Guttuso, 3. L’arte rivoluzionaria, dal 1960 al 1975, alla Gam di Torino

di Romano Maria Levante 

Si conclude il nostro racconto della mostra “Renato Guttuso. L’arte rivoluzionaria  nel cinquantenario del ‘68”, aperta alla Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino  dal 23 febbraio al 24 giugno2018  con  esposti 35 dipinti e 32 disegni e acquerelli  realizzati dal 1936 al 1975, in un intenso realismo nella doppia visione dell’impegno politico e sociale e del  ripiegamento nel privato.  La mostra, organizzata con gli “Archivi Guttuso”, presidente Fabio Carapezza Guttuso,  è a cura di Pier Giovanni Castagnoli, e anche  il  catalogo della “Silvana Editoriale” è curato da Castagnoli con Carolyn Christiov-Bakargie direttore, e con Elena Volpato conservatore nella galleria.    

La mostra,  coerentemente con la sua impostazione, riporta, per gli anni ’60,  3  opere considerate tra le più  significative di un periodo miracolato dal “boom” economico con l’escalation consumistica e il diffondersi di nuovi costumi dopo  la faticosa quanto impetuosa ricostruzione, per questo la mostra del 2011 alla Fondazione Roma era intitolata “Gli irripetibili anni ‘60”. Non fu, tuttavia,  un periodo senza ombre, a livello economico la “congiuntura” del 1962 oscurò per  qualche tempo  la crescita, fino alla contestazione studentesca del 1968  seguita dall’autunno caldo operaio del 1969, e non furono semplicemente incidenti di percorso ma sommovimenti radicali.

Con gli anni ’60 non termina l’esibizione espositiva, degli anni ’70 sono esposte  3 opere: una del 1970,  una del 1975  – che fa pendant, per così dire, con un’opera del 1960 con cui si apre questo periodo – espressione del “Guttuso politico”, in aggiunta al “Guttuso rivoluzionario”  e al “Guttuso  privato”, anche se alla sua attività politica attribuiva un valore vicino a quello del suo ‘impegno  nell’arte, ne parleremo ancora. Ma soprattutto tra le due opere appena citate  c’è il grande dipinto del 1972  che sarebbe riduttivo  definire “politico”, per Fabio Belloni è “l’ultimo quadro di storia”.

Premesso ciò, dopo aver delineato in precedenza l’itinerario artistico e di vita di Guttuso e il suo personalissimo realismo, e averlo ripercorso con le opere esposte in mostra fino al 1960, passiamo alle opere realizzate negli anni successivi fino al 1975. Considerato che negli anni ’60, oltre alla situazione interna cui si è accennato, vi sono stati eventi tragici che hanno sconvolto  il mondo intero, l’assassinio di J. F. Kennedy  seguito da quello del fratello Robert e la devastante guerra del Vietnam che unì tutti i pacifisti contro il vituperato imperialismo americano. 

Anni ’60, dal Vietnam al ’68, la denuncia della guerra e l’appoggio alla contestazione  

A questa denuncia è dedicata un’opera inconsueta nell’artista perché si avvale di apporti fotografici e figurativi, con l’immagine simbolica dell’inerme alla mercé del superpotente che lo annichilisce, metafora del bombardamenti e delle sofferenze della popolazione tormentata da una guerra senza fine.  Si intitola “Documentario sul Vietnam”, 1965, molte mani ghermiscono il vietnamita seminudo, al centro di una scena con a sinistra il dolore espresso nel volto della Maddalena, sulla destra immagini di guerra: la modernità dell’artista e l’evoluzione della sua arte appaiono anche in queste incursioni d’avanguardia, da Pop Art. Il dipinto ha subito diverse trasformazioni con la riduzione a dimensioni minori rispetto a quelle dell’opera esposta alla sua personale di Berlino.

L’alternanza della denuncia con il “privato” si ripropone nello stesso anno attraverso il dipinto “Da Morandi”,  con in basso una serie delle caratteristiche “bottiglie”, peraltro molto piccole, di vari colori e affastellate, sovrastate da altri oggetti come un vaso con pianta grassa, immagini sullo sfondo e una sagoma sulla destra. E’ uno dei 12 dipinti  che realizzò sull’artista da lui molto stimato, Raffaele Carrieri definisce la sua incursione nel tranquillo e ordinato mondi morandiano “come se, nel silenzio di un crepuscolo, in un luogo remoto, fosse entrata  una motocicletta con lo scappamento aperto”, e lui stesso – alla presentazione romana delle opere nella Galleria “Nuova Pesa”, dopo quello milanese nel “Milione” – scrisse: “Vorrei che questi quadri fossero considerati pitture ‘dal vero’, un tentativo di presentazione degli oggetti quali essi sono  divenuti attraverso la scoperta fattane da Morandi. Nuovi oggetti rispetto alle bottiglie che gli servivano da modello; e, ho tentato, nuovi oggetti rispetto agli oggetti di Morandi”. Una chiara riproposizione del suo realismo, in cui la realtà non è quella oggettiva, ma è ben diversa nella visione personalissima dell’artista.  


Alla contestazione del ’68 dedica  la riproduzione – in un figurativo che fa pensare al fotorealismo  americano – dell’immagine diffusa dalla stampa con l’abbraccio in pubblico di una giovane coppia. L’artista dà due diverse raffigurazioni, entrambe esposte: quella che fa da testimonial alla mostra, “Gli addii di Francoforte” è un po’ diversa da “L’abbraccio”,più direttamente ispirato all’immagine  pubblicata da “Epoca” in un articolo sull’occupazione della Sorbona, l’università parigina: è a figura intera, le gambe della ragazza e le mani del dipinto sono pressoché coincidenti con quelle della fotografia, mentre negli “Addii di Francoforte”  la coppia è ritratta fino alle ginocchia, le mani in posizioni un po’ diverse; anche Michelangelo  Pistoletto in quel periodo realizzò un’opera della stessa ispirazione inserita nella sua ben nota superficie specchiata.  

Perché questa scelta dell’artista, nel crogiolo del 1968 così ricco di spunti ben più “rivoluzionari”? Non è dato sapere, “fate l’amore non fate la guerra”  era uno degli slogan più  diffusi, d’altra parte l’abbraccio pubblico fu la prima reazione al conformismo borghese che nascondeva i sentimenti  in un  perbenismo ipocrita;  la sfida giovanile iniziò con una sorta di libero amore, inteso come libertà dei sentimenti di manifestarsi, al pari delle altre libertà, “è vietato vietare” era  un altro degli slogan più comuni. La mostra celebrativa  “’68, è solo un inizio…” alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, corredata da una inchiesta su ciò che resta del ’68 cinquant’anni dopo con la parola ai protagonisti di allora, ha mostrato le luci e ombre di un evento comunque epocale.

Abbiamo ricordato come il ’68 fu per Guttuso un momento esaltante perché sebbene fosse da un anno docente universitario, gli studenti che contestavano i “baroni” delle cattedre si rivolsero a lui per un “murale” in cui riprodusse la scena di una giovane donna con un  grappolo d’uva, simbolo della ribellione dionisiaca ai poter; Lui  ne perorò la  causa, garante delle loro istanze laddove  il Partito comunista era ostile al movimento libertario in ossequio alla propria natura dogmatica e centralista.

Scrisse infatti il 14 giugno 1968 a Giorgio Amendola che su “Rinascita” aveva condannato la contestazione studentesca che “è possibile parlare con gli studenti e perfino sentirsi rinascere  assieme a loro, è possibile un contatto diretto tra operai e studenti”.   E sulla divaricazione con Pasolini che vedeva negli studenti contestatori la deprecabile “classe borghese” e  nei poliziotti opposti a loro la prediletta “classe povera” aggiungeva: “Il problema è chi comanda la polizia? Chi la impiega? – E chi muove gli studenti? – Davvero solo gli agitatoti cinesi? Sarebbe un grosso errore ritenerlo”.  Perché in tal modo si condannerebbe alla sconfitta, “una sconfitta che sarebbe anche nostra e di cui noi stessi potremmo essere chiamati responsabili”. E non lo dice solo l’artista simpatizzante, anzi militante del Partito Comunista, ma un autorevole membro del Comitato  Centrale da 17 anni.  

Il  partito continuò comunque ad  appoggiare il suo realismo contro le avanguardie; analogamente alla difesa da parte del regime sovietico del “Realismo socialista” contro le visioni non appiattite sulla propaganda. La visita di Krushev a una celebre mostra di Mosca  con relativa condanna delle opere non conformiste  ebbe una replica nell’analoga reazione di Togliatti in una  mostra s Bologna.

Ricordiamo, per il 1968, alcune opere non esposte nella mostra, di cui la prima, celebrativa  dei valori e dei motivi sottesi al movimento studentesco, “Giornale murale maggio ‘68” realizzata ad Amburgo sotto l’effetto del maggio tedesco, quindi con respiro internazionale: ai bordi immagini evocative  delle nequizie americane .- uccisioni a sangue freddo ad opera degli alleati sudvietnamiti, dei razzisti del Ku Klux Kan, dei complici dell’eliminazione di Che Guevara –  al centro del quadro  la contrapposizione visiva tra la selva di bandiere rosse sulla destra rette da mani inermi spinte dagli ideali e la testuggine di scudi sulla sinistra senza volto, simbolo della repressione cieca del potere.

Un altro quadro del 1969 ci riporta all’interno del nostro paese, alla repressione giudiziaria dei giovani contestatori, “Il processo”, qui la contrapposizione è virtuale, ma indubbiamente intensa, in primo piano le sagome indistinte riprese di spalle di due agenti di custodia, di fronte quattro studenti arrestati con i pugni alzati, sulla destra un volto picassiamo alla “Guernica”. 

Questi dipinti confermano come Guttuso rifiutasse la contrapposizione tra figurativo e non figurativo vedendo diverse fasi e momenti intermedi da non potersi classificare. Contestare il realismo perché non rivoluzionava il linguaggio dell’arte anche se esprimeva contenuti rivoluzionari era visibilmente una visione estremistica ed infantile dei contestatori, anche perché la rivoluzione del linguaggio non trasmetteva contenuti percepibili dai destinatari dei messaggi che erano le classi lavoratrici di certo non aduse a certe forme espressive. Inoltre molti dei nuovi linguaggi d’avanguardia venivano dagli Stati Uniti che non eccellevano certo per sensibilità sociale e politica e spesso, come nella Pop Art, nel restare aderenti alle forme pubblicitarie e consumistiche non facevano altro che celebrarle piuttosto che contestarle.

Spunti Guttuso li trarrà anche da queste forme ma sempre con una rigorosa aderenza ai suoi contenuti permeati di una prorompente sensibilità sociale. 

Dal 1966 al 1970,  il risveglio politico con Mao a la “nuvola rossa”

E siamo al 1970  con “Lo scrittore Goffredo Parise visita a Pechino  la fabbrica dei libretti rossi, in effetti Parisi ne è sommerso, la superficie del quadro è quasi interamente occupata dai mucchietti di questi opuscoli per cui, secondo Massimo Onofri, “la sacralità di quel vangelo comunista è come annullata dall’anonima riproducibilità dei volumi che saturano il quadro, fino a sollevarlo entro una dimensione di assoluta irrealtà”. Crediamo tuttavia che l’artista ne abbia voluto esaltare la diffusione capillare nello sterminato continente cinese, per cui più che di “assoluta irrealtà” parleremmo di “simbolico iperrealismo”, tanto forte è l’evocazione della miriade di ricettori. Il libretto di Mao era invece presentato nella sua “sacralità” in quadri precedenti dove è raffigurato nelle mani di Lin Piao, lo ricordiamo in “Rivoluzione culturale”, non esposto, del 1969, strettoin mano come un breviario, ne seguiranno altri, fino alla citata  moltiplicazione dei  libretti rossi.,

Anche in “La nuvola rossa”, del 1966, il rosso è altrettanto invadente. Dietro un davanzale con poggiate cose eterogenee – dal fornellino con sopra la padella con l’uovo fritto e la mezza pagnotta di pane al  teschio bucranico di ariete con corna ricurve e alla pistola – ciascuna delle quali  è un simbolo evocativo, la grande onda color rosso fuoco, Werner Haftmann: ne parla così: “Figurativamente questa macchia rossa andrebbe letta come il riverbero del tramonto che nella serata romana entrava attraverso la finestra aperta. ma anche in questo caso il colore assume una qualità metaforica, diventa l’epifania di una nuvola associata alla bandiera rossa, ‘la bandiera della speranza e della libertà’, che porta il so messaggio rivoluzionario nella stanza e conquista alla propria causa anche quegli oggetti  banali. Tutto il quadro, perciò, sta a simboleggiare un risveglio politico”.  

I “Funerali di Togliatti”, dalla cronaca alla storia

Il risveglio avvertito con tale opera, due anni dopo  si è tradotto nell’esplosione politica dei  “Funerali di Togliatti”,  il dipinto monumentale del 1972 definito da Fabio Belloni “l’ultimo quadro di storia”. Lo studioso ne ha ricostruito la genesi, il significato e il valore, esponendo i risultati della sua accurata ricerca anche nella presentazione della mostra “Guttuso innamorato” alla Gnam, oltre che nel catalogo della mostra attuale su “Guttuso rivoluzionario”.

Dunque la genesi con gli interrogativi: come mai l’opera è stata realizzata ben otto anni dopo la scomparsa del leader comunista, avvenuta nel 1964,  quali circostanze o quali motivi hanno determinato ciò? Non ricorrenze particolari, si era già celebrato nell’anno precedente, il 1971,  il cinquantenario della fondazione del Partito comunista, e  l’anno successivo, il 1973, fu pubblicato  il libro di Giorgio Bocca su Togliatti che rinverdì l’interesse sulla sua figura suscitando polemiche.  

Nulla di tutto questo  nel 1972, ma intervennero altri eventi, quali l’elezione a segretario del partito di Enrico Berlinguer, succeduto a Luigi Longo, l’ultimo della generazione togliattiana, che segnava l’inizio di  un nuovo corso e poteva essere invitante celebrarlo con un’opera così evocativa;  tra l’altro questo è l’anno della morte di Giangiacomo Feltrinelli su un traliccio in Alto Adige,  non si seppe se in un maldestro tentativo di ripetere gli attentati altoatesini di quel periodo o se caduto in un’imboscata dell’estrema destra. Rispetto a Feltrinelli Guttuso, pur non condividendone le idee anarcoidi,  legato com’era all’ortodossia comunista, era fermo assertore del diritto a manifestare le proprie idee per quanto eretiche e non condivisibili esse fossero, così la figura dell’editore ebbe un posto nel “Funerali”, defilato e schivo come era sempre stato, e con lui Vittorini, altro “alieno” rispetto alla nomenclatura del partito, ai militanti più fedeli  e ai suoi più remoti ispiratori.  


Il mistero sulla realizzazione ritardata dell’opera è stato chiarito dallo stesso Guttuso che si è sottoposto di buon grado ai dibattiti popolari, oltre che alle interviste di prammatica,  in occasione delle esibizioni dell’opera alla platea dei compagni che, alla prima presentazione a Bologna, si incolonnarono in un a lunga e paziente coda lungo tutta Piazza Maggiore fino a Palazzo d’Accursio sede del Municipio: Guttuso stesso disse che i primissimi abbozzi su carta avvennero subito dopo l’evento, e il foglio nel quale vergava le sue intuizioni improvvise è rimasto per anni sul suo tavolo, sotto l’opera del momento;  fino a che, invece di continuare a ritoccare  il foglio per tradurlo poi in bozzetto, ha pensato di passare  all’opera definitiva, pur nelle sue enormi dimensioni, 5 per 4 metri, non sentendosi più di comprimere in uno spazio ristretto la sua visione che si andava allargando.

Nucleo iniziale della composizione fu il volto di Togliatti, che decise di riprodurre con i caratteristici occhiali per mantenere l‘immagine consueta al grande pubblico. Intorno al volto, un’infiorata come nei solenni funerali sovietici  e poi la folla con tante bandiere rosse.

Abbiamo detto di Feltrinelli e Vittorini come ospiti inattesi, per Lenin la soluzione fu di presentarlo tra la folla varie volte a dimostrazione della pervasività delle sue idee;  ovviamente ai primi posti davanti al volto contornato di fiori di Togliatti c’è l’establishment del partito, con Nilde Iotti e la figlia adottiva Marisa Malagoli.

Nulla è stato trascurato, i lavoratori con il pugno alzato su un’impalcatura di tubi Innocenti a dimostrazione della presenza viva del lavoro manuale, oltre ai numerosi intellettuali che, in omaggio all’ideologia gramsciana, erano il nucleo centrale del partito. 

Sono tutti volti grigi, come se una colata di grigiore fosse calata sulla folla traboccante,  un bianco-nero rotto solo dalle macchie fiammeggianti delle bandiere, se ne contano una quarantina, di un rosso sgargiante come è neutro il grigio delle figure, quasi una bicromia a marcare quel momento in cui la tristezza ingrigisce i visi mentre la fede politica continua a infiammare il partito e i  militanti.   Forse la definizione di “ultimo quadro di storia” è riduttiva, è ben diverso dalla “Battaglia del Ponte dell’Ammiraglio”, che  ha avuto anch’esso una utilizzazione nel partito. I  “Funerali”  sono entrati più profondamente nella vita  del PCI, a lungo nella sede di via delle Botteghe oscure, donati al partito da Guttuso con una lettera al segretario Berlinguer in cui auspicava la destinazione finale a Bologna, allora roccaforte comunista e sede di una istituenda nuova Galleria d’arte cui veniva data particolare importanza. 

A  Bologna, infatti,  il monumentale dipinto è pervenuto dopo le tante peregrinazioni nelle esibizioni in Italia, a Milano e Torino, Livotno,  Falcade e Acqui Terme,  e all’estero, Mosca e San Pietroburgo, Bucarest e Budapest, Praga e Darmstadt.   Perfino nel film di Francesco Rosi, “Cadaveri eccellenti”,  al quadro è affidato il messaggio finale, inquadrandolo al termine di una tumultuosa assemblea nella quale il partito ha messo in atto le sue tradizionali attitudini al compromesso accettando una manipolazione della realtà per ragion di Stato, divenuta ragion di partito dinanzi all’opposta conclusione possibile nella rivoluzione e nel colpo di Stato di un ipotetico delitto politico ai danni del segretario del partito.  

Se questi sono i contenuti, quale la resa pittorica? Anche qui un’innovazione, aderenza rigorosa alla linea fotografica dei volti, tanto che Belloni ha potuto ricostruire la fonte di tali ritratti in una serie di pubblicazioni, Come interpretare tale ricerca ben lontana dal  suo realismo impetuoso e coloristico, dato che nessuna di queste due caratteristiche si riscontra nella grande rappresentazione con i volti grigi delineati in forma calligrafica sul modello fotografico?   La risposta a questa domanda è nel fatto che si è trattato di un “quadro di storia” i cui committenti l’artista li identificava nei destinatari, la gente che voleva riconoscere e riconoscersi; mentre la storia, da parte sua, faceva valere le sue ragioni di tramandare l’evento nella sua realtà oggettiva, pur con tutti i suoi simboli. 

 Il ritratto-simbolo dei giovani artisti romani vicini al suo realismo controcorrente

Un altro quadro cui sono stati attribuiti  contenuti simbolici, questa volta al di là della sua semplice composizione, è il “Ritratto di Mario Schifano”, 1966,  commentato da Elena Volpato con una serie di riferimenti ad altre opere e alla situazione artistica del momento. Il volto dell’artista ha lo sguardo assorto, su uno sfondo bicolore bianco e azzurro come due “Autoritratti”  di Munch, e come “Suicidio I” dello stesso Schifano; altri riferimenti simbolici nel verde delle mani intrecciate e nel fatto che l’artista “lascia cadere sulla giacca bianca del giovane alcune gocce di colore azzurro”.

La Volpato vi vede “un inno all’onnivora forza di possesso della pittura: il rischio della divisione, della separazione tra soggetto e oggetto, viene esorcizzato nelle gocce di colore, che inglobano la figura di Schifano dentro la sua stessa tela, unendo autore e opera sullo stesso piano fisico di rappresentazione, quello della pittura di Guttuso”.   Per lui, infatti, “se vera pittura era, conteneva in sé l’unica possibile ricomposizione tra l’identità dell’autore, la sua verità di soggetto, e la materialità dell’opera”. 

Proprio Schifano come Angeli, Festa e altri pittori romani degli anni ’60  avvertivano questa stessa esigenza e al pari degli artisti della Pop Art, pur con i loro limiti, non ascoltavano le sirene dell’astrattismo e dell’esistenzialismo, la loro era “pittura del vero, con la sua materialità”, anche se su temi banali e consumistici.. Erano “nuovi realisti a cui Guttuso riconosceva la forza morale di non distogliere lo sguardo dalla strada, dalla loro contemporaneità”; inoltre sentivano “quel senso d’eternità che i reperti del presente  come quelli del passato diffondevano intorno a loro” per cui “i loro oggetti, le loro immagini, i loro simboli, seppur presentandosi in figure realistiche, andavano nuovamente raccontando l’enigma che era stato di Durer come della Metafisica”.   

Il dipinto di Franco Angeli, del 1969, “La stanza delle ideologie” sembra evocare il cinquecentesco “Melanconia I” di Durer, pur facendo prevalere “l’enigma dell’oggetto” perché “la verità del soggetto non è rappresentabile”, il suo volto è cancellato. Forse per questo Guttuso, pur giudicando “senza riporti culturali” il dipinto, ritrae a sua volta Angeli come sospeso nel vuoto, il viso terreo, gli occhi in basso, l’espressione cupa. Ma nel contempo, afferma la Volpato, “la Metafisica, la melanconia, i rischi di manierismo insiti nel loro lavoro, ancorché evidenti, non impedivano a Guttuso di riconoscere agli artisti di quella generazione il coraggio della realtà”. E non è poco con le avanguardie iconoclaste perché “un aspetto doveva essere importante più di tutto il resto: la loro determinazione ad abbracciare tutto con la pittura”.  Come Guttuso in tutta la sua vita artistica.

Le due opere ispirate alla militanza politica

Abbiamo lasciate per ultimi due dipinti agli estremi del periodo da noi ora considerato: “La discussione” del 1960 e “Comizio di quartiere” del 1975: quindici anni di differenza tra opere con la stessa motivazione politica, il suo impegno nel partito  e poi nelle istituzioni con la doppia elezione, prima al consiglio comunale di Palermo, e poi al Parlamento nazionale.

Nella “Discussione”  – una scena ambientata in una sezione del partito – ci sono  tutti gli ingredienti delle riunioni politiche interne, dai giornali sul tavolo, ai portacenere colmi di mozziconi di sigarette, nei visi accesi il fervore della lotta politica da lui vissuta a contatto con i “compagni”.  

Quindici anni dopo, “Comizio di quartiere”, dalla sezione alla piazza,  tra le case dalle cui finestre si affacciano i concittadini, l’espressione della democrazia partecipata come  è stata prima che la televisione allontanasse dal contatto diretto sostituendolo con quello virtuale. C’è un’umanità quanto mai pittoresca, come nella “Vucciria”, non mancano “citazioni” di Guernica  e di altre opere picassiane,  evidente il volto di Marylin Monroe della ben nota opera di Warhol, che fu colpita da un colpo di pistola di un fanatico, .

In questi due dipinti si riassume il  Guttuso politico che l’anno successivo verrà eletto in Parlamento, il “Comizio di quartiere”,  autobiografico, esprime il successo raggiunto in politica, da allora cessano anche le sue opere non solo politiche ma anche di ispirazione sociale e di denuncia.   

L’ultima fase di vita artistica e il messaggio nell’arte e nella politica

Condividiamo l’opinione secondo cui l’artista non ha avuto più bisogno di manifestare con l’arte il proprio impegno ideologico e politico avendo altre sedi in cui esprimerlo; in ciò avvalendosi appieno di quella libertà che, del resto, aveva sempre mantenuto affiancando il “privato” alla denuncia, i quadri con ritratti e nature morte a quelli sulle ingiustizie e le sopraffazioni.Nel fornire questa spiegazione, il curatore Castagnoli osserva come in tal modo “a pennelli e colori sia  assegnato il compito di produrre esclusivamente altri racconti, rispondere ad altri richiami, cedere ad altre seduzioni, consegnarsi ad altre fantasie; come sono quelle che, anno dopo anno, danno corpo e sostanza di poesia, nello studio del palazzo del Grillo, a quel sontuoso corteo di dipinti… “.E ne ricorda alcuni titoli, da “Caffè Greco” del 1976, a “Spes contra spem” del 1982.:

Dal 1975, dunque,  i suoi dipinti sono tutti inerenti al privato, in una scala di sensazioni e di emozioni che vanno dall’umore umbratile suggerito dai misteri della sua residenza monumentale all’esplosione di vitalità, anche nell’ultima parte della vita che vediamo nel rosso squillante di un’anguria, il rosso delle bandiere di partito nel frutto che è un’esplosione di vita e di speranza.

Morirà poco dopo quest’ultimo exploit affidato al rosso del frutto,  lasciando di sé un’immagine vitale e combattiva sui tanti fronti in cui si è svolta la sua vita che non definiamo inimitabile per non associarla a un personaggio anni luce lontano da lui, ma certamente inconfondibile e impagabile.

Questa mostra ce ne dà lo spaccato “rivoluzionario”, senza trascurare il “privato”, come le altre che abbiamo citato hanno reso altri spaccati  pur essi intensi e carismatici. La forte ripresa di interesse su Guttuso rende giustizia a troppe frettolose archiviazioni prima per un suo presunto conformismo tradizionalista con il realismo figurativo, o meglio “concezionale”, come lo ha definito Cesare Brandi, poi per  un certo oscuramento dovuto all’attenuarsi della presa del partito che poteva averne sostenuto l’ascesa, cosa non vera data la caratura personale e artistica di altissimo livello che non si è mai appoggiata al partito, al contrario  lo ha sostenuto con la sua autorevolezza.

Sia nei contenuti che nella forma le sue opere sono un compendio di storia civile e di evoluzione artistica all’interno del ridotto spazio tra figurativo e astrazione, non appartenendo a nessuno dei due campi ma avvalendosi degli apporti di queste due opposte visioni dell’espressione artistica, quella legata alla realtà e quella alla percezione dell’autore: ebbene,  in Guttuso la percezione è la propria realtà diversa dalla realtà “tout court”, quindi assolutamente personale quanto imprevedibile. E certe tendenze ultramoderne sembrano andare proprio in questa direzione.

Oltre alle sue opere, la sua intensa attività di uomo di cultura e di politico militante prima nel partito, poi anche nelle istituzioni. Al riguardo lui stesso poneva un problema etico scrivendo, nel 1984:: “Anche nel caso, in verità non frequente, ma che pure esiste, che il politico sia, per sua provenienza e per suo conto, uomo di cultura, non appena si presenta un contrasto tra la ragione politica e la ragione civile, il ‘politico’, dicevo, mette a tacere una parte di se stesso, si dimezza”.

Allora come oggi, è il caso di dire amaramente, per questo il curatore Castagnoli commenta: “Ecco, forse qui, in chiusura del suo articolo, mi piace pensare che Guttuso avrebbe potuto ancora aggiungere, ove non gli fosse bastato sottintenderlo: ma non l’artista, non io”. 

L’intera storia della sua vita con le tante  battaglie, artistiche e umane, civili e politiche, sta a dimostrarlo, e la mostra ha il grande merito di ricordarlo come simbolo dell'”arte rivoluzionaria”.    

Info

Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, Via Magenta 31 – Torino. Da martedì a domenica ore 10,00-18,00, la biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso intero euro 12, ridotto euro 9 . Info tel. 011.0881178 e 011.4429518.. Catalogo “Renato Guttuso. L’arte rivoluzionaria nel cinquantenario del ‘68”, a cura di Giovanni Castagnoli, Carolyn  Christov Bakargiev, Elena Volpato, marzo 2018, pp.270, formato 24 x 28,5, dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. I due primi articoli sulla mostra sono usciti in questo sito il  14 e il 26 luglio u. s.  Per le mostre e gli artisti citati cfr. i nostri articoli:  in questo sito per le  mostre romane sull’artista, “Guttuso innamorato” 16 ottobre 2017, “Guttuso religioso”  27 settembre, 2 e 4 ottobre 2016, “Guttuso antologico” 25 e 30 gennaio 2013; “’68, è solo un inizio…”  21 ottobre 2017,  “cubisti” 16 maggio 2013,  “astrattisti italiani” 5 e 6 novembre 2012, “Deineka” 26 novembre, 1 .e 16 dicembre 2012;  in  cultura.inabruzzo.it sui “Realismi socialisti” 3 articoli il 31 dicembre 2011, gli “irripetibili anni ‘60”  3 articoli il 28 luglio 2011, in “guidaconsumatore.fotografia” su Mario Schifano 15 maggio 2011 (gli ultimi due siti non sono più raggiungibili, gli articoli verranno trasferiti su altro sito)..

Foto

Le immagini sono state tratte dal catalogo della “Silvana  Editoriale”, tranne la 7^ con il particolare centrale dei “Funerali di Toglietti” tratta dal sito “Levante News”, si ringraziano entrambi, con  titolari dei diritti, per l’opportunità offerta.   Sono alternate immagini di opere di ispirazione “politica” con opere di ispirazione “privata”. In apertura, “Funerali di Togliatti” 1972; seguono, “Documentario sul Vietnam” 1965, e “Da Morandi” 1965; poi, “Gli addii di Francoforte” 1968, e “Lo scrittore Roberto Parise visita a Pechino la fabbrica dei libretti rossi” 1970; quindi, “La nuvola rossa” 1966, e particolare centrale dei “Funerali di Togliatti” 1972; inoltre, “Tetti a Velate d’inverno” 1957, e “Lenin” 1959; infine, “Nudo sdraiato” 1959, “Ritratto di Mario Schifano” 1966, e ““La discussione” 1959-60; in chiusura, “Comizio di quartiere” 1975.