di Romano Maria Levante
Prosegue la narrazione della mostra “De Chirico” al Palazzo Reale di Milano – nel quarantennale della scomparsa e nel centenario della svolta classicista e dopo cinquant’anni dalla grande antologica del 1970 – con oltre 100 opere del Maestro, organizzata in collaborazione con la Fondazione Giorgio e Isa de Chirico, presidente Paolo Picozza, a cura di Luca Massimo Barbero che ha curato anche l’imponente Catalogo Electa. Dopo aver illustrato le prime 2 sezioni, passiamo alle 3 successive, che riguardano l’evoluzione “ferrarese” della metafisica, seguita dalla svolta classicista del 1919 e dal ritorno metafisico negli anni ’20, tappe intermedie di un percorso ricco di sorprese.
Il passaggio da Parigi a Ferrara non è di poco conto, fu la guerra a determinarlo, con la risposta dei fratelli de Chirico al richiamo alle armi. Sembra che non fosse doverosa, come per Apollinaire che si arruolò, sebbene fosse francese, essendo nato a Roma, così per i de Chirico nati in Grecia, ma da italiani, quindi si sentivano tali e lo ritenevano, come l’artista ha scritto, “il nostro dovere”. Rientra nella riaffermazione di identità di chi nelle molte peregrinazioni vuol sentirsi radicato in una terra.
La metafisica “ferrarese”, tra biscotti e manichini
“Ferrara, l’officina delle meraviglie” – nell’invitante richiamo della 3^ Sezione della mostra – fu creata dagli Estensi in un territorio paludoso lungo assi ortogonali, de Chirico la definisce “città quanto mai metafisica”, perché la trova “solitaria e di geometrica bellezza”, come le sue “Piazze d’Italia” immerse nella solitudine con la geometria degli edifici, le arcate e le ombre. Ma non sono gli aspetti urbanistici peculiari e assonanti con la prima Metafisica, a caratterizzare la nuova metafisica, bensì caratteristiche altrettanto peculiari, ma più “interne”, si direbbe connaturate alla comunità locale. Nei negozietti soprattutto del quartiere ebraico – all’ebraismo de Chirico aveva rivolto molta attenzione a livello teorico – le povere vetrine con la loro “disposizione delle cose” evocavano quelle “associazioni spaesanti e inattese degli oggetti” che abbiamo già visto nella fase immediatamente precedente.
Lo riscontriamo in “”Il pomeriggio soave”, 1916, con i biscotti cosiddetti “crumiri” – che evocano alla rovescia le lotte dei lavoratori – ce ne sono 5 fissati su un riquadro blu dietro cui si apre una piazza ben diversa dalle “Piazze d’Italia” perché senza reale prospettiva, profondità e dimensioni, dai contorni scuri senza vere ombre che fanno sentire maggiormente il senso di isolamento. Il biscotto come simbolo della “terribile solitudine delle cose” che rende misteriosa la vita, lo farà capire scrivendo, nel 1919, “un biscotto, l’angolo formato da due pareti un disegno evocante un che della natura del mondo scimunito e insensato che ci accompagna in questa vita tenebrosa”.
Nello stesso 1916 un solo biscotto “crumiro”, anche qui su fondo blu, con un pezzo della tipica “coppia” del pane ferrarese su fondo rosso, circondano, per così dire, il gigantesco “occhio” su fondo bianco nel “Saluto all’amico lontano” che viene identificato nell’amico mercante Paul Guillaume, al quale darà il mandato di vendita dei propri quadri dopo la rottura con Breton, che anche per questo fatto che lo danneggiava sul piano professionale ed economico diventerà un nemico ancora più irriducibile, ma su questo torneremo in seguito. Dopo aver spiegato l’enigma dei biscotti si cerca una spiegazione all’enigma dell’occhio e la si trova nella concezione del Maestro che, seguendo le credenze degli “antichissimi cretesi”, gli attribuiva il potere di tenere lontane le energie negative, in quanto “allo stadio primo” ogni feto è “tutto un occhio. Bisogna scoprire il dèmone in ogni cosa”. E questo in una visione claustrofobica, senza neppure la falsa prospettiva di una piazza appena accennata, in cui viene avvertita l’inquietudine della guerra. Anche se, a differenza di tanti volontari, de Chirico non andò al fronte ma fu destinato a un ufficio nelle retrovie, e per questo riuscì a non interrompere del tutto la pittura nemmeno in quel periodo.
Abbiamo anche dei disegni in cui si nota come sia mutevole il senso claustrofobico dell’addensamento in una stanza ristretta. Mentre in “La sposa fedele” al mezzo manichino di spalle si apre la prospettiva di un corridoio con in fondo una finestra da cui si vede un alto palazzo con molte finestre e due ciminiere svettanti, in “L’apparizione” tanto il manichino seduto con la testa a uovo canonica che la figura eretta a lui apparsa sono compressi in uno spazio di cui si avverte la ristrettezza pur nei contorni sfumati; sono entrambi del 1917. Nel 1918 “La casa del poeta” e “Consolazioni metafisiche” presentano un assemblaggio di elementi, come gli immancabili biscotti “crumiri”, in spazi limitati e senza l’umanità, sia pure metafisica, dei manichini; ma in entrambi il vano di una finestra apre la vista sugli edifici all’esterno.
In questi disegni vi è sempre “un incastro di squadre” da disegno – altra peculiarità della metafisica “ferrarese” – delle quali il Maestro pochi anni dopo, nel 1919, all’atto di operare una prima svolta radicale, scrive che le vedeva “sempre spuntare come astri misteriosi dietro ogni mia raffigurazione pittorica”. Sono parte integrante della struttura portante del celebre “Trovatore” , opera del 1917 in cui il manichino acquisisce solidità e forza espressiva, con una nobiltà che ritroveremo in molte varianti, da ”Ettore ed Andromaca” al “Figliol prodigo” e così via. Inoltre si libera delle ristrettezze claustrofobiche, è in uno spazio aperto, anche se quasi addossato alle arcate nell’ombra, come in “Les Printeps de l’ingégneur”, ma alle spalle ha uno scorcio di “Piazza d’Italia” con la costruzione conica sulla destra.
Spazio aperto anche in “Interno metafisico con faro”, ancora del 1918, dato dal “quadro nel quadro” con l’immagine di un mare tempestoso e di un cielo con grossi nembi ispirata ad una cartolina, è il faro di Genova, omaggio alla città natale della madre; l’oppressione claustrofobica si avverte nella chiusura definita “asfissiante” in una stanza, ciò che piacque molto ai dadaisti, il tutto tra incastellature lignee e squadre da disegno. Saranno queste le architetture compositive di tanti altri “Interni metafisici”, il “quadro nel quadro” ospiterà ville e officine di varia natura e dimensione, ed anche carte geografiche in particolare delle zone irredente, c’è sempre la guerra in atto e de Chirico ne segue le vicende da molto vicino. Anche i suoi interessi artistici sono quanto mai vivi, al punto che Carrà, anch’egli sotto le armi, si fece trasferire appositamente a Ferrara per avvicinarsi a lui, affascinato dalla pittura metafisica di cui diventerà per breve tempo esponente, al punto che i detrattori di de Chirico strumentalmente tentarono di dargli un’inesistente primogenitura. Con loro De Pisis, oltre al fratello di Giorgio, che si farà chiamare Alberto Savinio.
In “Malinconia ermetica”, 1918-19, una scena classica, la testa riccioluta di Mercurio abbacinante nel bianco del marmo sembra affacciarsi dall’esterno, con dietro un ”cielo appiattito nel tono intenso di lavagna” – sono le parole usate da Carrà in “Valori Plastici” – in un interno con una scatola, un biscotto e un giocattolo, per una “natura morta” di cui il dio potrebbe essere visto sia come componente sia come osservatore, perché guarda gli oggetti dall’esterno.
Chiude la sezione “”Ritratto dell’artista con la madre”, 1919, con il significato di emancipazione dalla “centauressa”, lui raffigurato alla Nietsche come nell’”Autoritratto” del 1911. Sono trascorsi otto anni, lei ha l’espressione decisa come l’altra era mansueta. Barbero commenta: “Riprendendo un proprio dipinto, de Chirico mette già in atto un atteggiamento che caratterizzerà la sua produzione futura, quando replica negli anni venti le nature morte, negli anni quaranta la moglie stesa su una spiaggia e, dagli anni sessanta, reitera questi stessi anni ferraresi, epurati però, dal peso dell’enigma”. Ecco come questo avviene: “Ancora una volta de Chirico ritorna a sé, alla sua famiglia, per elaborare un cambiamento di rotta, già nell’aria sul limitare degli anni ferraresi e che trova la sua ufficialità nella personale romana del 1919 con la mostra alla casa d’Arte Bragaglia, aprendo una nuova stagione di vita e di pittura tra l’Italia e Parigi”.
Gli anni ’20, la svolta classicista
Questo “cambiamento di rotta” , che riflette il “ritorno all’ordine” del dopoguerra, è evidenziato nelle opere della 4^ Sezione della mostra, “Gli anni venti”, e ha inizio con un dipinto di stampo classicista, nel contenuto e nella forma pittorica, che rivoluziona radicalmente la forma metafisica in direzione inattesa. Riportandoci a quel 1919 potremmo dire che nell’arte di de Chirico “c’è qualcosa di nuovo”, anzi molto di nuovo rispetto al recente passato, aggiungendo però “anzi d’antico”. Sia perché l’“illuminazione” l’ha avuta a Roma davanti a un dipinto di Tiziano – come quella metafisica la ebbe a Firenze in piazza Santa Croce davanti alla statua di Dante – entrambe le volte in preda a un malessere fisico; sia, e soprattutto, perché il “ritorno all’antico” fu totale, al punto di effettuare copie e “d’aprés” dagli antichi Maestri direttamente nelle Gallerie espositive, come “La vergine del tempo” e “Diana”, La donna gravida” da Raffaello-, e “Ritratto d’uomo” dal “Ritratto di gentiluomo” di Lorenzo Lotto.
In questo contesto si inserisce “Il ritorno del figliol prodigo” del 1919, che apre la svolta classicista con le due figure che si abbracciano ispirate a Carpaccio, della Metafisica restano soltanto piccoli scorci di edifici sullo sfondo; ma il “ritorno” su questo soggetto non è definitivo, nel 1922 un manichino metafisico abbraccerà una figura pietrificata nel bianco statuario. A parte quest’evoluzione, la svolta è anche nella tecnica pittorica, con il ritorno ai materiali antichi, per questo utilizza la tempera, il tutto teorizzato anche nei suoi scritti, oltre che messo in pratica nella sua nuova linea artistica di stampo neoclassico.
Le prime due opere dell’inizio degli anni ’20 esposte in mostra “La sala d’Apollo (Violon)”, 1920, e ”L’aragosta (Natura morta con aragosta e calco”, 1922, presentate insieme a Parigi nel 1925, hanno molte analogie: in entrambe c’è una testa classica scolpita, Apollo nel primo, Niobe nel secondo, sono poste su un’ampia superficie, nel primo un interno non certo claustrofobico per la sua ampiezza e per le due finestre rettangolari che fanno vedere il cielo, nel secondo una distesa aperta fino all’orizzonte con una barca in secondo piano e un bel cielo azzurro. Inoltre, nel primo davanti alle due teste scolpite un grande violino con lo spartito, a destra e a sinistra delle statue, mentre nel secondo dei grandi pesci e una aragosta rossa, in una serenità veramente “olimpica”.
Nell’accostamento di oggetti non abbiamo più – osserva Barbero – il non sense dell’abbinamento torso-banane dell’ “Incertezza del poeta”, né il senso attribuito è incerto come l’allusione erotica che abbiamo ipotizzato. Per il primo basta ricordare che Apollo era il dio della musica, in più il richiamo familiare oltre che classico della vocazione del fratello, la sala potrebbe essere un tempio, le statue tra cui quella di Athena fanno sentire la Grecia di origine; riguardo al secondo l’abbinamento mare e barca con i pesci in primo piano è del tutto conseguente, la vela greca è anch’essa un ritorno alle origini, si sente aleggiare il mito dell’Odissea.
Del resto, è del 1912-22 “Ulisse”, ripetuto con la variante di una tenda sulla sinistra nel 1924, ci sono delle assonanze con “Odisseo sulla riva del mare” di Blocklin, 1869, nella figura barbuta e nella posizione seduta, a parte le braccia collocate molto diversamente. E’ una figura primitiva, quasi primordiale, che Sergio Solmi ha definito “corpo contorto e faunesco, addossato a un cupo lauro, da fiori ardenti”. Un autoritratto ideale, che precede l’identificazione nel viaggio sulla barchetta di Ulisse-Ebdòmero nella propria camera, molti anni più tardi? Di certo il Maestro scriverà, vent’anni dopo, a proposito del nudo in pittura – e “Ulisse” è un nudo – “che l’uomo conosce meglio d’ ogni altra cosa il proprio corpo; egli lo conosce così bene perché è il suo corpo è quello che gli è più vicino e più caro”, si vedrà anche nel suo celebre “Autoritratto nudo” del 1943, oltre che in quelli così numerosi e spettacolari in costume teatrale.
A proposito di “Autoritratto”, quello del 1924-25 che si trova in questa sezione si differenzia radicalmente da quelli precedenti e da quelli successivi, per il busto raggelato quasi in una statua di sale, le mani innaturali, addirittura Barbero vede nella destra “vagamente la forma di un Prigione in contorsione, mentre la sinistra sembra un guanto appoggiato su una tavola”; e sappiamo come i guanti abbiano un ruolo peculiare tra i tanti oggetti che popolano le sue visioni pittoriche, come nell”enigmatico “Chant d’amour”. E’ un ”Autoritratto” importante perché con esso “si toglie il busto ortopedico” della metafisica, secondo Cocteau, tanto che Barbero lo definisce “un punto di approdo rispetto a un percorso di radicale stacco dalla metafisica iniziato in quel decisivo 1919”, spiegato così: “Esaurisce insomma il tema dello spazio metafisico ed entra nella grande pittura, folgorato dai maestri antichi, da quel Ritorno al mestiere – auspicato nella pagine di Valori Plastici fin dal 1919 – con una profonda attenzione alla tecnica pittorica…”. Un svolta impegnativa, descritta così: “Tornare al mestiere! Non sarà cosa facile. Ci vorrà tempo e fatica”, e in questo lavoro “i nostri pittori dovranno stare oltremodo attenti al perfezionamento dei mezzi: tele, colori, pennelli, oli, vernici, dovranno essere scelti tra quelli di migliore qualità”, cosa che fece lui stesso.
Le altre opere della svolta classicista esposte sono due composizioni su figure mitiche dell’antichità e tre rappresentazioni di ville romane in cui l’elemento mitico e leggendario è sempre presente.
“Lucrezia”, 1922, e ”Oreste ed Elettra”, 1923, sono espressive del ritorno all’antico e al classico, nel contenuto e nella forma pittorica, con la mitologia romana che si aggiunge a quella greca, e non in modo reiterativo, bensì creativo, come “inventore dei temi eterni della pittura”. “La Lucrezia dechirichiana – è ancora Barbero – è una scultura vivente, tutta tornita intorno alla smorfia che ha impressa sul volto, al piccolo stiletto anodino, ai piedi quasi animali e ridicoli, e a quello sguardo vivo, teatrale e annoiato che la rende interprete di un dramma contemporaneo”, evoca “la crudezza eburnea macchiata di carne delle più secche eroine di Lucas Cranach”, viene paragonata anche a Niobe. Oreste ed Elettra segue “modalità teatrali” nelle due figure in forte contrasto cromatico, con lei consolatrice solida come una statua, lui disperato nella sua nuda fragilità, viene definito “quadro sintomatico ed esplosivo quanto carico di rimandi alle radici della pittura italiana”.
Ancora più espressive, in termini di adesione al classicismo, le Ville romane con le chiome folte degli alberi, l’opposto rispetto alla geometrica essenzialità delle”Piazze d’Italia” con le linee precise e le ombre nette, lo spazio spoglio e le minuscole figure umane nella sospensione metafisica; ora ammira, e lo scrive, come avveniva per i pittori antichi, “la bellezza eccezionale degli alberi, specie dei lecci, delle querce e dei pini marittimi, l’aspetto suggestivo ed evocatore dei ruderi, dei resti d’una vita che fu, sparsi tra la natura”. Uno scenario naturale reso favoloso dai cavalieri, con i loro destrieri, ancora nel segno del viaggio, questa volta via terra in chiave cavalleresca-medioevale e non via mare come in “Ulisse” e negli Argonauti.
Barbero cita il suo giudizio sulle interpretazioni della natura di Courbet, che “rivelano l’aspetto fantastico e lirico del mondo”, e gli attribuisce “un lirismo elegiaco che ricorda molto da vicino i brani paesistici di Poussin e Lorrain, e prima ancora dei Carracci”, in particolare Annibale Carracci nella natura rigogliosa c’è la presenza delle opere dell’uomo. Ciò che domina è la maestosità degli alberi e degli edifici: in “Villa romana” e in “La partenza del cavaliere errante (Paesaggio romano)” , del 1913, le fronde rigogliose nascondono quasi totalmente l’architettura, che invece domina in “Ottobrata”, del 1914, dove – sono parole del Maestro – “l’aspetto architettonico ha un senso romantico e avventuroso”- Raffaele Carrieri la definirà molti anni dopo “pittura felice e tranquilla, ma che serba in sé un’inquietudine come nave giunta al porto sereno d’un paese solatio e ridente dopo aver vagato per mari tenebrosi o aver attraversato zone battute da venti contrari”; e, nello specifico, rileva che “figure e cose appaiono come lavate e purificate e risplendenti d’una luce interna”, concludendo con questa definizione: “Fenomeno di bellezza metafisica che ha qualcosa di primaverile e di autunnale nel tempo stesso”. Quasi un ossimoro parlare di “bellezza metafisica” per un’opera classicista nel contenuto e nella forma pittorica, ma non lo è se si pone a mente alla “metafisica continua” di de Chirico, celebrata nella mostra di Genova, cui ci siamo sentiti di aggiungere “classicità continua” per la compresenza delle due visioni ideali e artistiche.
Negli stessi anni ’20, il ritorno della Metafisica
Non solo elementi classici nelle opere metafisiche ed elementi metafisici nelle opere classiciste, anche compresenza, negli stessi anni ’20, delle due espressioni pittoriche così divergenti; come del resto in Picasso, tra cubismo e neoclassicismo. Nonostante la svolta del 1919, la produzione metafisica non si è arrestata, nella concezione di Nietsche secondo cui “il passato e il presente sono sempre la stessa identica cosa, cioè tipicamente uguali in ogni varietà, e costituiscono … una struttura immobile e di significato diversamente uguale”.
Anzi, dopo l’esplosione classicista troviamo sin dai primi anni ’20 ma soprattutto dalla metà in poi, una nuova ondata metafisica, anche se limitata ai manichini e in forme spesso più morbide e arrotondate. Carrieri, nel 1942, scrive: “Il manichino di de Chirico più che un vero e proprio personaggio è un veicolo plastico. La sua struttura complessa ed elementare. E’ una macchina, ma è anche un essere soprannaturale, uno scheletro ragionato, una specie di androgino matematico composto di squadre, con una testa ovale senza lineamenti e con un profilo proiettato”. Dopo questa descrizione commenta: “Ha qualche cosa di solenne e di conturbante. Un’idea fissa. L’involucro di un eroe antico o futuro non ancora identificato”.
Lo vediamo in “Il figliol prodigo”, 1922, in cui ricompaiono alcune arcate delle “piazze” ma con uno sfondo collinare quattrocentesco, il figlio è un classico manichino dalla struttura fragile rispetto al padre solido come una statua di marmo nel suo biancore. E in due versioni di “Ettore ed Andromaca”, in quella del 1923 c’è minore metafisica, la figura di lei, con la veste che avvolge il corpo rotondo e statuario, nasconde in parte lui, manichino appena accennato armato di lancia; mentre la versione del 1924 ha tono teatrale, nell’abbraccio plateale tra lei, questa volta in un’ampia veste svolazzante, più classica che metafisica, e lui, perfetto manichino geometrico, con dei cavalli di sfondo sulla sinistra, le mura di Troia con una torre metafisica sulla destra.
Dall’evocazione dei personaggi più amati dell’Iliade al loro creatore con “Homére”, che segna la boa del 1925, una sorta di statua votiva spicca in un interno tenebroso, seduto con i libri nel torace – forse l’unico segno metafisico — e il corpo raggelato nella pietrificazione che abbiamo già notata nell’”Autoritratto” del 1924-25.
In questo periodo, tra il 1921 e il 1924, si logora il rapporto con Breton, il “guru” dei surrealisti che aveva inneggiato alla Metafisica di de Chirico come surrealista per eccellenza e aveva rilevato nel 1921 a un prezzo irrisorio – svolgeva anche attività di mercante – il gruppo di opere incompiute che Ungaretti, per conto dell’amico rientrato in Italia per il servizio militare, aveva depositato presso Paulhan. In seguito, le insistenti richieste di Breton di avere un quadro metafisico a un prezzo inferiore a quello richiestogli dai collezionisti che ne disponevano, indussero de Chirico a preparare per lui a un prezzo modico una copia di “Le Muse inquietanti” e dei “Pesci sacri”; non solo si fece autorizzare dal proprietario Castelfranco, ma dichiarò che le copie “non avranno altro difetto che quello di essere eseguite con una materia più bella e tecnica più sapiente”, cioè una nuova versione. Paradossalmente ciò segnò dopo poco tempo la fine del loro rapporto, forse perché Breton temette di essere soppiantato, come esclusivista di de Chirico, dal mercante Léonce Rosenberg che appena presentatogli proprio da lui, gli aveva organizzato una mostra a Parigi nel maggio 1925, oltre che da Guillaume, come del resto avvenne. L’accusa infamante di aver falsificato “Le Muse inquietanti” – forse da Breton venduto come originale e sconfessato dall’esposizione in mostra proprio dell’originale – fu l’inizio della fine, lo scontro fu molto aspro, de Chirico certamente non porse l’altra guancia, Fabio Benzi ne ha documentato con cura tutte le fasi.
Torniamo all’arte, nella seconda parte del decennio – sempre più inserito a Parigi dove è tornato al termine del servizio militare – protagonisti sono ancora i manichini, ma in posizione seduta, sembrandogli quelli in piedi assimilabili alle marionette, in un assetto desunto dalle sculture dei santi nelle cattedrali medioevali per accrescerne l’autorevolezza. Così i “Manichini in riva al mare” , 1926, nel torace un addensarsi di scatole come ex voto, due figure separate su una passerella. In questi dipinti, ma ancor di più nei successivi, spiccano i caratteri da lui descritti nel 1938 in “La nascita del manichino”: “Le gambe molto corte coperte dalle pieghe dell’abito… le braccia naturalmente s’allungano in proporzione al tronco”.
Lo vediamo nel trittico “The philosopher”, 1927,soprattutto nella sezione centrale dove gli arti sono ben visibili, nel torace incorporati libri, maschere, pergamene e non solo; nelle due sezioni laterali, con analoghi accumuli di libri e altro nel torace, notiamo linee arrotondate a anche vaporose di richiamo classico, il ritorno metafisico deve fare i conti con la forte spinta classicista. “L’archeologo”, dello stesso anno, rafforza questa constatazione, addirittura Barbero lo definisce “un capolavoro di classicismo evocato sia dalla posa del manichino sia dalla presenza delle rovine incastonate nel suo ventre”; e aggiunge che “de Chirico ne stravolge la posizione, lo adagia, facendogli prendere dunque le distanze dalla legnosità della marionetta per assumere l’aria pacata e imperturbabile dello sposo nel sarcofago etrusco”.
Invece nell’anno precedente, 1926, due opere con tutt’altro segno- In “Manichini guerrieri (due archeologi)” , non solo non ricorrono le rotondità del “Philosopher” e dell’”Archeologo” dell’anno successivo, ma non c’è neppure la secchezza geometrica del manichino metafisico, sono due figure spettrali come percorse da una scarica elettrica in uno spazio claustrofobico, definito dal Maestro poco più di dieci anni dopo “un fenomeno del più alto interesse metafisico”; nei loro corpi scomposti è stato visto un collegamento con il cubismo di Braque, non amato da de Chirico, a differenza di Picasso.
Nello stesso 1926 ci sono anche gli “Archeologi misteriosi”, due forme speculari, una nera e l’altra bianca, che si contrappongono come fantasmi dall’effetto inquietante, in un interno dai contorni evanescenti come l’orizzonte che si apre: “Le figure danno l’idea di sculture di pietra – ha scritto Ternovetz nel 1928 – esse sono come inchiodate alla terra, crescono dentro la terra…”.
E’ l’anno dei “trofei”, in primis il “Trofeo” per antonomasia, di cui de Chiricosottolinea, per bocca di Ebdòomero, “l’omogeneità e la monumentalità armonica formata da elementi disparati ed eterogenei” culminanti in “una cittadella, con i suoi cortili interni e i suoi giardini oblunghi e geometrici, che assumevano la forma severa di baluardi”; Barbero rileva che “scimmiottano le panoplie di trofei romani gli elementi impilati nel ‘Trofeo’” e osserva che “la prospettiva, quasi aerea, confonde la vista su una vallata popolata di colonne e templi”.
Anche “La notte di Pericle”. dello stesso 1916, è assimilata a un trofeo, formato da una catasta di scatole con in cima un piccolo tempio, su uno sfondo nero, mentre dell’eroe ateniese si vedono appena i contorni del corpo in una figurina evanescente incorniciata sopra il cumulo. Forse perché nell’anno precedente, con “Pericle”, 1925, abbiamo la sua figura con un elmo corinzio, l’aspetto statuario è attenuato dalla testa reclinata, quasi si sentisse abbattuto, e soprattutto da quella che Barbero definisce “una sorta di vestaglietta a fantasia variopinta che risalta ulteriormente nel contrasto con l’incarnato di pietra”. In tal modo “de Chirico tiene viva quella nota dissacrante e ironica che adotterà a breve anche per i propri autoritratti in costume”. In “Facitori di trofei”, 1925-28, invece, le tre figure in piedi che hanno costruito l’assemblaggio trionfale di scatole e oggetti non hanno “l’incarnato di pietra”, e dei manichini c’è solo la testa a uovo, per il resto colori, calore della carne e forma umana anticipano i successivi “gladiatori”, sono quasi degli infiltrati in una composizione ancora metafisica.
Come avviene per l’ “Interno metafisico con testa di filosofo”, 1926, dove non vediamo né la verticalità dei trofei, e neppure il non sense della distribuzione “ferrarese”, anche perché non sono oggetti da vetrina ma colonne, vassoi, quadri e scatole, fino a un tempietto, per Barbero “l’impianto è fuori controllo e l’equilibrio compositivo tocca un picco d’instabilità”. La testa di filosofo in primo piano, nonché i quadri addirittura riferibili a Max Erst e la sagoma nera ad Apollinaire, insieme con i reperti archeologici e il tempio che evocano la Grecia rimandano alla memoria che, secondo Fossati, “è condizione dell’agire, permea la volontà, le fornisce forza e direzione” e viene precisata così da Barbero: “Memoria di quei lontani templi greci che ne hanno popolato l’infanzia, un ricordo rinverdito dalla Magna Grecia, che con i suoi resti ha rappresentato una fonte costante e un rassicurante legame alle sue duplici radici”.
Torna così la “mitologia familiare” da cui siamo partiti, ma il nostro viaggio nel mondo di de Chirico continua, prossimamente le scoperte finali.
Info
Milano, Palazzo Reale, Piazza del Duomo, 12. Tutti i giorni apertura ore 9,30, chiusura lunedì ore 14,30, martedì, mercoledì, venerdì, domenica ore 19,30, giovedì, sabato ore 22,30, ultimo ingresso un’ora prima della chiusura. Biglietti, intero euro 14, ridotto 12, ridotto speciale 6, famiglie 1, 2 adulti euro 10, da 6 a 14 anni euro 6, gruppi euro 10, scuole euro 6. Info e prenotazioni tel. 02.92897740. Catalogo “De Chirico” a cura di Luca Massimo Barbero. Editore Marsilio/ Electa , settembre 2019, formato 23 x 32; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Si tratta della quarta parte, sulla mostra di Milano, dopo le tre della “ trilogia” su de Chirico nel quarantennale della scomparsa e nel centenario del “Ritorno all’ordine” della classicità: l’articolo precedente è uscito in questo sito il 22 novembre scorso, il 3° e ultimo uscirà il 26 novembre, a conclusione del nostro “quadrifoglio” dechirichiano in 16 articoli. Per la “trilogia” cfr. i nostri articoli, tutti del settembre 2019, usciti rispettivamente, per la terza parte sulla mostra di Torino il 25, 27, 29, per la seconda parte sulla mostra di Genova, il 18, 20, 22, per la prima parte sul libro di Fabio Benzi il 3, 5, 7, 9, 11, 13, 15 25, 27 settembre 2019. Per i nostri articoli precedenti su de Chirico degli anni 2016 e 2015, 2013 e 2010 cfr. le citazioni riportate in Info del primo articolo sulla mostra, del 22 novembre. Sugli artisti citati nel testo, cfr. i nostri articoli: in www.arteculturaoggi.com, Picasso 5, 25 dicembre 2017, 6 gennaio 2018, Cubisti 16 maggio 2013, Carracci 5, 7, 9 febbraio 2013; in cultura.inabruzzo.it, Cranach 10, 11 gennaio 2011, Dada e surrealisti 6, 7 febbraio 2010, Picasso 4 febbraio 2009 (questo sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).
Foto
Le immagini delle opere di de Chirico, che riguardano le 3 sezioni intermedie della mostra commentate nel testo, sono state riprese dal Catalogo, tutte tranne una (perché in doppia pagina), si ringraziano l’Editore, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta, e il titolare del sito dal quale è stata presa l’immagine n. 7, ilnotiziariodicortina.com, per la sua disponibilità “on line”, pronti a rimuoverla su semplice richiesta. Tutte le immagini sono diverse da quelle inserite negli altri 13 articoli della “trilogia de Chirico”, 15 ogni articolo, alle quali si rinvia per una visione più completa del “Film” della vita e dell’opera del grande Maestro. In apertura, “Il pomeriggio soave” 1916; seguono, “Il saluto dell’amico lontano” 1916, e “Interno metafisico con faro” 1918; poi, “Malinconia ermetica” 1918-19, e “Ritratto dell’artista con la madre” 1919; quindi, “La sala d’Apollo (Violon)” 1920, e “L’aragosta (Natura morta con aragosta e calco)” 1922; inoltre, “Ulisse” 1921-22, e “Oreste ed Elettra” 1923; ancora, “La partenza del cavaliere errante (Paesaggio romano)” ed “Ettore e Andromaca”, 1923; continua, “Homére” e “The philosopher” , 1925; infine, “Manichini in riva al mare” e, in chiusura, “Archeologi misteriosi” , 1926.
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