di Romano Maria Levante
La mostra “Capolavori della scultura buddhista giapponese”, aperta alle Scuderie del Quirinale dal 29 luglio al 4 settembre 2016, presenta per la prima volta in Italia 21 opere summe, per un totale di 35 pezzi scultorei di gran pregio.Sono opere per il culto realizzate tra il VII-VIII e il XIII secolo, dal periodo Asuka al periodo Kamakura, provenienti da grandi musei nazionali e anche eccezionalmente dai templi e santuari. L’esposizione si inserisce nelle celebrazioni del 150°: anniversario del primo Trattato di Amicizia e Commercio firmato il 25 agosto 1866, con cui iniziarono i rapporti diplomatici tra Italia e Giappone. Il programma, gestito da un apposito Comitato, contiene una serie di altri eventi su iniziativa dell’Ambasciata del Giappone in Italia e del Consolato giapponese di Milano, dell’Istituto giapponese di cultura di Roma e dell’Università degli Studi di Milano. L’Alma Mater Studiorum dell’Università di Bologna ha collaborato a questa mostra, organizzata dall’Agenzia per gli Affari Culturali del Giappone, Bunkacho, con l’Azienda Speciale Palaexpo e il supporto di MondoMostre. La mostra è a cura di Takeo Oku, specialista delle proprietà culturali del Bunkacho, del Comitato scientifico fanno parte gli autori dei saggi del Catalogo edito dalle Scuderie del Quirinale.
Una mostra speciale, che porta il visitatore in un mondo carico di misteri e di suggestioni, permeato di spiritualità, e fa sentire il potere della divinità espresso dalle figure maestose che incutono rispetto anche in chi abbraccia una fede diversa e sente il respiro della divinità nella penombra dell’allestimento che richiama l’atmosfera dei templi buddhisti dai quali provengono. Ma è difficile penetrare i contenuti interiori sottesi alla potenza espressiva delle imponenti sculture in legno, che è il materiale prediletto, come per gli scultori occidentali è stato il marmo anche se non mancano statue lignee di straordinario valore spirituale e artistico come le Madonne che si trovano nel Museo d’Abruzzo.
Questa difficoltà è sottolineata da Claudio Strinati quando afferma che “resta la distanza enorme tra la immediata e spontanea percezione di queste opere, molte delle quali hanno l’evidenza caratteristica del capolavoro, e la nostra effettiva possibilità di comprendere l’essenziale in mancanza, per la maggior parte di noi, di cognizioni storico-critiche sulla scultura giapponese, cognizioni che sono pure indispensabili”. Ma subito aggiunge che “la qualità intrinseca di queste sculture lignee è chiaramente eccelsa e l’idea di bellezza che ne promana non sembra per nulla lontana da quella reperibile nella nostra cultura occidentale”. D’altra parte in queste sculture non si avverte il senso della continua trasformazione che rende “sfumata” l’arte giapponese, “qui vediamo , invece, immagini di assoluta evidenza e forza, che ci parlano di una cultura solidissima e perentoria nelle sue affermazioni e di una potenza creativa formidabile”.
Francesco Lizzani cerca di evidenziare la peculiarità della bellezza e della forza nell’arte scultorea giapponese. Mentre il “canone occidentale” fa leva sui concetti di ordine e proporzione, simmetria e armonia – archetipo è il “Doriforo” di Policleto nel suo perfetto equilibrio che contiene in sé “tutta l’energia potenziale della figura umana”- l’arte giapponese si ispira al “soffio vitale”, sicché nel “Naraenkengo” di Tankei, “un lampo di energia esplode e si irradia in ogni fibra dei muscoli, dei tendini, delle vene, della veste, producendo una scarica che la figura non può contenere e dominare”. Ma Lizzani, come prima Strinati, non insiste sulla contrapposizione di diversi canoni, anzi afferma che “proprio questa mostra può aiutarci a comprendere come negli strati più profondi dell’universale umano si agitano le stesse passioni e le stesse esigenze espressive, capaci di imporsi perfino a dispetto dei più consolidati canoni estetici”. E come prima aveva contrapposto il “Doriforo” di Policleto al “Naraenkengo” di Tankei, ora accomuna “Basu Sennin”, l’eremita di Tankei alla “Maddalena ” lignea di Donatello” come espressioni vicine “di uno slancio ascetico che non nega il mondo, ma ne prosciuga il dolore dal fondo di una ‘condizione umana’ integralmente con-patita: comune sorgente e foce di buddhismo e cistianesimo”.
Ed ecco come si esprimono questi contenuti nelle opere in mostra secondo Strinati: “Figure profondamente meditative, melanconiche, introspettive ci si manifestano accanto a immagini di furie, demoni, personaggi raffigurati nel turbine di apparizioni inquietanti e terrorizzanti, sconvolgenti nel poderoso naturalismo che vi promana, eseguite da mani sapientissime e eccelse sul piano tecnico ed espressivo”. Sentimenti e impulsi che il visitatore coglie pur senza conoscere i moti interiori e i rituali buddhisti, e Strinati lo sottolinea, affermando anzi che “percorrendo la strada maestra dell’arte” si può “entrare più nel profondo della immensa complessità spirituale del buddhismo”.
Una spiritualità espressa anche collocando le sculture rituali in templi e cappelle difficili da raggiungere perché spesso situati in luoghi appartati tra montagne e foreste accessibili attraverso percorsi impervi. “L’obiettivo – scrive Laura Ricca – è di esaltare la sensazione dell’‘avanzare’, del ‘progredire’ verso un luogo dedicato al divino, perché il sacro è difficile da raggiungere… la solitudine favorisce la meditazione e la preghiera, mentre la ricerca di un’armonia con la natura contraddistingue da sempre l’atteggiamento religioso, estetico ed artistico dei giapponesi”. Oltre a questa ragione rituale c’è anche la speciale concezione della bellezza: “Si tratta di una bellezza nascosta, difficile da scoprire, che si svela gradualmente in un percorso spazio-temporale anche introspettivo, perché nella visione estetica giapponese ciò che è interiore è più importante e superiore a ciò che è esteriore. La ricerca della bellezza è un esercizio dello spirito, una Via per giungere all’Assoluto”.
Pur se vi sono tali differenze con la nostra visione, Strinati conclude: “Tuttavia, i pensieri scaturenti da queste opere, come la meditazione e la concentrazione, la quiete o l’ira, la comprensione o l’ostilità, sono tali da non escludere che nessuno, che abbia attenzione e sensibilità all’arte, da un confronto con tali capolavori facile e spontaneo, a dimostrazione che l’idea giappponese di una sorta di indeterminatezza che l’arte in ogni caso tarscina con sè, non è affatto estranea al nostro sentire e al nostro desiderio”.
A lungo le opere rituali sono state considerate come manifestazione di fede e non come espressione artistica, questa è la prima mostra nella quale viene valorizzata l’ arte scultorea in un’atmosfera da tempio buddista.
Il numero notevole di statue rituali pervenute si deve anche al fatto che nonostante la religione giapponese sia scintoista, nonè mai entrata in conflitto con il buddhismo, che anzi ha rappresentato il secondo pilastro religioso del paese, a parte episodi iconoclasti allorché si volle rivalutare lo shintoismo separandolo dal buddhismo.
I periodi più antichi, Asuka e Nara
La scultura rituale giapponese risale al VII secolo, il primo periodo è quello Asaka, nel segno del “wa”, l’armonia, considerata valore fondante dell’intera società nella Costituzione del 604, la più antica del mondo, con i suoi 17 articoli. Il pensiero religioso, a differenza delle concezioni indiane secondo cui la misericordia divina concedeva la grazia a prescindere dalle opere, professa la necessità del perfezionamento spirituale dell’individuo per raggiungere la salvezza: nell’arte questo si traduce in opere di stile classico, che esprimono calma e nobiltà. E’ esposta una scultura di questo periodo, dedicata a “Shaka Nyorai”, “colui che ha raggiunto l’illuminazione, si è liberato dal ciclo delle reincarnazioni”, spiega Takeo Oku, precisando che “a cominciare dal Buddha storico, Sakyamuni (giap. Shaka Nyorai” in passato sono vissuti 6 Nyorai”. In mostra sono esposte altre 4 statue intitolate a Nyorai, una per questa stessa figura ma di sei secoli successiva, le altre su due figure diverse. E’ un raro capolavoro di arte arcaica, l’unica scultura in bronzo tra quelle esposte, tutte le altre sono in legno; Hidemichi Tanaka commenta: “Nonostante la semplificazione, la frontalità e l’ingenuità delle forme, questa statua possiede un’intensa nobiltà spirituale”.
Segue il periodo Nara, la nuova capitale, siamo entrati nell’VIII secolo, la nuova fase presenta un forte centralismo politico con il dominio diretto dello Stato; è un’arte di stile classico in cui si sente l’influenza dellla Cina verso la quale si sentiva vicinanza e insieme netto distacco.
In mostra sono esposte 2 statue dell’VIII secolo e 2e “Maschere gigaku” in lacca secca, del 752, riferite all’arte teatrale che presenta personaggi e divinità in atteggiamenti strani, qui l’espressione evoca l’ira o l’ebbrezza.
La statua “Bonten (Brahma)” è la più alta tra quelle in mostra, oltre 2 metri, solo la testa, in lacca secca , è del periodo Nara, il corpo, in legno, è del periodo Kamakura, 6 secoli dopo. Raffigura la divinità corrispondente al Brahma, che secondo l’induismo ha creato l’universo, secondo il buddhismo protegge la dottrina; viene spesso raffigurato come un nobile aiutante del grande Nyorai Sakamuni, mentre dopo il Narà sarà presentato anche con 4 volti e 4 braccia.
“Yuima Koji (Vimalakirti Nirdesa)”, l’altra statua alta 92 cm., è dedicata al discepolo di Nyorai Sakamuni protagonista del Vimalakirti Nirdesa, sutra del buddhismo Mahayana. Il maestro invitava i discepoli ad andarlo a trovare essendo malato, ma rifiutavano perché usava fare prediche aggressive forte della sua eloquenza, andò soltanto Manjusri che si confrontò con Yuima Koij sul concetto di “vuoto”, basilare nel buddhismo Mahayana, e invece di una risposta dialettica ebbe il silenzio. E’ raffigurato seduto, con un copricapo, le ciglia aggrottate e la bocca aperta come se parlasse.
Il periodo Henian
Con il trasferimento della capitale da Nara a Kyoto si avvia un rinnovamento polittico e religioso che nella scultura dà luogo a una nuova fase, il periodo Henjan, nel quale nel buddhismo, spiega Tanaka, “dalla centralità dell’impegno individuale della scuola Hosso si passò alla meno esigente concezione della salvezza come esclusivo dono della misericordia divina predicata dalla dottrina Jodo”; nell’arte “si perse il forte carattere classico mentre si rafforzarono le tendenze all’intellettualismo e al decorativismo, spesso non disgiunte dalla sensualità”, si diffonde il “manierismo” di corte.
Di questo periodo vediamo esposte 3 statue, una dell’VIII secolo e 2 del X secolo. La più antica, alta 164 cm, raffigura “Yakushi Nyorai (Bhaisajyaguru)”, in piedi su una base a fiore di loto, realizzata su un unico blocco di legno con una lunga apertura posteriore verticale per evitare le crepe; la veste è adornata da un panneggio con pieghe profonde e da bordi elaborati con eleganza che oltre a mostrare la perizia dello scultore danno vitalità all’immagine. E’ una statua propiziatoria dedicata “a colui che libera gli esseri viventi dalla malattia”, nei riti di contrizione e purificazione si pregava Yakushi e Kannon perché concedessero la salvezza ai singoli e la pace alla nazione.
“Kannon a undici teste (Ekadasamukha) “, in 42 cm raffigura la divinità in piedi su un piedistallo circolare a più strati con 10 piccole teste sopra la testa, tutto in un unico blocco di legno, è una delle prime rappresentazioni del buddhismo esoterico introdotte in Giappone. La figura è eretta, il panneggio staccato dal corpo, il volto con occhi e naso marcati alla moda indiana.
Le 2 statue del X secolo sono molto diverse, nella tecnica e nel contenuto. Il “Sovrano celeste”, di 178 cm, in piedi, coperto dall’armatura, schiaccia uno spirito maligno che fa da basamento. Fa parte dei“Quattro Sovrani Celesti (Shitennò)”, divinità indiane a protezione dell’insegnamento buddhista , che venivano considerate i guardiani della disciplina nei giorni del mese in cui anche i laici erano tenuti a rispettare i precetti religiosi. L’atteggiamento aggressivo, oltre all’armatura, deriva proprio da queste credenze, la statua nella visione frontale mostra un dinamismo che si attenua nella vista laterale.
L’altra statua del X sec., “Divinità Maschile”, presenta invece una figura con bombetta e pizzetto, quindi assimilata a un funzionario, realizzata con una tecnica mista, le forme sono appena abbozzate con una lama piatta, le parti scoperte rifinite a colpi di scalpello con la tecnica definita “natabori”, vi sono soltanto 40 statue dello stesso tipo, le più antiche dell’inizio del IX sec. Si vuole esprimere così “il processo con cui la divinità, sia scintoista che buddhista, si manifestava a partire dalla materia” , disvelandosi progressivamente, come abbiano sottolineato all’inizio”, dando protezione rispetto ai demoni. Questi sono gli Yaksa, divinità che inizialmente portavano calamità agli uomini in quanto prendevano dimora sugli alberi colpendoli con i fulmini, ma dopo la conversione al buddhismo cominciarono a rivolgere la loro energia contro i nemici della fede”.
Il periodo Heian si protrae nell’XI e nel XII sec., in mostra sono esposte 3 statue. La prima, “Bodhisattva su nuvola”, del 1053, è di piccole dimensioni, alta 57 cm., realizzata dalla bottega di Jocho che perfezionò la tecnica “yosegi” dei blocchi di legno sviluppando lo “warihagi” con cui il singolo blocco di legno viene tagliato all’interno per poi riunire le parti dopo aver apportato i ritocchi ritenuti necessari. Fa parte di una serie di 42 statue in atteggiamenti diversi, dalla preghiera alla danza alla musica, tutte con notevole libertà espressiva; quella esposta ha un panneggio molto ricco con pieghe che danno il senso del movimento e un orlo molto ricco. Le altre due statue sono della fase tarda del periodo Heian, XII sec., una di tipo guerriero, con armatura e atteggiamento aggressivo, l’altra che ricorda le effigi consuete del Buddha.
“Tamonten (Valsravana)”, alta 157 cm, richiama i “Quattro Sovrani Celesti” già visti nella statua del X sec. cui si può accostare l’espressione del volto e il panneggio posteriore dietro la corazza, nonché l’atto di calpestare lo sconfitto che fa da basamento. La testa è stata separata dal resto e poi ricollocata secondo la tecnica appena descritta del “warihagi”.
La statua intitolata “Amida Nyorai (Amitabha)” è diversa da tutte le altre finora considerate, aggressive o comunque severe, la figura è accoccolata, rotondeggiante, linee morbide, panneggio armonioso, espressione placida con gli occhi a fessura, nell’atto di ammonire o ammaestrare con il gesto della mano destra.
Il periodo Kamakura
Al periodo Heian segue quello denominato Kamakura, a seguito delle profonde trasformazioni nel mondo giapponese seguite a gravi sommovimenti, la classe dei guerrieri subentrò all’aristocrazia. Furono riformati i fondamenti teologici, oltre alle pratiche di culto, Buddha divenne immanente nella terra degli uomini e non più nella lontana “Terra pura”, di qui le sue frequenti apparizioni ai fedeli. La devozione non richiedeva più la creazione di nuove statue, ma la venerazione di quelle esistenti spesso celate nei templi, e i monaci avevano il potere di mostrarle ai fedeli; poi comparvero gli asceti che non seguivano i normali percorsi religiosi e promuovevano la realizzazione di nuove statue come manifestazione del Buddha immanente.
Tutto ciò si rifletteva in campo artistico e quindi nella statuaria religiosa: “Il periodo Kamakura – spiega Takeo Oku – fu caratterizzato dal realismo in tutte le arti figurative. Si ritiene che questo realismo sia conseguenza di un atteggiamento mentale di confronto diretto con la realtà, da cui scaturì anche la religiosità del ‘nuovo buddhismo’ di Kamakura o delle correnti riformatrici del ‘vecchio buddhismo’, che aveva come obiettivo la salvezza di tutto il popolo”. Considerando anche la diffusione di nuove statue salvifiche e di statue da abbigliare, “il realismo della scultura del periodo Kamakura può essere visto come il prodotto di una volontà di percepire concretamente l’aldilà e del desiderio di garantirsi una strada per raggiungerlo”. Vengono umanizzate le immagini buddhiste in modo da “percepire la presenza del sacro nella realtà immanente”.
Delle statue esposte in mostra 3 presentano figure sedute, anzi accoccolate, e 6 in posizione eretta.
Tra le prime, “Taizan Fukun” , 1237, alta 124 cm, raffigura il dio del Taishan con un copricapo a larghe tese, ampie maniche da funzionario , uno scettro con 2 teste nella mano sinistra, espressione corrucciata, il Grande Sovrano della Vetta Orientale che con i Dieci Sovrani, giudica le anime condannandole all’Inferno oppure destinandole alla reincarnazione in uno dei sei Mondi.
Ben diversa la statua di “Nyoirin Kannon (Cintamanicakra)”“, 1224, di 96 cm, sei braccia come le divinità indiane, è la divinità che accorre su chiamata dei fedeli dedicandosi alla salvezza dei vivendi nei sei Mondi dove le anime andranno secondo i loro meriti. La sua figura è protettiva.
Non solo divinità, vediamo anche un “Monaco”, in posa accoccolata con le mani giunte nella preghiera, altezza 83 cm, simili statue c’erano anche nel più antico periodo Nara, del resto dopo l’ascesi venivano attribuiti loro poteri soprannaturali, come il guarire i malati con la preghiera.Tra le statue con figure in piedi ve ne sono di multiple, come “Bishamonten (Vaisravana)”, alta 166 cm, con ai lati “Kichijoten (Mahasri” e “Zennishi Doji“, tra 70 e 80 cm. Si tratta di uno dei 4 “Sovrani celesti”, che in un’altra statua abbiamo visto chiamato Tamonten, era venerato perché scacciava gli spiriti maligni e accompagnava l’anima del fedeli nell’aldilà.; il busto leggermente piegato in un movimento armonioso e l’espressione del volto esprimono serenità.
Ugualmente sereno il viso atteggiato a un leggero sorriso di “Shaka Nyorai (Sakyamuni)”, di 97cm, in posizione eretta, una lunga veste che termina in strati sovrapposti avvolge la figura con panneggio a cerchi concentrici. Questa scultura è accompagnata da “I Dieci Grandi Discepoli”, statuette la cui altezza è pari alla metà della statua sopra citata, sono i 10 seguaci segnalatisi ciascuno per una peculiarità, tra i 1250 discepoli del maestro, raffigurati con un realismo delicato.
Dopo i dieci grandi discepoli, i “Dodici Generali Divini”, la scultura alta 90 cm evoca i protettori dei fedeli dello Yakushi Nyorai (Bhaisajyaguru) che abbiamo già incontrato con la statua dell’VIII sec.; ognuno protegge un’ora della giornata e sulla fronte ha il simbolo costituito da un animale, i dodici generali derivano dai demoni indiani abitanti sugli alberi. E’ una figura di notevole dinamismo, il corpo piegato maggiormente rispetto al Sovrano Celeste Tamonten prima commentato, poggia su un basamento roccioso, non sulla vittima, in un dinamismo disarmonico nella posizione degli arti, e delle pieghe della veste che sventola in modo non coordinato con il movimento del corpo. Gli altri discepoli presentano varianti nella positura e nell’atteggiamento.
Molto simili “Amida Nyorai” (Amitabha)”, e “Jizo Bosatsu ((Ksitigarbha)”, di 97-98 cm, assimilabili alla statua già citata di “Shaka Nyorai” nella compostezza della posizione eretta, nell’espressione del viso e nel panneggio, evocano l’immagine dl Buddha misericordioso che scende dalla Terra Pura per aiutare a raggiungere l’aldilà l’anima di chi sta lasciando il mondo.
Termina così la rapida rassegna delle statue in mostra, delle quali ci siamo limitati a citare gli aspetti salienti senza entrare nei particolari realizzativi e nei loro contenuti rituali e spirituali.
Hidemiki Tanaka fornisce una preziosa chiave interpretativa di un mondo magico, pervaso di spiritualità e per noi occidentali avvolto nel mistero anche per l’assenza di una conoscenza adeguata alla comprensione , come ha avvertito Claudio Strinati da noi citato all’inizio. Ecco cosa ha detto la Tanaka: “Secondo molti storici dell’arte, la scultura buddhista termina con il periodo Kamakurata. Per i monaci Zen le immagini non erano oggetto di culto e il cosiddetto buddhismo Kamakura si concentrava nella pratica dell’invocazione (nenbutsu). Si tratta di differenze nella pratica religiosa rispetto alle precedenti forme di buddhismo che sono affini alle differenze fra cattolici e protestanti. Anche se i templi delle scuole citate ospitavano statue sacre, i fedeli, anziché vedere il divino nell’immagine sacra, cercavano con il nenbutsu di individuare il divino dentro se stessi”. E conclude : “Le statue buddhiste hanno continuato ad essere realizzate fino ai nostri giorni ma se le opere realizzate fino al periodo Kamakura erano animate da un’autentica ricerca della fede, nella scultura successiva, pur non mancando di valore ornamentale e di perizia tecnica, si è andato spegnendo l’afflato vitale”.
Merito della mostra è aver permesso di coglierne il grande fascino nella suggestiva penombra del percorso espositivo dove alla bellezza dell’arte si associa la sottile magia di una spiritualità profonda accresciuta dal senso di mistero che pervade un mondo così suggestivo.
Info
Scuderie del Quirinale, Via XXIV Maggio 16, Roma, tel. 06.39967500, www.scuderiequirinale.it. Da domenica a venerdì ore 12,00-20.00, sabato 10,00-23,00, la biglietteria chiude un’ora prima del termine delle visite. Catalogo “Capolavori della scultura giapponese”, Scuderie del Quirinale, luglio 2016, pp. 144, formato 24 28, con saggi di Takeo Oku e Raffaele Milani, Francesco Lizzani e Laura Ricca, Claudio Strinati e Hidemichi Tanaka; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Per una mostra precedente sull’arte giapponese cfr. il nostro articolo in questo sito “Giappone, 70 anni di pittura e decori ‘nihonga alla Gnam” 25 aprile 2013.
Foto
Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nelle Scuderie del Quirinale alla presentazione della mostra, si ringraziano gli organizzatori, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura, “Yuima Koji (Vimalakirti Nirdesa”, VIII sec.; seguono “Shaka Nyorai (Sakyamunil)“, VII sec., e “Sovrano celeste”, X sec.; poi, “Divinità maschile”, X sec., e “Taizan Fukun”, 1237; quindi, “Bishamonten (Vaisaravana)”, “Kichijoten (Mahasri)”,”Zennishi Doji”, XIII sec., e “Amida Nyorai (Amitabha)”, XII sec ; inoltre, “Tamonten (Vaisaravana)”, XII sec., e “Nyoirin Kannon (Cintamanicakra)”, 1224; infine, “Monaco”, XIII sec; in chiusura, “Dodici Generali Divini”, 1310.