenta, oltre che per l’apertura in tempi recenti di finestre ai piani inferiori che hanno mutato i prospetti.
Ma il maggior interesse di Angelino è ricostruire l’assetto urbanistico per la vigilanza e la difesa, in particolare il sistema delle Porte a partire dall’unica di cui è pervenuta una traccia fotografica. Le Porte, presidiate di notte da armati, “altro non erano che un arco di pietra, di larghezza e altezza adeguate, e variamente impreziosite con pietre lavorate da esperti scalpellini”.
Quella più recente, fotografata nell”800, era situata a lato della Chiesa Madre e chiamata, per la sua ubicazione, Porta a Valle. Angelino si sofferma sulle quattro fotografie disponibili, che consentono di individuare due archi, “come a creare una sorta di tunnel di pochi metri di lunghezza, uniti forse da una copertura e come se all’interno vi fosse un corpo di guardia, anche perché la prima figura sulla destra di una delle foto sembra una sentinella”. E quella che è stata nei tempi moderni la canonica, vicina alla Chiesa Madre, era nell’antichità una torre di avvistamento, tanto che è chiamata “la torre” forse per questa origine, non per la sua forma caratteristica.
La ricostruzione di Angelino individua altrettante porte sui restanti lati del borgo, dal centro, alla parte più alta, a quella più bassa. Dopo la Porta a Valle, salendo al centro storico, la porta principale di accesso al borgo a Piazza degli Eroi, tra le mura di sinistra con alle spalle il monte Calvario e i muri di un edificio sulla destra.
“La porta successiva era quella di Porta Piedi. Ripartendo da Piazza Cola di Rienzo e andando ancora avanti, si arriva a una biforcazione dove a sinistra si va verso San Giovanni, mentre a destra si degrada verso la strada pianeggiante che poi prosegue verso Porta Fontana”.
Prima di andare in quella direzione si scende verso il Casarino e, superati due archi, si arriva dove una volta c’era Porta Piedi, nella zona chiamata Piedi Castello, alla base inferiore del borgo detto appunto “Castello”.
Risalendo lungo la ripida scalinata si passa per Piedi Terra e si riprende la direzione di Porta Fontana: “Al primo incrocio si svolta a destra e si va verso le Lisce, nella parte più bassa anche lì si incontrano tre archi e questo forse è il tratto più scosceso di tutto il tratto della muraglia, forse è questa la ragione per cui nel tratto Porta Piedi-Le Lisce non vi sono porte fino a Porta Fontana”.
Angelino ripercorre l’itinerario che faceva girando per il paese, ma ora la sua mente è rivolta a un passato ben più lontano, all’ubicazione delle antiche Porte, dalla Porta a Valle e quella di Piazza degli Eroi fino all’ultima, la più facile da immaginare perché è evidente la sua antica collocazione “tra la casa dello Sguitto e la casa di Gelasio”.
Porta Fontana prende il nome da quello che Angelino definisce “il primo storico monumento”, dove i paesani andavano ad attingere acqua per gli usi domestici prima che fosse realizzato l’acquedotto all’inizio del ‘900. Ricorda che la zona era frequentata dai giovani dei due sessi perché “la necessità d’acqua aveva un secondo e romantico motivo e quel tratto di strada diventava il viale degli innamorati”, dove si svolgevano i primi corteggiamenti ponendo le premesse per i matrimoni. Negli ultimi anni due mostre di fotografie e cimeli a Pietracamela hanno fatto rivivere queste abitudini e usanze, facendo conoscere le antiche tradizioni, nello stesso spirito di questa appassionata rievocazione.
Ma la passione di Angelino si trasforma in indignazione quando, nella ricerca di antiche testimonianze di un passato da mantenere vivo, trova i preziosi reperti in uno stato di avvilente degrado da imputare non tanto al tempo, che ha le sue regole inflessibili, quanto all’incuria degli uomini, questa sì colpevole.
Si comincia con “lo storico lavatoio. Oggi ridotto a una triste e ingloriosa fine”, anche prima degli effetti rovinosi della frana che si è abbattuta nel 2010 sulla contrada. Angelino si immedesima nel faticoso lavoro delle donne con le mani immerse nella gelida acqua di montagna, passando dalla vasca per la prima lavatura, “una sorta di ammollo con relativa insaponatura”, alla vasca di centro, “dove si faceva il primo risciacquo e la seconda insaponatura”, fino alla terza e ultima vasca “dove si faceva l’ultimo risciacquo e la torcitura; alla fine si rimetteva il tutto nella bagnarola e si riportava sulla testa per essere steso al sole ad asciugare”.
Non sono notazioni storiche apprese da cronache antiche, ma ricordi d’infanzia e della prima gioventù, come sono ricordi personali e vivi quelli riguardanti la vicina Chiesa di Colle Molino, dove si celebravano le messe domenicali in un tempio dalla pianta tutta particolare, immerso nella vegetazione rigogliosa, perfettamente inserito nella natura. Questo tempio nell’antichità era adibito anche a cimitero con l’inumazione nelle botole che portavano le salme al di sotto del pavimento, quindi il suo valore esteso alla memoria e al rispetto degli antenati è sempre stato altissimo. Ciononostante il colpevole abbandono in cui è stato lasciato lo ha fatto andare in rovina, oggi ci sono soltanto i ruderi che perpetuano lo “scempio”: “Questa è un’eresia, un peccato mortale, ma soprattutto è un’ingiuria della peggiore specie: l’oltraggio ai nostri avi che avevano il diritto ad una sepoltura dignitosa, avendo il diritto di rimanere dove erano stati per tanto tempo”.
Almeno questo chiede Angelino, “rendere quel Sacro luogo degno di ospitare quei defunti, che sono tutti noi”. Ormai il suo itinerario diventa un “triste percorso”, dalla ricerca delle vestigia del passato allo sconforto per le miserie del presente. Un’altra miseria è quella di “un altro bel monumento sulla riva del Rio d’Arno: il mulino di cui sono rimasti soltanto due condotti di scarico”. Sembra l’imbocco di due gallerie, tutto è stato distrutto, anche questa vestigia della locale produzione di farina con il grano delle pur povere coltivazioni in montagna, protrattasi fino al secondo dopoguerra, come ricorda Angelino e noi con lui: l’acqua precipitava impetuosa nella gora e muoveva le macine di pietra sottostanti, una spettacolo che ci è rimasto impresso dall’infanzia.
Nel largo antistante, in un declivio naturale, come per una riparazione, è stata realizzata da alcuni anni una piccola cavea per spettacoli all’aperto, non c’era in passato ma si inserisce nel verde lussureggiante. Le due grandi rocce “sorgenti dalle acque” del torrente Rio d’Arno sono un fondale suggestivo dal quale si apre la discesa verso Intermesoli e la salita lungo il corso del fiume verso la montagna. Peccato che alle puntuali frecce direzionali in legno collocate dall’Ente Parco con l’indicazione degli itinerari e i tempi di percorrenza non corrisponda la manutenzione del sentiero, impraticabile perchè invaso dai cespugli di rovi.
Ma queste sono nostre osservazioni di oggi, Angelino è di nuovo proiettato al passato nella cui storia la “Vena dei Segatori” che si trova dalla parte opposta dell’itinerario compiuto, “merita un capitolo a parte”, posta sul crocevia tra “quattro strade di grande interesse: una verso il vecchio e diruto mulino e la chiesa della Madonna di Colle Molino, la seconda verso il Grefo e le Fonticelle, la terza verso San Rocco, per poi dividersi”, con la quarta che “risaliva verso la Rocca e Sopratore”.
Qui i ricordi si affollano, nella “Grotta dei Segatori” la gloria locale, il pittore Guido Montauti realizzò le “Pitture rupestri” del “Pastore bianco”, che noi abbiamo visto come una sorta di “Quarto stato montanaro”, sagome assorte in un’attesa coinvolgente, tutt’uno con la roccia. “Quell’angolo che era già un pezzo di storia per tutti i pretaroli, dal pittore trasformato in un’opera nota ai pretaroli e a moltissimi italiani e stranieri. Grazie Pittore, così come molto confidenzialmente ti chiamavamo quando d’estate tornavi a Pietracamela”. Peccato che la frana le abbia distrutte – non tutte, alcune sono sopravvissute ed è necessario quanto urgente che vengano restaurate e sia realizzato un nuovo percorso di accesso – mentre il Premio Internazionale di Pittura Rupestre, di cui nel 2014 si è svolta la prima edizione, impegna gli artisti contemporanei a cimentarsi nella pittura sulla roccia per creare di nuovo l’indefinibile magia di presenze pittoriche quanto mai vive.
Ma perché la “Vena dei Segatori” – intorno alla quale altre rocce creavano il suggestivo ambiente con le pitture – “era ed è un pezzo di storia”? Angelino rievoca “il ruolo ad essa assegnato, vale a dire la trasformazione dei tronchi di legno provenienti dalla vicina faggeta del Grefo in travi e tavole”, un impegno fondamentale nella primitiva costruzione del borgo che abbisognava di tali materiali per i tetti, oltre che per le porte e le finestre fino agli arredi, letti, tavoli e sedie, e alle suppellettili, come i manici di legno dei numerosi attrezzi in ferro.
Per quest’ultimo materiale doveva trovarsi nelle vicinanze un’officina apposita, che oltre agli attrezzi forgiava serrature e catenacci, chiavi e cardini, chiodi e quant’altro veniva prodotto in loco in un’economia di sussistenza dove erano molto limitati gli apporti esterni, anche a causa dell’ubicazione del borgo collocato in posizione impervia e isolata. Ma, nonostante tutto, i pretaroli anche nell’epoca più antica cercavano contatti e sbocchi commerciali, come ricorda Angelino citando la testimonianza cinquecentesca del primo conquistatore del Gran Sasso, Luigi de Marchi.
I primi ardimentosi commerci da Campo Pericoli
E’ una cronaca altamente drammatica che prende avvio dal nome della vallata ad alta quota che congiunge il versante teramano e quello aquilano del Gran Sasso tramite il passo della Portella: Campo Pericoli, dove i pretaroli svolgevano un’attività molto pericolosa per liberarsi dall’isolamento e sviluppare un commercio primitivo quanto vitale.
I nostri progenitori, dopo l’insediamento nel territorio, si spinsero sempre più in alto nella montagna sovrastante, prima per la caccia, poi per cercare un passaggio verso l’altro versante dove si trovavano comunità con cui entrare in contatto. La vallata, “sicuramente la più bella, vasta e rigogliosa, fra le più importanti della nostra montagna” attraverso il passo della Portella, una gola tra le cime di Corno Grande, Corno Piccolo e il monte d’Intermesoli, consentiva di instaurare i primi rapporti commerciali. Quali erano le produzioni disponibili in una economia autarchica e di sussistenza? Certamente le lane carfagne – prodotte con l’allevamento ovino che dava carne e latte – in eccesso sulle necessità locali di arredamento e abbigliamento per tessuti e coperte, maglie e altro.
Si doveva raggiungere sull’altro versante, dopo Assergi, Santo Stefano di Sessanio, la località aquilana allora in contatto con il grande mercato di Firenze da cui si diramavano gli scambi con il Nord Italia e d’Europa; si sarebbe aperta così “una finestra sul mondo”.
Vengono rievocati i primi tentativi di portare le grandi balle di lana carfagna, pesanti rotoli da far salire fino alla vallata in modo da raggiungere il valico per poi farli scendere fino alla base aquilana del Gran Sasso. Una volta portate in alto con molta fatica, diveniva naturale far rotolare le balle lungo il ripido pendio dell’altro versante, ma le rocce taglienti le riducevano a brandelli, per cui si sarebbe dovuto rinunciare se non si fosse operato in modo diverso. La soluzione fu rotolare le balle di lana nella stagione invernale, con la neve che copriva le punte rocciose: “Il tutto facilitato anche dai già noti attrezzi da loro inventati, costruiti e usati con perizia e audacia; avevano in qualche modo risolto anche il problema della rovina dei preziosi tessuti, che in questo caso scivolavano sul freddo ma sicuramente molto più morbido e alto cuscino di neve e che loro seguivano con coraggio e silenzio”.
Angelino è affascinato dal coraggio dei progenitori descritto da De Marchi, che nella cronaca della prima ascensione del Gran Sasso del 19 agosto 1573 ha lasciato una testimonianza preziosa di quanto fossero elevati i rischi affrontati nella vallata di Campo Pericoli, per far rotolare fino ad Assergi le balle di lana e seguirle in modo spericolato in pieno inverno. Riporta testualmente in tre pagine quella che sembra una emozionante telecronaca di uno sport estremo.
Mentre le balle di lana rotolavano senza problemi sul cuscino della neve gelata, gli uomini dovevano seguirle proiettandosi nel ripido versante a cavalcioni di lunghi bastoni con dei ferri, che avevano anche nelle calzature, e con delle aste ferrate per poter frenare la vertiginosa discesa. Era come tuffarsi nel vuoto per tre miglia e mezzo, alla velocità degli uccelli, come scrive De Marchi, allineati sul bastone e stretti gli uni agli altri in un numero che variava da un minimo di sei a un massimo di dieci per scendere velocemente senza superare il limite di sicurezza, ma purtroppo le vittime non mancarono. In più c’erano le valanghe che nel 1579 seppellirono 18 uomini e nel 1971 un padre con due figli sulla via del ritorno, mentre fu trovata viva dopo tre giorni sotto la neve la quarta persona, sopravvissuta pur se con la perdita dei piedi per congelamento, perchè “haveva una pelliccia et una cappa di lana carfagna et haveva uno Zahiino con pane e cacio il quale mangiò là sotto”.
De Marchi conclude: “Tornando agli ‘huomeni della Pietra, se non vogliamo fare questa strada à tornare à casa, bisogna allungarla una giornata di più per mala strada, ma non pericolosa com’è questa. Del che quasi tutti tornano per la strada lunga per non tornare per il pericoloso passo della Portella sopra il Castello di Sercio”, cioè Assergi. Abbiamo già raccontato che Angelino, aprendo “un vecchio zaino di ricordi”, ha detto di essere tornato lui su quel “pericoloso passo” in tempi moderni per raggiungere da Pietracamela la sede all’Aquila perché un lunedì la nevicata che aveva bloccato la strada carrozzabile gli avrebbe impedito di essere al lavoro.
Ecco come Angelino commenta le condizioni estreme a Campo Pericoli: “L’enormità della fatica, il disagio del freddo, la paura di lasciarsi andare in quell’orrido e bianco burrone, tanto pericoloso ma infinitamente importante per la loro vita”. E il coraggio degli ardimentosi: “Essi avevano la consapevolezza che l’incolumità dei compagni di viaggio era nelle mani di ognuno di loro; tanto che all’epoca erano molte le persone di Pietracamela che furono sepolte nel cimitero di Assergi perché periti proprio lungo quella gelida voragine”. Per finire: “Facilmente si intuisce quali grandi sacrifici affrontarono quei coraggiosi, e con lo spettro della morte ad ogni viaggio, con smisurata fatica e sempre con indomito coraggio. Quale nome poteva essere più appropriato se non quello quasi certamente da loro coniato: Campo Pericoli”.
La voce della montagna, la voce di Angelino
Dai rischi inenarrabili dei progenitori che suscitano la sua ammirazione fino a proporne la rievocazione ripetendo il loro tuffo spericolato con le stesse attrezzature di allora come sport estremo, all’idealizzazione somma della montagna: si chiude il cerchio della visione di Angelino al centro della quale c’è Pietracamela, il suo paese natale alle falde del Gran Sasso, dal 2005 entrato nel Clu dell’ANCI “i Borghi più belli d’Italia”, poi proclamato Borgo dell’Anno 2007.
I fiori, il paesaggio, la sinfonia della natura per il semplice escursionista come per l’alpinista provetto: “Si sale sempre di più, quasi ci sembra di toccare il cielo con un dito: siamo in vetta, sopra di noi solo le nuvole, solo il cielo, Dio. Il cuore sembra voglia scoppiare, il sangue pulsa nelle vene, ci si guarda intorno avendo la sensazione di non sapere dove e a chi rivolgere la nostra attenzione”. E non è necessario salire in cima alla montagna per provare queste emozioni: “Sono tante le cose da guardare ma anche molte da percepire; ascoltare la voce della montagna che racconta la sua leggenda, la storia di tanti uomini che l’hanno visitata, amata, rispettata, vissuta”.
Angelino ci ha raccontato la loro storia, scavando nella storia del paese tanto amato, Pietracamela. In questa storia è entrato anche lui, con le sue imprese alpinistiche, certo, ma anche con le sue evocazioni che hanno fatto sentire in modo ancora più intenso e profondo la voce della montagna, nella quale ci sembra di sentire riecheggiare la sua stessa voce..
Non si potrà mai dimenticare Angelino ogni volta che si assisterà allo spettacolo della natura, ora che lui è salito su una vetta molto più alta di quelle raggiunte in vita. Lo immagineremo sempre sopra le nuvole, oltre il cielo, fino a Dio.
Info
Clorindo (Angelo) Narducci, Pijtte, “Pietracamela. Tra storia e leggenda”, Demian Edizioni, 2014, pp. 80. Dal libro sono tratte le citazioni del testo. Per il primo libro di Clorindo Narducci, “Un vecchio zaino di ricordi”, Andromeda Editrice, 2008, pp. 112, cfr. il nostro articolo in questo sito il 3 luglio scorso.. Per le mostre citate cfr. i nostri articoli, in questo sito, del 2012 sulla mostra con le foto di Aligi Bonaduce “Il pittore Guido Montauti nel Grottone” 29 agosto; del 2014, sui “Matrimoni di una volta” 17 luglio, seguito dai “Figli di una volta” 14 agosto; cfr. anche gli articoli del 2014 sulla “Mostra internazionale di pittura rupestre Guido Montauti” il 14 luglio e il 2, 9 settembre.
Post scriptum: aggiorniamo l’Info del presente articolo del 2016 per aggiungere la citazione degli articoli usciti in questo sito nel 2018, per il centenario della nascita del pittore Guido Montauti, alle date del 13, 22, 29 luglio, 11, 19, 20 agosto.
Foto
Le immagini n. 1, 3, 5, 6, 7, 11, 20, 21 sono state tratte dal libro (la n. 20 dal primo libro); le n. 2 e 4 sono d’epoca; la n. 8 con il “Ballo al Laghetto, a Cima Alta”, e la n. 9 con “Il pittore Guido Momtauti nel Grottone” sono state esposte nelle mostre a Pietracamela sopra citate, la prima sui “Matrimoni di una volta”, la seconda con le foto di Aligi Bonaduce al Pittore Montauti; le immagini n. 10, da n. 12 a 19 sono state riprese da Romano Maria Levante. In apertura, La Copertina del secondo libro; seguono, Pietracamela, in una foto d’epoca, L’ingresso del paese con uno scorcio della piazza in una cartolina d’epoca. la Chiesa parrocchiale di San Leucio all’ingresso del paese in una immagine d’epoca. e Il Monte Calvario che sovrasta la piazza principale; poi, Il locale di un antico artigiano, il banco di lavoro, Il lavoro all’arcolaio, all’aperto e Ballo al Laghetto, Cima alta, tra fine anni ’20 e inizio anni ’30; quindi, Il pittore Guido Montauti nel Grottone e Pittura rupestre del gruppo pittorico di Guido Montauti, il Pastore Bianco; inoltre, Centro storico, scorcio della chiesa di San Giovanni con le campane dal rintocco orario, e Centro storico, un edificio con il caratteristico balcone; ancora, , e Centro storico, la prima parte della scalinata di via Roma sotto l’arco; e Centro storico, la seconda parte della scalinata di Via Roma verso l’antico Municipio; ; continua, Centro storico, un’altra caratteristica scalinata; Centro storico, un angolo particolarmente rustico e Centro storixo; uno dei caratteristici archi; prosegue, Piazza degli Eroi, sovrastata da Vena Grande, con le aiuole e le panchine dell’assetto moderno, e La Vena dei Segatori, appena fuori dal paese verso la montagna; infine, Campo Pericoli, con il passo della Portella, tra i due versanti e, in chiusura, Clorindo Narducci, Angelino, davanti alla cappellina di Sant’Antonio, sulla strada provinciale prima dell’ingresso in paese.