di Romano Maria Levante
Si conclude la visita alla mostra “Ovidio, amori, miti e altre storie”, aperta alle Scuderie del Quirinale, dal 17 ottobre 2018 al 20 gennaio 2019, con cui terminano le celebrazioni del Bimillenario della morte del poeta. La sua poesia dedicata all’amore viene fatta rivivere con 250 opere d’arte in cui sono raffigurati miti e leggende resi immortali dai suoi versi. Organizzata da Ales S.p.A., presidente e A.D. Mario De Simoni, la mostra è a cura di Francesca Ghedini, che con Vincenzo Farinella, Giulia Salvo, Federica Toniolo, Federica Zagabra ha curato anche il Catalogo edito da Arte,m-L’ERMA. Alla mostra sono collegati incontri culturali e altre manifestazioni rivolte alle scuole e ai giovani per far meglio conoscere il poeta latino e le opere d’arte a lui ispirate.
“Gruppo scultoreo di Ganimede con l’aquila’“, prima età imperiale, al centro, dietro sulla parete, Damiano Mazza, “Ratto di Ganimede”1575
Una mostra che celebra un poeta dopo duemila anni dalla morte richiede che venga inquadrata storicamente, soprattutto trattandosi di Ovidio i cui versi sono stati doppiamente trasgressivi: l’audacia pedagogica dell'”Ars Amatoria”, e la concezione emancipatrice della donna nelle “Heroides” hanno trasgredito l’imperativo moraleggiante imposto ai costumi per frenare una società per certi aspetti gaudente; il coinvolgimento degli dei a livello amatorio in vicende da “pochade” di stampo prettamente umano, ha trasgredito rispetto alla loro sacralità.
Tutto questo è rimarchevole considerando che la severità nei costumi era imposta dall’imperatore Augusto nel suo programma di moralizzazione, e che gli dei presi a bersaglio dal poeta erano soprattutto Apollo, protettore di Augusto e di Roma, Venere, progenitrice della “gens Iulia”, e perfino il sommo Giove.
Ne abbiamo parlato ampiamente nella parte iniziale di presentazione, mentre nella seconda abbiamo percorso il primo tratto della vasta galleria di opere d’arte in cui si esprime quanto appena ricordato, con le austere immagini statuarie di Augusto e della moglie Livia, anche lei moraleggiante e severa, mentre i busti delle due Giulie, figlia e nipote dell’imperatore, ricordano la loro punizione. Poi Venere, dalla sensuale statua “Callipigia” agli amori con Marte sorpresi da Vulcano con l’irrisione degli altri dei, Apollo visto negli insuccessi amorosi con Dafne, e nella furia vendicativa, fino a Giove, nelle trasformazioni da predatore sessuale con Leda ed Europa, Io e Ganimede.
“Affreschi con Satiro e Monade”60-79 d. C.
Sono le “Metamorfosi” di Ovidio una fonte di questi miti e di molti altri, con versi che hanno ispirato le opere d’arte esposte in mostra, partendo dall’epoca coeva fino al nostro Rinascimento. Il piano superiore delle “Scuderie” è riservato a questo suo poema, con stanze dedicate a uno o più miti, rievocati con opere d’arte di tipologia ed epoca diversa, in una cavalcata nel tempo e nell’arte.
Lo spirito vendicativo degli dei e un altro predatore
Continua la dissacrazione degli dei sotto i due aspetti, l’aspetto amoroso predatorio nei riguardi dei comuni mortali e lo spirito vendicativo che li porta ad imperversare sulle vicende umane.
Questi due spetti li abbiamo riscontrati entrambi nell’Apollo cantato da Ovidio, dall’insuccesso amoroso nel vano assalto a Danae che si trasforma in alloro per sfuggirgli, al supplizio inflitto a Marsia reo di averlo sfidato al suono del flauto, non pago di essere risultato vincitore nella sfida.
Ora lo spirito vendicativo lo troviamo ancora in Apollo, con Diana. Nel mito delle Niobiadi sono associati nel fare strage dei figli di Niobe, figlia di Tantalo – mandato via dall’Olimpo per aver rivelato dei segreti di Giove – rea di essersi vantata di essere più prolifica, con i suoi 7 figli maschi e le 7 femmine, di Latona, madre delle due divinità, che si divisero il crudele compito: Apollo uccise ad uno ad uno i figli maschi, Diana le figlie femmine, e Niobe distrutta dal dolore chiese e ottenne da Giove di essere trasformata in un blocco di marmo, piangente con una fonte. Le opere dell’epoca esposte nella mostra sono 5 statue, 3 delle quali della metà del I sec. a:C. e 2 del II sec. d.C., tutte rappresentano un figlio o una figlia di Niobe che cercano di sfuggire alle frecce scagliate contro di loro. I 2 intonaci dipinti di Pompei allargano la scena, l’Affresco del I sec. a. C. mostra la fuga disordinata delle Niobidi a piedi e a cavallo tra l’indifferenza dei servi a caccia del cinghiale, nell’Affresco del I sec. d. C. è rappresentato un tripode con imprigionate le sorelle Niobidi trafitte dalle frecce di Diana, .mentre tre sono davanti al tripode, tripodi votivi di Augusto erano nel tempio di Apollo. Dopo 1500 anni Andrea Camassei ha raffigurato la “Strage dei Niobidi”, dipinto del 1638-39 con a sinistra uno dei figli trafitto e soccorso invano da due donne, a destra Niobe che stringe a sé la figlia più piccola rivolgendosi adirata agli dei vendicatori che incombono dall’alto.
“Affresco con Venere con lo specchio”, 60-79 d.C.
Diana è ancora la protagonista nella prima parte del mito di Meleagro, quando manda nella Calcide un cinghiale a distruggere i campi e minacciare la vita delle persone per vendicarsi di non aver ricevuto i sacrifici votivi come gli altri dei da parte del padre di Meleagro, Oineo. Meleagro, uno degli argonauti, provetto nel maneggiare la lancia, organizza la caccia al cinghiale con altri cacciatori tra cui Atalanta, la prima a ferirlo, poi è lui a ucciderlo con la lancia dopo che la bestia ha fatto vittime, e dona il trofeo delle sue spoglie ad Atalanta di cui è invaghito, contro la volontà dei due fratelli della madre Altea che non accettano siano date a una donna contestata anche da altri cacciatori. Nel diverbio, Meleagro li uccide e la madre Altea, per il dolore della perdita dei fratelli ne causa la morte bruciando il tizzone dal quale dipendeva la sua vita secondo la profezia avuta dopo la nascita; poi due sorelle, distrutte dal dolore, sono trasformate da Diana in due uccelli..
Sono 4 le opere esposte, con le diverse fasi in successione in una sequenza quasi cinematografica: Nel “Mosaico con caccia al cinghiale calcedonio”, I sec. a. C,, da Pollenza, Meleagro conficca la lancia uccidendo il cinghiale; poi nell'”Affresco con Meleagro e Atalata”, I sec.d. C.,di Pompei, l’eroe è seduto con le armi e il cinghiale ai suoi piedi rivolto ad Atalanta, alla destra, da lui armata, per darle il trofeo, a sinistra i due fratelli della madre Altea lo guardano scontenti di tale offerta; nei “Rilievi laterali di sarcofago urbano”, 170-180 d. C., nel rilievo destro Altea, spinta da una Erinni che le tira il braccio con il tizzone profetico, lo getta nel fuoco decretando la morte del figlio, nel rilievo sinistro le due sorelle di Meleagro, Eurimede e Melanippa disperate per la sua morte prima di essere trasformate da Diana, secondo l’ornitomorfosi greca, evocata dai due uccelli in volo.
“Statua di Niobide che fugge su una roccia”,metà I sec. a. C.
Dagli dei vendicativi torniamo agli dei predatori che abbiamo già incontrato con Giove anticipando per associazione il mito di Ganimede sebbene le opere a esso ispirate siano al termine della mostra.
Ed è predatore Plutone nel “Ratto di Proserpina”, che il dio degli inferi porta via sul suo carro, dopo aver visto la ninfa, figlia di Cerere, raccogliere i fiori con altre fanciulle. Il mito prosegue con l’intervento di Cerere presso Giove, che la liberò, ma restò in parte legata a Plutone trascorrendo con lui nell’Ade i sei mesi più freddi e con la madre sulla terra i sei mesi più caldi, la leggenda fa risalire le quattro stagioni a questa alternanza.
Le opere d’arte che vi si sono ispirate mostrano soprattutto la scena di inaudita violenza, nel contrasto tra la dolcezza della fanciulla inerme che si divincola invano e la brutalità del rapitore che la afferra alla vita. Così la “Pinax con il ratto di Proserpina”, 300-450 a. C..e la “Placca” ante 79 a.C., da Pompei, nonché il “Frammento di sarcofago urbano” 120 d.C. e il bronzo di epoca rinascimentale, “Plutone e Proserpina”, 1587. Alquanto diversa l’immagine del dipinto di Hans von Aachen dello stesso anno del bronzo, intitolato “Ratto di Proserpina”, sulla sinistra le compagne ignare guardano altrove, sulla destra il carro con la fanciulla inerme distesa mentre il rapitore la tiene ferma spronando i cavalli, Il contrasto del biancore del corpo della fanciulla con la figura scura che la porta via è quanto mai espressivo della violenza compiuta.
“Mosaico con caccia al cinghiale calidonio”, II sec.-inizi I sec. a. C
L’amore disperato: Adone e Venere, Teseo e Arianna, Ippolito e Fedra, Piramo e Tisbe
Il mito di Adone è quanto mai coinvolgente perché nei versi di Ovidio è sfrondato dalle trame ingarbugliate della leggenda e ridotto all’essenziale, la travolgente passione di Venere – ferita casualmente dalla freccia di Eros – per il bellissimo giovane, nato dall’involontaria relazione incestuosa del padre Cinira con la figlia Mirra, invece consapevole, con l’apertura della corteccia dell’albero in cui è stata trasformata Mirra scacciata dal padre. La dea si dedica totalmente a lui, per seguirlo nella caccia non va più nell’Olimpo, lo mette in guardia dagli animali pericolosi dai quali non lo proteggerà la sua bellezza, ma non può evitare che venga ferito a morte all’inguine da un cinghiale colpito dalla sua lancia. Disperata si strugge nel pianto, può solo trasformare il sangue dell’amato in un fiore, l’anemone, e le sue lacrime in rose.
Vediamo l’intera sequenza che inizia con “La nascita di Adone”, di Tiziano, 1508-11, al centro l’albero dalla cui corteccia viene estratto Adone, con tre Naiadi, a sinistra una coppia che allude al concepimento, sulla destra Venere; la nascita è anche nella xilografia sul volume a stampa “Metamorphosin, cum Raphaelis Regii Commentariis” di Ovidio, 1505, al centro, poi le altre fasi del mito, a sinistra il padre che scaccia Mirra, a destra Adone che amoreggia con Venere, sullo sfondo un cinghiale che lo ferisce a morte.
Alla “Morte di Adone” sono intitolate 3 opere pittoriche, tra il 1620 e il 1650, di Emilio Savonanzi, Giovan Francesco Gessi e Cornelius Pieter Holsteijn, nelle quali in vario modo il corpo del cacciatore è abbandonato al suolo con Venere attonita sopra di lui; altre 3 dedicate a “Venere e Adone”, dall’ “Affresco” pompeiano di età ellenistica in cui, ferito, si appoggia alla gamba di lei, al dipinto di Josepe de Ribera in cui “Venere scopre il corpo di Adone”, 1637, scendendo dall’alto sul corpo esanime, a quello di Michele Desubleo, l650, “Venere piange Adone“, rivolta al cielo come la Madonna addolorata, dal fianco di lui esce il sangue che lei trasformerà in anemone.
Giovan Francesco Gessi, “Morte di Adone”,1639
Un dio invece è protagonista di un lieto fine, nel mito di Teseo, Arianna e Bacco, dopo che l’argonauta, presente anche nel mito di Meleagro, l’ha lasciata sola nell’isola di Nasso, sebbene lei con il suo filo provvidenziale gli avesse permesso di uscire dal labirinto di Dedalo e uccidere il Minotauro, per poi fuggire insieme ad Atene. Sarebbe Minerva a volere questo sacrificio, perché il destino dell’eroe si incarna nel rigore augusteo, ma Ovidio segue la via dell’amore, le 5 opere esposte ispirate ai suoi versi riproducono in vario modo “Teseo che abbandona Arianna”: primo nella sequenza il busto marmoreo, “Arianna dormiente”, 1500, integrazione del gruppo “Arianna addormentata” , con il suo volto immerso nel sonno placido e sognante, lei del tutto ignara.
La “Lastra campana”, seconda metà I sec. d. C. va oltre, i due si guardano, Teseo riflette, lei piange, lui sa che ha il destino segnato; nel 1° Affresco di Pompei del 60-79 d. C. sale sulla nave voltandosi per guardare lei addormentata, con Atena che vigila sulla sua partenza, nel 2° Affresco la fanciulla guarda mestamente la nave con Teseo che si allontana e un amorino piange. Carlo Saraceni ha dipinto la scena, 1605-08, in cui lei dopo il risveglio vede la nave allontanarsi e protende le braccia verso il mare, disperata.
Nella seconda parte del mito l’opposto, “Bacco trova Arianna”, vediamo la scena riprodotta nell’Affresco di Pompei, “pendant” di quello con “Arianna abbandonata” del 60-79 d. C., in cui il dio, in piedi, la guarda mentre giace addormentata, con i monili e la coltre che viene sollevata da Pan per mostrargli il suo corpo, c’è anche un sileno e un satiro, sullo sfondo il corteo dionisiaco; analoga scena nel Pannello di un cammeo, inizi I sec. d.C., lei dorme ma non è distesa, ha il seno scoperto, con il dio c’è un satiro e degli amorini.
“Affresco con Arianna abbandonata”,60-79 d. C.
Finalmente Pompeo Batoni in “Bacco e Arianna”, 1773, rappresenta il momento dell’incontro e dell’innamoramento, lui in piedi protende la mano sul suo volto, lei seduta la guarda e si apre a lui, Eros in alto scocca la freccia d’amore. Teseo non è protagonista negativo soltanto del mito a lieto fine si Arianna con Bacco, ma anche della tragedia di Ippolito e Fedra che si conclude con la morte di Ippolito e della madre Fedra. E’ a forti tinte, pensando che Fedra era figlia di Minosse re di Creta e di Pasifae, la quale si era fatta fecondare dal toro mandato da Poseidone per essere sacrificato e aveva dato alla luce il Minoitauro, poi ucciso da Teseo che aveva abbandonato Arianna sorella di Fedra, andata sposa poi a Teseo!
Ebbene, Fedra si innamora follemente del figliastro Ippolito per il solito intervento vendicativo di Venere gelosa di Diana preferita dal giovane, e la nutrice per aiutare Fedra lo rivela al giovane che però fugge, Fedra per vendicarsi dice al marito, tornato dall’Ade, che il figliastro le ha usato violenza, allora Teseo lo espelle da Atene e chiede a Poseidone di punirlo, il dio manda dal mare un grosso toro – ancora un toro – che travolge il suo cocchio uccidendolo; Fedra allora si suicida per il rimorso.
Un Affresco di Ercolano, 60-79 d. C. mostra la nutrice che ne parla a Ippolito, e Fedra fa un gesto erotico, poi le xilografie di due edizioni di Ovidio degli inizi del 1500, di Venezia e di Perugia, fino alla fuga e al ferimento del giovane. La “Morte di Ippolito” la troviamo nella scultura di marmo di Jean-Baptiste Lemoyne, 1715, e nel dipinto di Joseph Desiré Court, 1825, entrambi mostrano il giovane a terra morente impigliato alle briglie.
“Affresco con Fedra e Ippolito”, 60-79 d. C,
Altrettanto tragico il mito di Piramo e Tisbe, anche se qui è l’innocenza sacrificata all’amore, basta dire che è la storia di Giulietta e Romeo dell’antichità. Due giovani che si amano, osteggiati dai genitori, comunicano attraverso una crepa del muro finché decidono di vedersi di notte sotto un albero; arriva prima lei ma si nasconde in una grotta per sfuggire a una leonessa, perde il velo bianco e la leonessa lo sporca di sangue, giunge Piramo non la trova ma il velo insanguinato gli fa credere che sia morta, si uccide con la spada e lo stesso farà lei quando lo vedrà morto per causa sua, il sangue colorerà di rosso i fiori di gelso. Un “Affresco con Piramo e Tisbe” di Pompei, 60-79 d. C. mostra lei dinanzi a lui disteso nella morte, con la spada a fianco, un membranaceo miniato da Stefano degli Azzi e un volume a stampa sulle “Metamorfosi”, di Venezia, 1522, riassumono la tragedia con una miniatura e una xilografia, , mentre il dipinto “Piramo e Tisbe” di Antoniuo Gionina, 1719, riproduce, come l’affresco, lei che sta per uccidersi sopra di lui disteso.
Fetonte e Icaro nell’attrazione fatale del Sole che li distrugge
Dal buio al sole, ma è sempre tragedia, non è l’amore a causarla ma il presuntuoso ardore giovanile. Lo vediamo nei due miti di Fetonte e di Icaro, collegati appunto dalla luce accecante del sole. Fetonte, figlio del Sole e di Climene, non si sente riconosciuto dagli dei e intende dare dimostrazione della sua ascendenza paterna guidando il carro del Sole. Lo chiede al padre che non vuole accontentarlo per il grave rischio che correrebbe, neppure Giove può condurre il suo carro, è rischioso per la difficoltà di guidarlo tra le costellazioni agguerrite e le asperità del percorso, ma il ragazzo non rinuncia e il padre Sole cede; avviene ciò che temeva, il ragazzo perde il controllo dei cavalli imbizzarriti, semina distruzioni nel cielo tra le costellazioni e sulla terra con incendi nei boschi, le acque prosciugate, finché Giove accoglie l’appello della Terra e riunisce gli dei, Sole compreso, prendendo l’unica decisione per fermare la distruzione: con un fulmine abbatte Fetonte e il suo carro impazzito.
“Affresco con Piramo e Tisbe”, 60-79 d. C.
Due membranacee su “Ovidio moralizzato” recano miniature sul mito, quella del 1350, di Pierre Bersuire, riproduce la scena, quella del 1315-25, miniata dal Maestro del Roman de Fauvel, le metamorfosi delle Eliadi in pioppi, abbracciate dalla madre di Fetonte, e del saggio Cicno, che espia colpe altrui, in cigno, con la purificazione nelle acque. Vediamo la “Caduta di Fetonte”, nell’affresco strappato esposto del 1596-99, di Ludovico Carracci, è riprodotto il ragazzo a testa in giù fuori dal carro rovesciato con i cavalli imbizzarriti.
Il Sole è protagonista anche del mito di Icaro, cui sono dedicate ben 8 opere esposte nella mostra. Come per Fetonte, la giovane età lo spinge a rischiare ignorando le raccomandazioni del genitore, in questo caso non ci sono i fulmini di Giove a perderlo, ma i raggi solari che sciolgono la cera usata per unire le penne formando le ali che il padre Dedalo aveva realizzato per fuggire dalla prigionia nel labirinto cui Minosse lo aveva condannato per aver fatto fuggire Teseo con Arianna dopo l’uccisione del Minotauro. Icaro non rispetta la raccomandazione del padre di seguirlo in volo senza andare vicino alle acque per non appesantire le ali con l’umidità né troppo in alto per evitare il troppo calore, vuole innalzarsi verso il sole i cui raggi sciolgono la cera e lui precipita in mare.
Le raffigurazioni sono le più varie, nel “Cammeo con Dedalo che applica le ali a Icaro”, I sec. a. C., la scena che vediamo anche nel più antico “Cratere a volute apulo a figure rosse”, IV sec. a. C.,, mentre due dipinti mostrano il padre intento a dare al figlio i consigli poi disattesi. Andrea Sacchi in “Dedalo e Icaro”, 1645-48, li mostra in primissimo piano, Carlo Saraceni in “Volo di Icaro”, 1605-08, invece da lontano, sull’orlo dello spuntone dal quale si getteranno per il volo. Saraceni ha raffigurato negli stessi anni anche “La caduta di Icaro”, con il padre in volo sulle acque che guarda impotente il figlio più in alto che sta precipitando, e il “Seppellimento di Icaro”, in cui viene vista un’assonanza con la “Deposizione” di Caravaggio. Anche l’ “Affresco con la caduta di icaro”, inizi I sec. d. C., di Pompei, presenta Icaro esanime a terra con Dedalo ancora in volo.
Ludovico Carracci, “Caduta di Fetonte” 1596.99
Ermafrodito e Narciso, fino al trionfo di Ovidio
La galleria espositiva dei miti di Ovidio si conclude con due figure che non solo sono rimaste particolarmente impresse, come Icaro e altre, ma in più sono entrate nel linguaggio comune.
Ermafrodito è diventato il maschio con caratteri femminei, fino ad avere il doppio sesso, come nel mito del figlio di Ermes-Mercurio e di Afrodite-Venere Afrodite – di qui il nome – di cui si innamorò la ninfa Salmacide vedendolo bellissimo vicino a una fonte, ma fu respinta e appena lui si immerse nelle acque lo seguì e chiese agli dei di unirli in modo inscindibile, per cui divennero un unico corpo, e quelle acque trasformarono tutti nello stesso modo. La “Statua di Ermafrodito”, copia II sec. d. C. da originale ellenistico, rende appieno i due sessi con le morbide forme femminee “callipigie”, mentre la parte superiore del corpo disteso appare maschile. Invece le altre 3 opere esposte mostrano “Ermafrodito e Salmacide” sulle rive della fonte: nel dipinto di Carlo Saraceni, 1605-08, l’adolescente nudo sta per entrare in acqua e respinge la ninfa che gli si avvinghia; nei dipinti del 1610 di Sisto Badalocchio e del 1620-25 di Francesco Albani, ci sono due figure molto simili ancora sedute a distanza, il ragazzo sembra un putto sorpreso, la ninfa è molto aggressiva.
Sisto Badalocchio, “Ermafrodito e Salmacide”, 1610
Ed ecco Narciso, il cui mito ha creato un carattere talmente popolare, il narcisismo, che ha fatto dimenticare la sua origine. Nella versione di Ovidio era un giovane bellissimo, respingeva tutte le ninfe che se ne innamoravano, come avvenne ad Eco, quando lo vide ma non poté dichiarasi a lui perché condannata da Giunone a ripetere le parole altrui, fu respinta e vagò elevando i suoi lamenti verso il cielo. La dea Nemesi volle punire Narciso facendolo innamorare della propria immagine riflessa nell’acqua non rendendosi conto di essere lui stesso, allorché se ne accorse capì che era un amore irraggiungibile e questo lo consumò fino a farlo morire. Quando le Naiadi andarono a seppellirlo, videro che era stato trasformato in fiori bellissimi, i narcisi.
L’“Affresco con Narciso” lo troviamo 4 volte nei reperti di Pompei, 60-79 d.C., in 3 contempla la propria immagine nello specchio d’acqua, nel quarto, scoperta la sua identità, si strappa le vesti; e in 2 membranacei del 1330 e 1460, in uno dei quali l’immagine riflessa è un bocciolo di rosa, nonché in un volume a stampa di Lodovico Dolce, 1561. Dei 3 dipinti su “Narciso”, il Domenichino, 1603-04, lo mostra sulla sinistra chino a contemplare la propria immagine riflessa nell’acqua in un ampio scenario paesaggistico che si dispiega con alberi e prati, un lago con barchetta e un castello; nei due di Giovanni Antonio Boltraffio e di un suo seguace, del 1500, solo il suo viso triste che guarda in basso.
E così si conclude la sfilata dei miti delle “Metamorfosi” di Ovidio. Il botto finale del vero e proprio spettacolo pirotecnico, nella nostra associazione di idee con la galleria espositiva delle “Scuderie”, è il dipinto di Nicola Poussin, “Trionfo di Ovidio”, 1625, una cosmogonia dell’amore come forza della Natura nei suoi 4 elementi, con 9 Cupido, 2 dei quali imbevono le frecce nel latte del seno di Venere addormentata a destra, il poeta è assiso al centro, coronato di alloro, si appoggia ai libri sull’amore, il braccio sollevato con corone di mirto, dominatore di una scena molto evocativa.
Ben si addice, al termine della nostra galoppata nell’arte ispirata ai suoi versi immortali, il pensiero di Federica Zalabra sulle “Metamorfosi” nella pittura: ” La sintesi tra parola e immagine che il poeta riesce ad operare è la forza che spinge la favola attraverso i secoli, incidendo sul’immaginario europeo e incitando all’imitazione e alla reinterpretazione” .
La mostra a coronamento del Bimillenario di Ovidio ne è la suggestiva prova visiva.
“Affresco con Narciso”, 60-79 d. C.
Info
Scuderie del Quirinale,via XXIV Maggio 16, Roma. Da domenica a giovedì, ore 10,00-20,00, venerdì e sabato ore 10,00-22,30, ingresso consentito fino a un’ora dalla chiusura. Ingresso e audioguida inclusa: intero euro 15, ridotto euro 13 per under 26, insegnanti, gruppi, forze dell’ordine, invalidi parziali, euro 2 per under 18, guide, tessera ICOM, dipendenti MiBAC, gratuito per under 6, invalidi totali. Tel. 06.81100256. www.scuderie.it. Catalogo “Ovidio. Amori, miti e altre storie”, a cura di Francesca Ghedini con Vincenzo Farinella, Giulia Salvo, Federica Toniolo, Federica Zalabra, Editore arte,m – L’ERMA di Bretschnider 2018, pp. 310, formato 24,5 x 30,; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. I primi due articoli sulla mostra sono usciti, in questo sito, il 1° e 6 gennaio 2019, con altre 13 immagini ciascuno. Cfr. inoltre i nostri articoli, in questo sito, per la mostra “Augusto”, 9 gennaio 2014; in abruzzo.cultura.it per “Villa Giulia a Ventotene” (itale sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).
Foto
Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra nelle Scuderie del Quirinale, si ringrazia Ales, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta; è riportato un campionario di quelle citate in questa seconda parte di commento ai miti evocati nell’opera di Ovidio. In apertura, .“Gruppo scultoreo di Ganimede con l’aquila’“, prima età imperiale, al centro, dietro sulla parete, Damiano Mazza, “Ratto di Ganimede”1575; seguono, 2 “Affreschi con Satiro e Monade”60-79 d. C., e “Affresco con Venere con lo specchio”, 60-79 d.C.; poi, “Statua di Niobide che fugge su una roccia”,metà I sec. a. C., e”Mosaico con caccia al cinghiale calidonio”, II sec.-inizi I sec. a. C quindi, Giovan Francesco Gessi, “Morte di Adone”,1639, e “Affresco con Arianna abbandonata”,60-79 d. C.; inoltre, “Affresco con Fedra e Ippolito”, 60-79 d. C, e “Affresco con Piramo e Tisbe”, 60-79 d. C.; ancora, Ludovico Carracci, “Caduta di Fetonte” 1596.99, e Sisto Badalocchio, “Ermafrodito e Salmacide”, 1610; infine, “Affresco con Narciso”, 60-79 d. C. e, in chiusura, “Cratere a volute apulo a figure rosse” con le storie di Dedalo e Icaro, fine IV sec. a.C.
“Cratere a volute apulo a figure rosse” con le storie di Dedalo e Icaro, fine IV sec. a.C.