di Romano Maria Levante
A Palazzo Barberini – che con Palazzo Corsini è sede della Galleria Nazionale d’Arte Antica di Roma – il nuovo direttore dal novembre 2015 Flaminia Gennari Sartori ha dato avvio a una vasta operazione di rilancio con 3 mostre tematiche mirate all’approfondimento, secondo la nuova strategia dell’importante sede museale, profondamente rinnovata. Le prime 2 mostre, dall’apertura contemporanea il 12 gennaio 2017, sono state “Il pittore e il gran Signore” sul “ritratto d’occasione” fino al 23 aprile, e “Mediterraneo in chiaroscuro” con alcuni caravaggeschi fino al 21 maggio; la 3^mostra, dal 15 marzo all’11 giugno 2017 è stata su “Venezia scarlatta”., la 1^ e la 3^ mostra curate da Michele Di Monte, la 2^ da Sandro Debono e Alessandro Cosma.. A Palazzo Corsini, da febbraio ad aprile 2017, l'”Omaggio a Daniele Da Volterra. I dipinti d’Elci”.
Nell’ambito di questa intensa attività espositiva, descriviamo le prime due mostre a Palazzo Barberini, riservandoci di descrivere successivamente la terza mostra, “Venezia scarlatta” e di illustrare, oltre al nuovo assetto della Galleria Nazionale d’Arte Antica, la sua storia affascinante, che ha per protagoniste famiglie di Pontefici e perfino una regina, Cristina di Svezia.
Per ora ci limitiamo a citare le parole del ministro Dario Franceschini, artefice della riforma che ha portato alla scelta del nuovo direttore mediante un concorso internazionale: “Barberini e Corsini, le nuove Gallerie Nazionali di Roma, uno dei trenta musei autonomi introdotti con la riforma del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, inaugurano il nuovo corso con l’inizio del riallestimento delle collezioni, della realizzazione di percorsi multidisciplinari e del sistema multimediale, con maggiori approfondimenti del percorso di visita del museo”. Mentre il direttore Flaminia Gennari Sartori, riferendosi alla storia affascinante delle due gallerie, ha aggiunto: “E’ una storia che pochi musei al mondo possono raccontare in maniera così vivida in cui la dimensione materiale degli spazi storici e delle opere si intreccia costantemente a quella sempre in divenire degli allestimenti e dei percorsi multidisciplinari e multimediali, in un museo contemporaneo”.
Si inizia con gli approfondimenti tematici, intorno a un “focus” che per la prima mostra è il “ritratto d’occasione”, per la seconda il “Mediterraneo in chiaroscuro”, le esposizioni pongono a confronto su tali temi opere di grandi artisti provenienti dai maggiori musei attraverso un sistema di scambi.
Il Pittore e il gran Signore nel “ritratto d’occasione”
La tematica del “ritratto d’occasione” è stata ispirata da un evento che si può definire anch’esso occasionale, pur se molto significativo: nel 2016 lo Stato italiano ha acquistato dagli eredi della sua famiglia il “Ritratto del principe Abbondio Rezzonico”, 3 x 2 metri,commissionato a Pompeo Batoni, e realizzato nel 1766 per celebrarne l’ingresso nel Palazzo senatorio del Campidoglio come Senatore di Roma, il cui acquisto è stato destinato alle Gallerie Nazionali di Arte Antica di Roma.
L’autore, figlio di un orafo di Lucca trasferitosi a Roma dal 1727, era il più rinomato pittore operante a Roma, soprattutto nel campo dei ritratti, a lui si rivolgevano i visitatori della città eterna, in particolare i viaggiatori inglesi nel loro Grand Tour in Italia, per essere raffigurati..
Il personaggio ritratto era un nobile veneziano, nipote di papa Clemente XIII, vissuto tra il 1742 e il 1810, e assurto ala dignità molto prestigiosa di senatore capitolino nel 1765. Pertanto il pittore la raffigura in una loggia aperta sul Campidoglio, nei paludati abiti ufficiali in una posa autorevole con in mano lo scettro d’avorio, dietro di lui la statua protettiva della dea Roma. Bene in vista intorno a lui i simboli del potere legato al rango istituzionale: la spada e il fascio littorio espressione della giustizia innanzi a tutto, poi la bilancia come segno dell’equità e la palma d’olivo segno della clemenza per moderare l’esercizio del potere.
Nella presentazione è stato definito “un vertice assoluto della ritrattistica settecentesca, superlativo tour de force” tecnico e virtuosistico, sfarzosa effigie personale ma non meno icona rituale. Per queste caratteristiche il ritratto è divenuto il simbolo del clima civile e culturale in una città che viveva ancora nei fasti dell’antichità e su questi modellava le celebrazioni istituzionali. mentre cominciavano a profilarsi i radicali cambiamenti indotti dalla modernità: non va dimenticato che il ‘700 è il secolo della rivoluzione industriale, soprattutto per gli inglesi che abbiamo prima citato.
Gli altri 5 “ritratti d’occasione” dipinti negli stessi anni ed esposti in mostra, consentono di porre a confronto i diversi modelli di autorappresentazione e i relativi cerimoniali, dal Pontefice ai “milord” in visita alla città di Roma, sede del potere religioso e meta dei “Grand tour ” dei paesi europei.
Tre di questi ritratti sono ancora di Pompeo Batoni, e – come il nuovo acquisto che abbiamo appena citato – fanno parte della collezione della Galleria Nazionale d’Arte Antica e sono significativi della rappresentazione di altre tre condizioni: dopo il senatore capitolino come personaggio politico, vediamo il console del Granducato di Toscana come personaggio nobiliare, quindi il baronetto inglese come viaggiatore prestigioso e infine il clou del personaggio religioso, addirittura il Papa.
Il “Ritratto del conte Niccolò Soderini”, 1765, mostra il console del granducato, che era anche collezionista d’arte, con un tavolo, dei documenti e un orologio che segna l’una dopo la mezzanotte, simboli dell’intesa attività, anche a favore degli esuli della famiglia Stuart e di una loggia giacobita.
Mentre il “Ritratto di Sir Henry Peirce”, 1775, presenta il baronetto, che era anche parlamentare, in una posizione che si ritrova in altri ritratti dell’artista che spesso raffiguravano viaggiatori inglesi – su uno sfondo all’antica, quindi da viaggiatore nella città eterna. Le quotazioni dei suoi ritratti erano sostenute ma molto inferiori, dell’ordine di un terzo, rispetto a quelle del pittore inglese Sir Joshua Reynolds, perciò gli inglesi approfittavano del viaggio in Italia per farsi fare il ritratto da lui.
Ed ecco il “Ritratto di Clemente XIII Rezzonico”, 1760 – il papa zio di Abbondio Rezzonico che, come abbiamo detto, fu ritratto nel 1766, appena divenuto senatore – raffigurato in piedi mentre benedice con il braccio in alto, senza imporre soggezione ma con un’espressione bonaria nel viso.
Viene considerato quasi in sequenza con l’opera dallo stesso titolo di due anni prima, di Anton Raphael Mengs, il “Ritratto di Clemente XIII Rezzonico”, 1758, dalla Pinacoteca di Bologna, che ritrae il Pontefice appena eletto, seduto nel trono con la veste bianca e il camauro, la sola e la mozzetta, mentre guarda verso lo spettatore con un cenno benedicente, vicino a lui il suo scrittoio, dietro una colonna marmorea. La solennità papale è contemperata dalla benevolenza pastorale, vi è distacco e anche vicinanza, comunque con maggiore solennità rispetto al successivo ritratto di Batoni.
Mengs, di origine boema, si fermò ripetutamente a Roma, oltre che in alter città italiane, in Germania e Spagna, era un ritrattista di talento, in concorrenza con Batoni, viene considerato uno dei maggiori esponenti del Neoclassicismo, non solo come pittore ma anche come critico.
La mostra si chiude con il “Ritratto di Sir Robert Clive”, 1766,. anche questo della collezione di Palazzo Barberini, di Anton von Maron, di Vienna, trasferitosi definitivamente a Roma nel 1755 dove fu allievo di Mengs e ne sposò la sorella, anch’egli ritrattista apprezzato in particolare dai viaggiatori nel loro Grand Tour, come Batoni e Mengs. Il dipinto raffigura il governatore del Bengala, molto conosciuto come “Clive of India”, in un’ambientazione orientale che crea un’atmosfera esotica, sebbene sia stato realizzato a Roma come è scritto nella firma con l’anno.
Mediterraneo in chiaroscuro, da Roma a Malta
A differenza della mostra precedente, in cui dei 6 dipinti esposti 5 sono della Galleria Nazionale di Arte Antica e solo uno in prestito da Bologna, in questa mostra dei 18 dipinti esposti, ai 9 della collezione propria della Galleria Nazionale d’Arte Antica se ne aggiungono altri 9 provenienti dal Muza, l'”Heritage Malta”, il museo della capitale La Valletta, attualmente chiuso per la totale riorganizzazione in atto, con il quale è stata avviata una proficua campagna di scambi che, oltre a questo prestito maltese contempla il prestito italiano di altrettante opere per una grande mostra a Malta nell’ambito delle iniziative previste per il 2018 con l’isola Capitale europea della cultura. E’ la prima delle collaborazioni che seguiranno con i più importanti musei internazionali per valorizzare le collezioni diffondendone maggiormente la conoscenza con appropriati scambi.
Questa mostra intende ricordare proprio i legami artistici intercorsi in passato tra l’Italia e Malta: vi si trasferirono Caravaggio per due anni tormentati, dal 1606 al 1608, prima della tragica fine, e Mattia Preti, vi soggiornò dal 1661 fino alla morte nel 1699 portandovi il nuovo Barocco romano.
Intorno a questi grandi maestri le due sezioni dell’esposizione raggruppano le opere presentate, sempre nell’ottica dell’approfondimento tematico e stilistico cui sono rivolte queste nuove mostre. Sono mescolate le opere della collezione propria con quelle in prestito da Malta, che in molti casi riguardano gli stessi artisti, da de Ribera e Stoner a Matteo Preti presenti in entrambe le raccolte.
Tra i caravaggeschi spicca Jusepe de Ribera – soprannominato “Spagnoletto” per le sue origini, trasferitosi prima a Roma quindicenne nel 1606, e poi a Napoli nel 1616 dove morì nel 1652 – che fu colpito dalla pittura di Caravaggio adottandone lo stile ma in modo personale fino ad attenuare di molto i contrasti cromatici dal 1640.
Sono esposte a diretto confronto “Santo Stefano”, proveniente da Malta, e “San Gregorio Magno”, della Galleria Nazionale d’Arte Antica, entrambi tra il 1610 e il 1615 quando era ancora a Roma. Il primo, il santo diacono, ritratto con i simboli del sacrificio supremo, le pietre della lapidazione e la palma del martirio in un ambiente naturale riprodotto con molta cura sul quale si proietta dall’alto una sciabolata di luce. Mentre il secondo – commissionato dalla famiglia Giustiniani – ritrae il dottore della Chiesa ripreso in modo inusuale di spalle in una composizione dal taglio molto originale.
Di uno dei principali caravaggeschi fiamminghi, Mathias Stoner, vediamo 4 dipinti, di cui ben 3 provenienti da Malta. Tra le poche notizia sull’artista il suo soggiorno a Roma nel 1630, poi a Napoli, quindi in Sicilia dove visse per dieci anni diffondendo lo stile “a lume di candela”.
L’unica sua opera della collezione della Galleria Nazionale d’Arte Antica è “Sansone e Dalila”, 1630-31, realizzata a Roma con effetti luminosi di luce artificiale che danno drammaticità alla scena in cui Dalila addormenta Sansone per privarlo della sua forza tagliandogli i capelli nel sonno.
Delle 3 opere maltesi, anche “La parabola del Buon samaritano”, 1630-32, viene ricondotta al soggiorno romano; non viene rappresentato il gesto caritatevole, ma l’assalto al viaggiatore mentre si allontana un sacerdote, e una figura a cavallo, una versione inconsueta senz’altro coraggiosa.
Le altre due opere, invece, evocano i due spostamenti successivi. “Adamo ed Eva piangono Abele morto“, 1632-35, è stato dipinto a Napoli, colpiscono i modi contrapposti in cui i genitori piangono il figlio esangue, Eva con gli occhi rivolti verso l’alto e le mani giunte, Adamo con lo sguardo basso e le braccia aperte.
Al periodo siciliano appartiene la “Decollazione del Battista”, 1640-45, in un controluce caravaggesco con la luce di una torcia che fa risaltare il corpo del santo nel momento in cui viene decapitato e il vestito di Salomè con in mano il piatto in cui porterà la testa del santo ad Erodiade.
La luce artificiale aveva un tale rilievo nella pittura dei caravaggeschi che una serie di dipinti – realizzati dal 1630 al 1650 il cui autore è rimasto sconosciuto – con le scene notturne a lume di candela è stata attribuita nel 1960 da Benedict Nicolson a un ipotetico “Candlelight Master”. Con tale nome e tale illuminazione vediamo esposta “Vanitas”, immagine allegorica con lo specchio, il teschio e la lanterna fonte della luce caravaggesca.
Stesse caratteristiche in “San Girolamo”, 1630-35, tipico soggetto caravaggesco ripreso con il manto rosso mentre scrive. Autore Trophime Bigot, entrato anch’egli in contatto con la pittura di Caravaggio in un viaggio in Italia, e soggiorno a Roma, tra il 1620 e il 1634, la cui figura nell’attribuzione delle opere al lume di candela si intreccia con l’anonimo che ne ha preso il nome, e con un altro artista dello stesso genere, Jacomo Massa.
Tra i caravaggisti olandesi spicca Hendrick Ter Brugger, anch’egli entrato in contatto con Caravaggio e i seguaci a Roma tra il 1604 e il 1614, rientrato ad Utrecht realizza dipinti realistici con forti contrasti di luci e ombre, spesso su temi musicali. Nella mostra è esposto “Duetto”, 1629, un concerto a due con una figura maschile e una femminile, a composizioni di questo tipo viene dato un significato allusivo dell’accordo tra strumenti come allegoria di quello tra le persone.
A un altro olandese, che ha soggiornato a Roma, David de Haen, in occasione di questa mostra è stato attribuito “Eraclito”, 1615-20. – il “filosofo del pianto” contrapposto a Democrito “filosofo del riso” – il viso scolpito dalla luce emerge dal fondo scuro nel tipico contrasto caravaggesco.
Il lume di candela, questa volta concentrato sugli effetti in controluce, è alla base del quadro “L’artista nello studio”, 1647-48, vuol dire che sebbene siamo a metà del secolo permane questo motivo caravaggesco. Dietro il giovane che scrive si vedono la testa di una Niobide e il volto di “Seneca” di Guido Reni, che dovette senza dubbio influenzarlo. L’autore, Michael Sweerts, è un altro artista olandese giunto nel 1646 a Roma, dove divenne cavaliere ad opera del nipote di papa Innocenzo X, il principe Camillo Pamphilj, per il quale fece una serie di dipinti con scene di vita quotidiana. Una vita inquieta la sua: dal punto di vista artistico tornato in Olanda si dedica all’incisione e apre un’accademia di disegno.
Dopo “San Girolamo” troviamo un altro soggetto caravaggesco “La buona ventura”, 1617:, la scena del giovane imbrogliato dalle due zingare è resa senza la drammaticità del grande maestro, anzi con qualche nota spiritosa e comunque popolare. Autore è un artista francese, Simon Vouet, dal 1612 il viaggio in Italia protrattosi nel tempo, con tappe a Venezia, Genova e Roma, dove conosce le opere di Caravaggio e di Annibale Carracci subendone l’influenza ma mantenendo una impronta personale. Ebbe come committente Matteo Barberini, fu Principe dell’Accademia di San Luca. L’esperienza italiana è stata preziosa, tornato in Francia dopo 15 anni nel 1627 fu il primo pittore di corte di re Luigi XIII, impegnato nei grandi palazzi di Parigi, e contribuì alla diffusione in Francia del Barocco.
Il Barocco diffuso in Francia con il contributo di Vouet ci fa passare naturalmente al Barocco diffuso a Malta ad opera di Mattia Preti che 55 anni dopo il breve soggiorno di Caravaggio giunse nell’isola nel 1661 e vi restò, salvo brevi interruzioni, fino alla morte nel 1699.
Nel 1630, a 17 anni, si era trasferito a Roma dove lavorò per i privati e, dal 1650, per committenze pubbliche, tra cui l’affresco per la chiesa di Sant’Andrea della Valle, quella dell’inizio dell’opera “Tosca”. Del periodo romano vediamo esposto “Fuga da Troia”, 1635-40, con Enea, il padre Anchise e il figlio Ascanio, si sentono gli influssi da Vouet a Carracci, da Poussin a Bernini.
E’ datato tra il 1955 e il 1560 “Resurrezione di Lazzaro”, dipinto di grandi dimensioni, m. 2 x 2,60, realizzato a Napoli – dove andò dopo aver lasciato Roma – una scena di massa imperniata sulla figura di Cristo nel contrasto tra tinte cupe e toni argentei.
Come Caravaggio ma con permanenze ben più lunghe, dopo Napoli va nel 1661 a Malta, dove viene nominato cavaliere dell’Ordine di San Giovanni e pittore ufficiale dell’Ordine. Di questa fase finale della sua vita artistica – in cui, come abbiamo già accennato, si impegnò nella diffusione del Barocco a Malta – vediamo esposte tre opere, dipinte tra il 1675 e il 1680, cioè circa 15 anni dopo la venuta nell’isola e 20 anni prima della morte; provengono tutte dal Museo di Malta, mentre le due citate in precedenza appartengono alla Galleria Nazionale d’Arte Antica.
Sono “Incredulità di San Tommaso” con Cristo che appare agli apostoli e Tommaso che mette il dito nel costato, doveva fare “pendant” con il “Battesimo di Cristo” anch’esso al Museo di Malta, e la coppia di “pendant” appena restaurati “Ebbrezza di Noè” e “Lot e le figlie”, entrambi dedicati al vino e ai suoi effetti. Nel primo, Noè che si è addormentato ubriaco, viene additato con derisione dal figlio Cam e coperto invece con rispetto da Sem e Jafete; nel secondo sono le figlie a far ubriacare il padre per avere con lui inconsapevole l’unione carnale che garantirebbe la successione.
Potrebbe essere Mattia Preti, calabrese di nascita e maltese di adozione dopo i soggiorni a Roma e a Napoli, con i 5 suoi dipinti, 2 della Galleria e 3 del Museo di Malta, l’artista che chiude la mostra essendo anche intestata a lui la seconda delle due sezioni. Invece è un artista la cui vita percorre quasi tutto il ‘700, dal 1696 al 1782: si tratta del napoletano Francesco de Mura, formatosi nella bottega di Solimena, con commissioni nelle chiese di Napoli e nell’abbazia di Montecassino, e un percorso molto diverso da quello degli artisti fin qui citati, infatti resta sempre a Napoli, a parte un periodo a Torino nella corte dei Savoia, ma senza esperienze maltesi.
Perché allora a lui l’onore della conclusione? Lo si vede dal titolo del suo dipinto, “Allegoria della Nobiltà dell’Ordine di Malta”, 1747, che segue di due anni l’ “Allegoria della Nobiltà” da lui realizzato per il Palazzo Reale di Torino con la donna e la lancia, la statua di Minerva e la corona, a cui aggiunge la Croce di Malta per celebrare i Cavalieri di San Giovanni.
Naturalmente anche questo dipinto proviene dal Museo di Malta e non poteva che essere il sigillo di una mostra nella quale la tematica del Mediterraneo si collega alle derivazioni caravaggesche nelle varie modalità e intensità, il tutto nell’ambito di un gemellaggio artistico e culturale particolarmente proficuo.
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