Franco Bernabè, 1. L’odissea nelle grandi imprese, lo sbarco nell’Eni

di Romano Maria Levante

Il libro di Franco Bernabè, “A conti fatti. Quarant’anni di capitalismo italiano”, a cura di Giuseppe Oddo – giornalista economico molto qualificato, autore di saggi ben documentati sulle grandi imprese italiane negli intrecci tra industria, finanza e politica – alza il velo che ha coperto vicende cruciali del nostro sistema economico. Tali vicende hanno investito due delle maggiori imprese del settore pubblico e privato, o meglio privatizzato, dove Bernabè ha ricoperto il massimo vertice, impegnandosi in battaglie  decisive contro i  maneggi della  politica  e la cecità spesso interessata di manager collusi con essa.  Ma oltre al rutilante palcoscenico è il “dietro le quinte” che rende preziosa la rievocazione, e i risvolti umani la fanno in certi tratti coinvolgente, mentre la forma narrativa fa sì che la lettura sia appassionante.    

La copertina del libro di Franco Bernabè

Cominciamo dal titolo del  libro dove si trova la chiave delle  350 pagine fittissime  in una parola  molto semplice: “Fatti”, ma non come participio legato a “conti”, bensì come sostantivo. Perché i fatti ne sono al centro, nella loro evidenza, non le opinioni e le interpretazioni come nelle  comuni analisi economiche  e sociali  che, pur riferendosi ad eventi determinati, li semplificano limitandosi all’essenziale: quello che conta per loro sono le considerazioni che ne derivano, e spesso sono hegeliani, “tanto peggio per la realtà”.

Qui invece contano i fatti, e solo i fatti, evocati con precisione e dovizia di particolari che potrebbero sembrare eccessivi se non si riflettesse che il diavolo si annida nei dettagli, come si dice. E se ne incontrano tanti di  “diavoli” nel racconto preciso e documentato di chi si è trovato spesso al loro cospetto: l’autore del libro, che ne è stato protagonista con la sua evidente caratura morale e la forte tempra personale.  

E’ una odissea nella quale ha resistito per l’energia e la capacità datagli dalla formazione cosmopolita e dai  valori in nome dei quali si è battuto con la forza di essere nel giusto. Ci sono anche i “conti”, ma soprattutto i “fatti”,  in una rievocazione incalzante  che lascia avvinti nel seguirla, come ci è successo non riuscendo a staccarcene fino a notte fonda. Perché tutti pensiamo di conoscere quei fatti, anche se da lontano, quindi sentiamo di voler rivivere vicende passate non dimenticate che hanno agitato il nostro Paese perché  riguardanti gangli vitali dell’economia nei rapporti con il sistema politico e con l’assetto sociale.  

Ma anche se sembra di averli vissuti in qualche modo, nel leggere l’accurata  ricostruzione  del libro ci si accorge di aver percepito solo le manifestazioni esteriori di eventi i cui retroscena sono  inimmaginabili,  e svelano intrecci impensati che vanno ben oltre ciò che si poteva pensare nel viluppo spesso perverso tra politica e grandi imprese, tanto più quelle strategiche che operano in settori vitali per il Paese.  

E se al centro della narrazione ci sono i “fatti”  che vengono messi a nudo e riportati  nella loro realtà misconosciuta, ben diversa dalle apparenze aprendoci gli  inviolati “sancta sanctorum”,  il protagonista mette a nudo anche se stesso, la propria vita, le proprie reazioni più intime dinanzi a eventi che hanno posto a dura prova le sue risorse intellettuali e professionali, e soprattutto quelle umane.  C’è  voluta una energia recondita, mobilitata per resistere alle forze avverse coalizzate  nel segno di obliqui interessi politici o economici – anche personali, nel senso  più deteriore del termine –  e per trovare soluzioni a livello manageriale cercando di farle prevalere  nell’interesse generale, da tutti sbandierato ma troppe volte tradito.

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Franco Bernabè

Non è possibile dar “conto” adeguatamente di un percorso personale e collettivo che si snoda negli anni  in una rievocazione minuto per minuto di ciò che si agitava dietro le quinte di tante affermazioni di facciata; oltre ai “fatti” ci sono i nomi, chiaramente indicati, nel bene e nel male, nomi celebrati nella politica, nell’economia  e nel management, con le parti di segno opposto che hanno recitato nelle vicende narrate.

A una vera narrazione si assiste, nella quale non mancano notazioni ambientali, dalle prime righe con la statua di Marx ed Engels nella visita a Berlino  poco dopo la caduta del Muro – significativamente posta nella copertina del libro con la scritta sottostante “Siamo innocenti”, forse a marcare un loro rimorso postumo – al prosieguo con l’aereo aziendale che porta il protagonista nei “road show”  dei mercati finanziari nel mondo o anche semplicemente da Roma a Milano sorvolando luoghi evocativi come il monte Soratte, e con circostanze come il pranzo a base di pesce congelato difficile da mangiare, e il “rimedio” a cena con una minestra di barbabietola rossa  in una remota zona della Siberia;  sono parentesi gustose in una storia dominata dalle questioni aziendali che sono complesse, ma vengono semplificate nelle loro componenti essenziali, anzi cruciali, facendo leva sui passaggi chiave, anche i più intricati e scomodi.  

Trattandosi di una cavalcata da cavaliere antico nei panni dell’uomo d’azienda moderno, qualcuno senza dubbio potrebbe vedervi un’autopromozione, se non autoesaltazione. Ma anche in questa valutazione soccorre la parola chiave, i “fatti”  che  dimostrano i risultati nelle battaglie vinte e in quelle perse, che hanno pur esse lasciato il segno dei valori in nome dei quali sono state combattute, e lo hanno visto rialzarsi e rilanciare. A questo riguardo dai fatti si passa  ai numeri, ai “conti”, come recita il titolo, ma i “fatti”  e i “conti”  accuratamente citati non sono tutti, riguardano la fase manageriale, sia pure ai più alti livelli, del suo percorso professionale; nel libro è solo accennato il “salto di specie”,  da top manager a imprenditore, con le società del “Fb Group” operanti nei campi più avanzati e, ciliegina sulla  torta, il settore artistico con la presidenza di prestigiose sedi espositive, dalla Biennale di Venezia  al “Mart”  di Trento e Rovereto, dalle  “Scuderie del Quirinale” e “Palazzo delle Esposizioni” alla “Quadriennale di Roma” di cui è tuttora presidente onorario. E ci si ferma prima del recente nuovo incarico alla presidenza di Cellnex.

A parte queste nostre notazioni “ultronee”, per così dire, rispetto al libro, tentiamo di seguire il percorso che viene rievocato, articolato e dettagliato fino ai minimi particolari. Cercheremo di evidenziare ciò che ci ha colpito maggiormente  dell’azione svolta  dal protagonista trovatosi nel cuore del capitalismo italiano al vertice dei maggiori gruppi del settore pubblico e privato, Eni e Telecom Italia, fino all’esperienza in PetroChina, il cuore del capitalismo cinese.  Concluderemo  con le valutazioni che trae dalla sua diretta esperienza: solo 17 pagine delle 350 complessive, a conferma che, come abbiamo detto in apertura, il titolo “a conti fatti”  consente una lettura palindroma alla rovescia, “i fatti contano”. E il libro lo dimostra.

Il “cursus honorum” in campo culturale

Ma prima di rievocare gli aspetti  salienti  della sua lunga odissea manageriale,  un sito come il nostro non può non sottolineare il suo “cursus honorum” in campo culturale:  le posizioni di vertice, cui si è appena accennato,  ricoperte “pro bono” nei  grandi centri artistici ed espositivi che ne qualificano ulteriormente la figura, a partire dalla presidenza della Biennale di Venezia dal 2001 al 2003.

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Bernabè presidente dell’Azienda Speciale Palaexpo nel 2014, con alla sua sin.
Emmanuele F.M. Emanuele presidente dal 2009 al 2012, e vice presidente nel 2007-2008

Il libro accenna soltanto al Mart di Trento e Rovereto, museo di arte moderna e contemporanea di cui è stato Presidente per dieci anni, dal 2004 al 2014,  rafforzandone l’immagine di eccellenza, con la media di visitatori di 200.000 all’anno nel primo quinquennio fino ad oltre 280.000 nel 2009.

Lascia questo incarico nel 2014, allorché viene chiamato alla presidenza dell’Azienda Speciale Palaexpo del Comune di Roma,  con le sedi espositive di Palazzo delle Esposizioni e delle Scuderie del Quirinale – prima del recente passaggio ad Ales del MiBACT –  più la Casa del Jazz. Incarico prestigioso ricoperto, ci piace ricordarlo, dal 2009 al 2012 da Emmanuele F. M. Emanuele, dalla finanza all’ impegno nell’arte nella Fondazione Roma con in più le realizzazioni benefiche, e all’impegno personale nella cultura anche con le sue poesie. Delle mostre realizzate da Bernabè nel 2014, anno di sua presidenza, ricordiamo al Palazzo Esposizioni su Pasolini,  Cerveteri e Meteoriti, alle Scuderie del Quirinale su Frida Kahlo e Memling.

Alle sue dimissioni dall’Azienda Speciale Palaexpo con l’intero Consiglio all’inizio del 2015 per il venir meno dei finanziamenti attesi che avrebbe dequalificato le prestigiose sedi romane – e questo è avvenuto effettivamente per il Palazzo delle Esposizioni restato all’azienda – viene nominato  presidente della Quadriennale di Roma, per la promozione dell’arte contemporanea, dal ministro per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo Dario Franceschini, e realizza  nel 2016 l’esposizione della Quadriennale d’arte “Altri tempi altri miti”, dopo che nel 2012  non c’era stata, ripristinando la continuità  espositiva ogni 4 anni con  una nuova impostazione: 11 giovani curatori con 10 percorsi tematici intriganti per 150 opere esposte.  E avvia  programmi impegnativi per dare sostegni concreti agli artisti italiani all’estero finanziando le sedi espositive straniere che sono incentivate a presentarli nelle loro mostre, e per promuovere la loro formazione artistica con “workshop” a livello internazionale in varie sedi in Italia.

Nello stesso 2016 la nomina a presidente della Commissione italiana per l’Unesco, con il compito di favorire conoscenza ed esecuzione in Italia dei programmi della sezione delle Nazioni Unite per la cultura. 

Ed ora la sua odissea manageriale, che si dipana in una continuità molto movimentata – e non è un ossimoro – con fasi di imprenditorialità in proprio in campi innovativi all’inizio del nuovo millennio, quello che chiameremo “il salto di specie”. Dunque ci apprestiamo a seguirlo nel suo lungo viaggio, consapevoli che la nostra rievocazione, pur sommaria e incompleta,  sarà comunque alquanto estesa perché tante sono le rivelazioni che fanno scoprire un retroterra nascosto e un sottofondo ben diverso da quanto è venuto alla superficie, in un “carotaggio” esplorativo mirato che associamo a quello in campo petrolifero.

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La presentazione nel 2016 della “16^ Quadriennale d’arte” con gli 11 curatori, al centro
il ministro per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo Dario Franceschini tra il presidente della
Quadriennale di Roma Bernabè alla sua dx, e il commissario Palaexpo Innocenzo Cipolletta alla sin.

Nell’industria pubblica, l’Eni: “core business”, “privatizzazione”, “divisionalizzazione” 

Che cosa colpisce di più nella vicenda dell’Eni con cui inizia l’odissea del nostro protagonista, dopo averne seguito sommariamente il “cursus honorum” in campo artistico-culturale?  Rimane impressa la determinazione di un manager con un carattere cosmopolita – scuola tedesca e innesto formativo americano – e all’inizio esperienze internazionali di rilievo, all’Ocse a Parigi, e aziendali, nella Fiat di Agnelli e Romiti, entrato come assistente del nuovo presidente, Franco Reviglio – professore universitario contiguo alla politica per vicinanza ideale, non “prestato” ad essa –  con  idee innovative che riesce a far prevalere sui tanti ostacoli posti da politici e manager in buona fede o collusi da amministratore delegato per sei anni. La funzione era di “coordinatore dell’attività di presidenza”, l’equivalente del “capo di gabineto” da ministro.

Da assistente al vertice alla “discesa” nella struttura di Programmazione, come vice-direttore, poi direttore per programmazione, controllo e sviluppo, nella pronta immedesimazione  con i complessi problemi e le prospettive di un gruppo molto particolare: di natura pubblica ma operante sul mercato secondo le sue regole però senza adottarne fino in fondo gli strumenti, in una specie di ossimoro penalizzante.

Enrico Mattei, il fondatore dell’Eni, era stato sordo alla politica che chiedeva la liquidazione dell’Agip, fino a usare i partiti per i suoi intendimenti di dare al Paese una pur relativa autonomia e voce in capitolo nel campo energetico ritenuto decisivo per lo sviluppo economico e il progresso sociale, ben al di là delle limitate risorse nazionali di idrocarburi strumentalmente enfatizzate per raggiungere il suo scopo. E nella sua impostazione aveva concepito l’ente più come una struttura in grado di dare corpo con professionalità alle proprie idee che come holding industriale dotata di sistemi efficaci di programmazione e controllo.

Bernabè  ha completato il superamento di questa situazione – già in atto dopo la costituzione delle direzioni dei Piani quinquennali e delle Strategie – impegnando la Giunta esecutiva, una sorta di “ircocervo” legato ai partiti politici che ne designavano i membri, nelle periodiche valutazioni dell’andamento economico delle diverse attività con rigorose analisi di controllo gestionale. Attività inquadrate in società caposettore con gli organi societari previsti dal Codice civile, che dipendevano dalla holding soprattutto per il meccanismo di autorizzazione degli investimenti ad opera del ministero delle Partecipazioni Statali cui ogni anno l’Eni trasmetteva la Relazione programmatica in base alla quale veniva conferito il Fondo di dotazione riferito al 20% degli investimenti; una sorta di formula magica con deboli motivazioni economiche per un’impresa operante sul mercato, che rendeva il gruppo ancora più soggetto al volere dei politici. E Bernabè, quando diventò direttore programmazione, controllo  e sviluppo, fece sì che il presidente Reviglio  vi rinunciasse, un “sacrificio” considerato necessario nella comune ricerca dell’autonomia dalla politica.

A parte quest’ultima significativa circostanza, il meccanismo autorizzativo  allontanava dalle logiche del mercato in cui si doveva competere perché, coinvolgendo il ministero competente, svuotava la holding di un potere cogente, pur se l’organizzazione delle sue strutture resa sempre più rigorosa – con funzioni professionalmente dedicate alla programmazione e controllo settoriale e generale nel loro collegamento con quelle delle società  – dava comunque dei risultati: era senz’altro di più della mera “moral suasion”.

Giulio Andreotti, presidente del Consiglio 23.7.89- 13.4.91

Già Mattei  aveva puntato sulla professionalità della sua squadra, ma poi era stata superata la pur altamente qualificata  segreteria tecnica – c’erano personalità come Cassese e Fuà, Ruffolo e Spaventa, per citarne alcune – approdando alla fine, pur gradualmente, a una forma moderna di programmazione che in base al quadro generale fissava, in una coerente visione di medio termine, obiettivi e strategie, interventi e azioni, risorse e risultati, fino agli appositi indicatori, e con il controllo gestionale e strategico dell’intero ciclo. In questo contesto gli investimenti non andavano più presentati – quindi valutati e approvati – in modo isolato nella loro entità tecnica e produttiva, come in passato, ma in relazione al contributo che davano a tre livelli crescenti di rilevanza strategica, identificati nel mantenimento, razionalizzazione, sviluppo; e inoltre con ciascuno di essi a tre livelli, basso, medio, alto a seconda della loro rilevanza operativa ed entità. Il tutto in un quadro di controllo semplice ma efficace, valido nel contempo sotto il profilo strategico ed operativo.

L’autonomia delle società caposettore, però, toglieva forza al sistema di programmazione, per cui più che i programmi riveduti nella scadenza annuale, restavano prevalenti i singoli investimenti senza una coerente integrazione: “pochi, maledetti e subito”, anzi molti da approvare da parte delle Partecipazioni statali.

Non era superata un’altra eredità di Mattei, la  diversificazione “lungo la catena del valore” che aveva portato il fondatore a creare i Motel Agip – oltre alle stazioni di servizio, che furono definite  “cattedrali nel deserto”  con  i successivi “Big Bon” commerciali  –  e a sottoporsi al salvataggio del Nuovo Pignone in una delle sue poche acquiescenze alla politica nei panni del visionario sindaco di Firenze Giorgio La Pira, azienda riconvertita a meccanica funzionale per il Gruppo in una sorta di diversificazione indotta.  

Di qui la “polisettorialità” del Gruppo, il “mantra” dell’Eni prima dell’ingresso di Bernabè, il quale vi sostituì la logica della concentrazione nel “core business”,  che suonava allora come rivoluzionaria perché si era esteso a dismisura il campo della diversificazione, motivata dai collegamenti produttivi ma spesso a copertura di salvataggi:  collegamenti effettivi in Snamprogetti e Saipem legate al ciclo degli idrocarburi, e anche nella petrolchimica, solo apparenti nella chimica secondaria come nel  tessile della Lanerossi e nelle caldaie a gas della Savio. Poi l’accollo dell’Egam, dalle aziende minerarie in stato fallimentare, ne era stato l’inevitabile corollario con perdite crescenti  che assorbivamo gli utili provenienti dalla produzione petrolifera e soprattutto dal gas naturale prodotto e di importazione a contratti di particolare favore.  

In questa situazione, puntare alla concentrazione sul “core business” voleva dire disboscare una foresta sterminata di partecipazioni, con settori diversificati distribuiti in un nugolo di 300 aziende. Ebbene, Bernabè c’è riuscito, lavorandoci già da vice direttore e poi da direttore, e potendo concretizzarlo nella posizione di vertice di amministratore delegato, raggiunta nel 1991 nel corso di un’odissea inenarrabile.

Giuliano Amato
presidente del Consiglio 28.6.92-29.4.93

Come sia stato possibile un simile risultato, che risale ad un quarto di secolo fa, il libro lo descrive nei più minuti particolari che riguardano non solo le vicende, ma anche gli interlocutori politici e manageriali:  quelli che si sono pervicacemente opposti  con le rispettive motivazioni, non sempre disinteressate, e quelli i quali hanno assecondato positivamente un  processo che oggi sembra inevitabile e  indiscutibile, ma non lo era nel quadro economico e industriale e nei rapporti con la politica di allora.

A questo punto alla parola magica “core business” se n’è aggiunta un’altra, “privatizzazione”, ma non è stato solo Bernabè a promuoverla, bensì addirittura la politica governativa di fronte  alla gravissima crisi valutaria che richiedeva la mobilitazione delle risorse pubbliche per arginare il pesantissimo deficit divenuto insostenibile pena l’uscita dal Sistema monetario europeo con catastrofiche conseguenze. 

Privatizzazione, in Borsa come Eni risanato, e divisionalizzazione 

Bernabè, però, ha coniugato “privatizzazione” a “core business”  – e  poi seguirà la trasformazione “multidivisionale” – con un’operazione magistrale nella quale ha resistito ai pervicaci tentativi di depotenziarla ricorrendo a una serie di azioni successive che rintuzzavano le tante manovre messe in atto soprattutto per mantenere le mani sulle “galline dalle uova d’oro”: erano le principali caposettore, Agip e Snam, che tanti volevano privatizzare separatamente, privando il gruppo Eni della sostenibilità data dai loro rilevanti utili e per di più compromettendo l’integrazione con le altre attività funzionali al ciclo degli idrocarburi. Non si trattava  da parte dei politici di resistenza a rinunciare alla  “polisettorialità” che era il “mantra” dell’Eni finché Bernabè lo ha contrastato sostituendolo con quello del  “core business”; ma di ben altro e non commendevole, anche se qualcuno dei suoi oppositori in buona fede c’era comunque.

E qui la battaglia per Bernabè si è fatta dura, e ha dimostrato non solo di essere un duro pure lui ma anche di saper aggirare gli ostacoli quando si erano fatti insormontabili. Ed era insormontabile la disposizione imperativa del presidente del Consiglio e del ministro del Tesoro di quotare l’Agip, magari con la Snam,   e non l’Eni nelle sue interconnessioni funzionali, lasciando il resto in un limbo senza futuro.

Ma andiamo per  flash,  citiamo i momenti chiave di una storia rievocata in 50 pagine fitte di circostanze e di nomi, in una interminabile partita a scacchi con la politica scandita da una serie di colpi di scena:  il traguardo da raggiungere era quello cui si intitola il capitolo: “La grande trasformazione”.

Carlo Azelio Ciampi, presidente del Consiglio 29.4.93-11.5.94

Trasformazione di che cosa? Di “un ente occupato militarmente dalla politica” con “difensori a oltranza dello status quo”, che si opponevano alla linea di Bernabè – nominato presidente del  “Comitato per la trasformazione dell’Eni” – sostenendo l’impossibilità della privatizzazione per motivi economici e ragioni istituzionali legati alle funzioni pubbliche e alla  esclusiva di esplorazione e produzione nella Valle Padana, anche con il sostegno della magistratura contabile, alle cui argomentazioni formali Bernabè contrapponeva elementi concreti, come la sempre minore rilevanza dei giacimenti nazionali in via di esaurimento.

Un primo arroccamento dei politici e del management colluso con essi avvenne su un Eni che volevano fosse trasformato non in S.p.A. di diritto privato ma in un’ipotetica Società di interesse nazionale.  E questo in base ad argomentazioni pretestuose, anche se apparentemente ragionevoli, di natura economica e perfino costituzionale. Sarebbero cessati i  privilegi connessi alla natura pubblicistica con l’ingresso dei privati, al quale inoltre era ostativa la natura pubblica dell’Ente: una tenaglia  alla quale – secondo i suoi interessati sostenitori – ci si poteva sottrarre soltanto con la formula di Società di interesse nazionale che avrebbe consentito di superare positivamente il carattere di Ente pubblico economico senza rinunciare ai privilegi e senza incontrare gli ostacoli posti anche dalla Corte Costituzionale.

Su questa linea il vice presidente Alberto Grotti si opponeva al documento presentato in Giunta da Bernabè per una S.p.A. che “si sarebbe potuta configurare nel medio-lungo termine come public company a proprietà largamente diffusa”, quasi “da portavoce ai presidenti di Agip e Snam “  e contrapponendo alla visione di Bernabè un  Eni nella forma di Società di interesse nazionale dalla quale non si sarebbero dovute scorporare le funzioni pubbliche e con le due principali società energetiche come sub-holding, una specie di Iri; appoggiava questo disegno conservatore, sostenuto dalla “vecchia guardia del gruppo”,  che svuotava di fatto la privatizzazione, anche il ministro del Bilancio Cirino Pomicino.

La proposta di Bernabè non trascurava le problematiche economiche né quelle giuridiche e costituzionali. Per le prime contavano i fatti, con il forte ridimensionamento dei vantaggi derivanti dall’esclusiva per esplorazione e produzione in Valle Padana, ormai si trattava di entità marginali e si poteva agevolmente rinunciare; per le seconde valeva la legge con cui due anni prima, nel 1990, Giuliano Amato, ministro del Tesoro nel governo Andreotti “aveva decretato che gli enti pubblici potessero essere trasformati in S.p.A. di diritto privato”, era la legge Amato-Carli.

Ci fu anche “il lavoro di sponda con Draghi” il quale, afferma Bernabè, “all’epoca direttore generale del Tesoro, sulla trasformazione delle partecipazioni statali la pensava come me”. In particolare, “Draghi, come consigliere d’amministrazione di Eni mi diede un importante assist. Il 4 maggio scrisse a Cagliari [il presidente dell’Eni di allora, N.d.R.] per complimentarsi del lavoro del Comitato da me presieduto, sottolineando in particolare l’esigenza di ridurre le prerogative pubbliche dell’ente”.

Silvio Berlusconi
presidente del Consiglio 11.5.1994-17.1.1995

Il colpo di grazia ai tentativi interessati di politici e manager collusi di mantenere le mani sulle due “galline dalle uova d’oro”  fu dato dal decreto emanato nel luglio 1992 da Giuliano Amato, da pochi giorni presidente del Consiglio dopo Andreotti, con la trasformazione, avente effetto immediato, degli  enti pubblici in S.p.A.  possedute dal Tesoro e sottoposte al Codice civile: Franco Bernabè, allora direttore centrale, fu nominato amministratore delegato dell’Eni all’inizio del mese successivo, il 3 agosto 1992.  

Era stato raggiunto, con la ferma opposizione alla Società di interesse nazionale,  il risultato che si prefiggeva come presidente dell’apposito  comitato: “La necessità che  il processo di privatizzazione portasse all’abrogazione  non solo ‘dei controlli direttamente collegati all’attuale sistema a partecipazione statale, ma anche di quel vasto reticolo di norme che si traducono in pesanti oneri non compatibili con il funzionamento di una Spa’”;  sono le parole di un suo documento del 20 febbraio 1992 in cui sosteneva che “’momento determinante del processo di trasformazione in Spa’ avrebbe dovuto essere il progetto industriale di gruppo: un piano di rottura con il passato”. E’ il mercato, bellezza… sembra ricordare ai suoi contraddittori interessati.

Tagliato il nodo gordiano con la repentina quanto benefica decisione governativa di dar vita alle nuove S.p.A. – incredibile nei bizantinismi della politica e di certo management – sembrava un percorso in discesa. Invece venivano posti nuovi ostacoli.  La semplice privatizzazione dell’Eni – alleggerito delle attività  in perdita estranee al “core business” per accrescerne l’appetibilità  per il mercato e il ricavato per il Tesoro –  conseguenza scontata della trasformazione in S.p.A., tornava in alto mare, “il governo ordina: si quotino Agip e Snam” e non l’Eni, per i motivi più o meno confessabili ampiamente rievocati nel libro. Come sono rievocate le contromisure di Bernabè contro “il partito della secessione”: la “Super-Agip” – con tutte le attività connesse al ciclo degli idrocarburi – “una mossa per prendere tempo” a aggirare l’imperio di quotare solo le due “galline dalle uova d’oro”, una sorta di “ego te baptizo piscem” di antica memoria.

Ma è solo l’inizio, gli ostacoli  interessati, in particolare dei presidenti di Agip e Snam e dei politici che li sostengono, si moltiplicano,  anche sulla dismissione delle attività estranee al “core business”, la Nuovo Pignone per prima, poi Savio, Agip Coal, Nuova Samim e imprese marginali;  per la chimica, che costituiva il maggiore problema, doveva restare solo la petrolchimica nel disegno di risanamento e rilancio del gruppo. Cade il governo Amato  e  con il governo Ciampi la stessa direttiva, quotare l’Agip  non l’Eni, e per bloccare la contromisura di Bernabè con la “Super-Agip” si muovono persino i francesi dell’Elf,  in un’operazione di disturbo che aveva dietro i loro servizi segreti; ma Bernabè li conosceva essendo stato chiamato da Cossiga nella Commissione per la riforma di quelli italiani, quindi sapeva come difendersi. 

Da Ciampi a Berlusconi non cambia la musica, anzi parte “il centrodestra all’attacco”, finché  avviene un fatto nuovo e per certi versi sorprendente: siamo nel giugno 1994, il governo accelera sulle privatizzazioni e insieme a Enel, Ina e Stet potrà quotare la “Super-Agip”, lo specchietto per le allodole confezionato da Bernabè. Ma lui, saldamente nella posizione di amministratore delegato, invece di accelerare cerca di rallentare, e con il nuovo ministro del Tesoro Lamberto Dini ci riesce, in modo da completare la ristrutturazione e il  risanamento che porterà a fine 1994 un incasso di 5.500 miliardi di lire con la dismissione di 125 società, la riduzione del debito di 5 mila miliardi e del personale di 37.000 addetti.

Lamberto Dini, presidente del Consiglio 17.1.95-18.5.96

Nell’autunno dello stesso 1994 alla Commissione attività produttive della Camera  esce allo scoperto e pone come alternativa preferibile alla “Super-Agip” la quotazione dell’intera  Eni S.p.A. risanata: l’azzardo riesce, ne parla anche con Berlusconi che lo inserisce in un documento, ma gli atti ufficiali sono ancora per la Super-Agip.  Cade il suo governo, subentra come presidente Dini, e nel marzo 1995 in un incontro a porte chiuse all’”Aspen Institute” sulle privatizzazioni con il nuovo premier, Bernabè illustrò i successi nella ristrutturazione che avrebbero consentito di portare in Borsa l’intero Eni così riorganizzato: tutti assentirono, anche Dini pur non escludendo la possibilità di quotazioni parziali. Finché il 10 maggio 1995 il decreto del presidente Dini con i ministri Clò e Masera fissò le procedure di privatizzazione dell’intero gruppo, e a seguire il C.d.A. adottò finalmente il nome Eni S.p.A: così “il cane a sei zampe va in Borsa”.  

Inizia “la volata in Borsa”, in corrispondenza dei risultati economici molto positivi: nel 1994 il  risultato operativo sale a 7.500 miliardi di lire dai 4.300 del 1992, l’utile netto a 3.251 miliardi rispetto ai 2.800 dell’anno precedente, nel 1995 raggiunge i 4.270 miliardi,  mentre l’indebitamento finanziario, cresciuto di 9.000 miliardi tra il 1989 e il 1992, scende di 5.000 miliardi nel biennio successivo; il margine operativo lordo nel 1995 raggiunge i 16.905 miliardi dopo i 13.613 dell’anno precedente.  A livello settoriale  “la soddisfazione maggiore proveniva dalla chimica, che chiudeva il 1994 con una perdita residua dovuta esclusivamente a oneri straordinari di ristrutturazione. Per il 1995 stimavamo un ritorno all’utile”. Non solo,  ma dismesse le attività non petrolchimiche la sua incidenza sul totale era scesa al 18% con la prospettiva di ridursi al 13%, avvicinandosi alla quota del 10% nelle grandi multinazionali petrolifere.

Con questi risultati l’Eni era diventata nel mondo la quarta società per utile netto, preceduta solo da Shell, Exxon e BP, ma seguita dalle grandi Amoco, Chevron e Mobil. Non era più la Cenerentola rispetto alle “7 sorelle”! Nei  5 collocamenti sul mercato lo Stato incasserà 24 miliardi di euro, passando dal 100% al 35%, mentre il valore azionario si raddoppierà rispetto a quello della prima emisione: successo su tutta la linea.

Le “7 sorelle”, però, come le altre compagnie multinazionali, hanno una struttura divisionale, e così doveva diventare l’Eni per superare l’anomalia costituita dalle caposettore, società  separate all’interno della holding, che non era una finanziaria di mere partecipazioni come l’Iri, ma  doveva diventare operativa. Un altro grande lavoro con tanti ostacoli finché di fatto  le caposettore sono state trasformate in divisioni dell’Eni , l’Agip S.p.A. incorporata è diventata la divisione “Upstream”, l’Agip Petroli “Downstream”, la Snam “Gas & Power”.”Tutti i poteri all’amministratore delegato” nell’Eni riorganizzato, da Bernabè ottenuti con un magistrale “fatto compiuto”, al presidente l’individuazione e proposta di progetti integrati strategici.

Siamo nel luglio 1997, l’Eni assume finalmente l’assetto societario di una moderna compagnia petrolifera dopo tante battaglie. Ma non abbiamo evocato la battaglia più aspra e  travagliata, dove oltre al più diretto concorrente, il maggiore gruppo chimico privato, e al governo, entra in campo la magistratura, quella nell’Enimont: si è svolta nel breve arco di un anno, tra il 1989 e il 1990, dopo una prima fase dal 1987,  durante le  battaglie  per la concentrazione nel “core business”  e  la “privatizzazione”.  E ha fatto venire alla luce un iceberg corruttivo all’interno dell’Eni, la cui eliminazione ha completato il risanamento economico con un risanamento morale altrettanto importante non solo per il nostro più grande gruppo energetico ma anche per la società civile e per il Paese. Ne parleremo presto, l’odissea continua.

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Il 2 ° Palazzo uffici dell’Eni a Milano, San Donato Milanese

Info

Franco Bernabè, “A conti fatti. Quarant’anni di capitalismo italiano”, a cura di Giuseppe Oddo, 3^ Edizione, luglio 2020, pp. 358, euro 20. Gli altri 4 articoli del presente servizio usciranno in questo sito dal 21 al 24 novembre 2020. Per le mostre citate della presidenza di Bernabè nell’Azienda speciale Palaexpo, cfr. i nostri articoli in www.arteculturaoggi.com nel 2014: al Palazzo Esposizioni, su Pasolini 27 maggio e 5 giugno, Cerveteri 8 giugno e 6 luglio, Meteoriti 5 ottobre, alle Scuderie del Quirinale su Frida Kahlo 24 marzo, 12 e 16 aprile, Memling 8 e 10 dicembre; per la mostra della “16^ Quadriennale d’arte di Roma” del 2016 “Altri tempi, altri miti”, 5 articoli il 16 giugno e dal 24 al 27 ottobre 2016 ripubblicati in questo sito dal 21 al 25 luglio 2020, insieme a due articoli di presentazione della mostra della “17^ Quadriennale d’arte di Roma” del 2020, “Fuori”, usciti sempre in questo sito il 1° e il 29 novembre 2019.

Foto

Le immagini che illustrano il testo sono state inserite per richiamare figure ben note che hanno recitato un ruolo rilevante nelle vicende rievocate, come sporadici fotogrammi estratti da un film quanto mai affollato di primi attori e comprimari. Non sono tratte dal libro che è senza illustrazioni, ma da siti web di pubblico dominio, di cui si ringraziano i titolari, precisando che non vi sono finalità di natura economica di alcun tipo e, qualora la pubblicazione delle immagini non fosse gradita, si è pronti a eliminarle su semplice richiesta. I siti, ai quali rinnoviamo la nostra più viva gratitudine, sono it.wikipedia.org, per le immagini dalla 5^ alla 10^, festivaltecnologia.it per la 2^ immagine, formiche.net la 3^, luomoeilpaesaggioblogspot.it per l’11^ e ultima; la 1^ riprende la copertina del libro, la 4^ è tratta dai nostri articoli sulla “Quadriennale d’arte” del 2016 sopra citati. In apertura, la copertina del libro di Franco Bernabè; seguono, Franco Bernabè e Bernabè presidente dell’Azienda Speciale Palaexpo nel 2014, con alla sua sin. Emmanuele F.M. Emanuele presidente dal 2009 al 2012, e vice presidente nel 2007-2008; poi, la presentazione nel 2016 della “16^ Quadriennale d’arte” con gli 11 curatori, al centro il ministro per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo Dario Franceschini tra il presidente della Quadriennale di Roma Bernabè alla sua dx, e il commissario Palaexpo Innocenzo Cipolletta alla sua sin., e Giulio Andreotti, presidente del Consiglio 23.7.89- 13.4.91; quindi, Giuliano Amato presidente del Consiglio 28.6.92-29.4.93 , e Carlo Azelio Ciampi presidente del Consiglio 29.4.93-11.5.94; inoltre, Silvio Berlusconi presidente del Consiglio 11.5.1994-17.1.1995 , e Lamberto Dini presidente del Consiglio 17.1.95-18.5.96; infine, il 2 ° Palazzo uffici dell’Eni a Milano, San Donato Milanese, e il Palazzo uffici dell’Eni a Roma Eur.

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Il Palazzo uffici dell’Eni a Roma Eur

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7 commenti

  1. Bravo Romano. Ottima sceneggiatura del testo di Franco Bernabè. Ho rivissuto gli eventi passati con emozione ma con un certo rammarico. Mi spiego. L’onda che allora ripulì l’ENI dalla zavorra delle attività malsane e comunque estranee, travolse anche una piccola isola, quella delle energie rinnovabili, che dopo trent’anni l’ENI ha riscoperto e che oggi occupa uno spazio di rilievo del suo “core business”.
    La programmazione guidata negli anni ’70 dal lungimirante amico Giuseppe Maria aveva dato vita ad una iniziativa industriale nel fotovoltaico all’avanguardia per l’epoca. E nei successivi 10 anni ed oltre abbiamo operato in molteplici Paesi in via di sviluppo in Africa ed Estremo Oriente, con interventi integrati di eolico, FV, biomasse e bonifica del territorio, alcuni dei quali visibili ancora oggi. Per non parlare degli impianti di produzione di energia da biomasse realizzati nella Valle Padana e quelli di produzione di dispositivi di efficientamento energetico – micro generatori, caldaie, pannelli solari tecnologicamente avanzati per l’epoca – in Basilicata. Il tutto senza investimenti dell’ENI, salvo l’iniziale fondo di dotazione datoci dal Presidente Giorgio Mazzanti. Il nostro torto: non siamo stati in grado di sensibilizzare i vertici ENI su queste iniziative storicamente premature, che il benefico zunami di Franco Bernabè ha spazzato via.
    Magari se mi ospiterai con il tuo supporto potremmo scrivere un articolo su questo passato che appartiene alla storia “minore” dell’ENI.

    1. Ti ringrazio di attribuirmi un'”ottima sceneggiatura del testo di Franco Bernabè”. Non ci avevo pensato, comunque è un’espressione generosa e per certi versi persino appropriata. Infatti, seguendo il tuo accostamento, mi accorgo di aver operato senza volerlo come uno sceneggiatore che traduce nei due tempi canonici del film il libro da cui è tratto, necessariamente più lungo e particolareggiato; nel mio caso ci sono voluti 5 tempi, in una sorta di “Novecento, Atto I” e “Novecento Atto II”, anche se qui, pur essendo sempre il Novecento, non è un secolo ma sono “quarant’anni di capitalismo italiano” come recita il sottotitolo del libro. Ma si è trattato di 350 pagine fittissime di eventi che meritavano i 5 tempi della “sceneggiatura” nei quali si sono manifestati in una successione incalzante. In effetti,sono stato preso da quella che mi è sembrata – e ho vissuto da avido lettore del libro – come un’odissea, tanto più che, come sai, sono stato sulla stessa “barca” per molti anni, vicino al protagonista nelle fasi più tranquille della “navigazione” in cui eravamo impegnati a rafforzare e rendere più efficace il sistema di programmazione con le strategie e il controllo del Gruppo pur consapevoli dei limiti dovuti all’esistenza di società caposettore e non di divisioni operative dell’Eni con in più la “zavorra” della diversificazione. “A conti fatti” – dopo il sottotitolo ripeto anche il titolo del libro – Bernabè è riuscito a traghettare con successo il gruppo Eni unito con tutte le componenti fondamentali non solo in Borsa ma anche nella struttura divisionale delle grandi multinazionali energetiche, previo radicale risanamento con relativa “potatura”. E come? Concentrandosi nel “core business”, nel quale allora non rientravano le energie rinnovabili, considerate forse un’appendice trascurabile in cui non disperdere risorse. Mancanza di lungimiranza dato che oggi, come sottolinei, fanno parte del “core business” dell’Eni? Mi sembra che non fai tale appunto, “maiora” premevano…. Detto questo, mentre indubbiamente a te e a “Giuseppe Maria” di cui citi solo il nome – che completo con il cognome “Sfligiotti”, citato nel libro di Bernabè come consigliere per l’energia scelto da Reviglio tra i primi atti dopo la nomina a presidente dell’Eni, conoscendolo bene per aver fatto parte con te della sua Direzione per i piani quinquennali negli anni ’70 – va il merito di aver visto lontano, e a te in particolare quello di aver proceduto con perseveranza in quella direzione nonostante i problemi posti, in questo campo, dal “benefico tzunami”, così necessario all’Eni in quella fase. Raccontare la storia che evochi sarebbe senza dubbio auspicabile, ed essendo il sito autoriale senza altre firme diverse dal titolare, si potrebbe farlo nella forma di una intervista a te nella quale potrai precisare le circostanze e i fatti accennati nel tuo commento, già di per sè stimolanti, quindi è di indubbio interesse approfondirli. Tanto più ora che con il “Recovery Found” la “green revolution” è divenuta un “must” a livello europeo, e le fonti rinnovabili ne sono un aspetto fondamentale, per cui la storia dei “pionieri” preveggenti potrà risultare quanto mai istruttiva, e forse per qualche verso ammonitrice. Del resto, nelle energie rinnovabili è entrato anche il “Fb Group” di Bernabè imprenditore, quindi…

  2. Caro Romano,
    grazie per la tua recensione. Interessante al punto da farmi venir voglia di leggere il libro di Bernabè.
    Come ricorderai, anche la mia società di consulenza fu coinvolta negli anni 80, primi ’90, ad un contributo strategico sul comparto chimico di ENI. Utilizzammo insieme il modello Pims che era stato già adottato con successo da numerose multinazionali americane ed europee. Ancora insieme, abbiamo applicato i nuovi concetti di unità di business a tutto il portafoglio chimico con un significativo impegno di tutti, i manager e i consulenti, coordinati proprio da te. L’ENI all’epoca era una conglomerata con oltre 330 aziende, operanti nei settori più diversi, molte delle quali in precarie condizioni economiche e finanziarie, che contribuivano a una perdita consolidata del Gruppo per oltre 800 miliardi di lire.
    Già il passaggio logico da aziende a business unit era difficile ma quello operativo, con il rimescolamento delle posizioni di potere – e di competenze – che comportava, richiedeva uno sforzo titanico.
    Un pezzo di storia che ci ha visto collaborare con il piacere di una forte vicinanza intellettuale e con l’efficacia di una squadra preparata e determinata. Sono passati quasi trent’anni! Da non crederci.
    A presto.
    Piercarlo

    1. Devo a te, caro Piercarlo, un sincero ringraziamento per aver ricordato il lavoro compiuto allora all’ENI con la tua società di consulenza e da me seguito come responsabile del coordinamento strategico di Gruppo – avendo come direttore per le strategie, la programmazione e il controllo proprio Bernabè, prima che diventasse amministratore delegato – proprio perchè è un’altra testimonianza diretta di quanto si è fatto per realizzare quella concentrazione nel “core business” perseguita da Bernabè contro il mito dominante dai tempi di Mattei della polisettorialità con la “diversificazione lungo la catena del valore” – per il risanamento dell’ENI divenuto necessario e urgente. Lo strumento del Pims – “Profit Impact of Market Strategy” – era provvidenziale perchè sottratto agli “aggiustamenti” di convenienza, essendo basato sulle evidenze oggettive dell’universo comparabile in termini di struttura interna e mercato con i relativi risultati reddituali, il “Par” del golf parametro identificativo dell’adeguatezza reddituale del ROI rispetto alle possibilità e alle aspettative. Tu poi hai continuato a “giocare” con successo sia con il “Par ROI” da alto consulente direzionale, sia con il “Par” del golf da appassionato golfista al Franciacorta. Resta in me indimenticabile quella stagione in cui abbiamo “giocato” insieme con i “Par ROI” all’ENI, e mi piace che a sottolineare questo contributo sia un protagonista come te del mondo direzionale in cui spiccano le tue multiformi quanto illuminate iniziative volte a creare un coinvolgimento sempre più vasto, da imprenditore della consulenza alle comunicazioni aziendali più qualificate, dai tuoi molti libri e saggi alle “impronte”, fino ai tuoi romanzi di vita aziendale, in quello che ho definito “salto di specie”. Una confessione che non ti ho mai fatto: sulla mia scrivania ci sono ancora le 3 palline da golf nella custodia donatami in una delle sessioni Pims, uno strumento al quale, come ricorderai, ho creduto come risolutivo dei dilemmi aziendali proprio perchè sottratto alle visioni limitate e contingenti, per non dire interessate, e lo abbiamo applicato insieme. E’ trascorso più di un quarto di secolo da allora, fai bene a sottolinearlo, ma la soddisfazione resta intatta e tu l’hai rinverdita, grazie ancora.

  3. Romano,
    Sei molto gentile a ricordare il mio impegno nella cultura manageriale italiana. Devo dirti che la decisione risale a molti anni fa, quando negli Usa ebbi modo di approfondire i metodi decisionali e gli stili direzionali che mietevano così tanti successi oltreoceano. Capii che avrei potuto aiutare le aziende nostrane a colmare il divario proprio quando, alla Harvard Business School, mi sono imbattuto in Pims, allora promosso dal prof. Bob Buzzell che, con Bradley Gale, aveva creato un istituto per ampliare l’osservatorio di origine accademica. Parteciparono centinaia d’imprese con i loro dati riservati, molte tra le multinazionali. Fu aperto un ufficio a Londra per la diffusione in Europa, con l’americano Bob Luchs e l’inglese Keith Roberts. Seguirono gli uffici di Colonia, Goteborg, Vienna, Milano e rapporti organici in Svizzera, Francia e Spagna. Successivamente subentrai a 3i Group plc – la multinazionale di private equity e venture capital con sede a Londra – nel capitale di controllo di Pims Europe che ho gestito per anni, fino al conferimento al Malik Management Center di San Gallo.
    Dopo aver dedicato molta attenzione all’approccio econometrico, ho sperimentato che non sempre la conduzione aziendale si basa su elementi puramente razionali. Nelle situazioni operative ciò rappresenta la normalità, ma così non è nelle situazioni più complesse dove la componente psicologica del decision taking è spesso determinante.
    Infatti, numerose decisioni chiave sono influenzate, fino ad essere guidate, da elementi di natura psicologica: carattere, orientamento al rischio, coinvolgimento personale nell’azienda, obiettivi del decisore, relazioni interpersonali con i portatori d’interesse, aspirazioni circa la reputazione, grado di fiducia verso il futuro, sogni e desideri, sono elementi altrettanto importanti. E ciò è tanto più vero quanto più in alto nella gerarchia aziendale si trovano le persone che devono decidere.
    Così ho affrontato il romanzo, come tu cortesemente ricordi, proprio perché permette di ricreare l’ambiente umano in cui maturano le decisioni. Insomma, per fare impresa bisogna ascoltare anche il cuore.
    Un abbraccio.

    1. Sono lieto di aver aperto il rubinetto dei ricordi di Piercarlo rispondendo al commento che ha postato dopo la mia rievocazione dei “Quarant’anni di capitalismo italiano” di Franco Bernabè; “A conti fatti” anche lui ne fa parte a pieno titolo. Così possiamo fargli gli auguri per il quarantennale dalla fondazione della sua società di consulenza avvenuta nel 1981 e per i 35 anni dall’adesione al sistema Pims avvenuta nel 1986 non solo con il nome di “Ceccarelli, Pims & Associati S.p.A.” – tornato da alcuni anni a “Ceccarelli – Consulenti di Direzione S.p.A.” – ma con la presidenza di Pims Europe per 6 anni e dopo aver curato nel 1992 l’edizione italiana dei “Principi Pims” di Buzzel e Gale, e dieci anni dopo, nel 2002, aver scritto “I nuovi principi Pims” con Keith Roberts di Pims Europe, e poi altri 8 libri di management, l’ultimo di quali, “L’urto della crisi” di dieci anni fa, andrebbe riletto oggi. E’ una “rara avis” un consulente direzionale che si preoccupa della diffusione della cultura manageriale senza tenere per sè i “segreti” da rivelare soltanto nelle prestazioni professionali della propria società impegnandosi in una pubblicistica così cospicua che non si è espressa soltanto nei libri, ma in una serie di iniziative: dai primi anni ’90, gli opuscoli periodici delle “Pims letter” poi le periodiche guide informative con il logo “Pims- Profit Impact of Market Strategy” fino alla serie più evoluta dei “Briefing” anche argutamente illustrati; ma non è tutto, con il più recente “Club Impronte” dalle informative al coinvolgimento diretto del management e dell’imprenditoria sui temi “topici” del momento. Ho ricordato tutto questo perché attiene al momento celebrativo evocato all’inizio, ma soprattutto per aiutare ad interpretare bene le sue parole rievocando anche una fase della nostra collaborazione che lui ha simpaticamente citato nel suo primo commento: la fase in cui ero diventato “più realista del re” per l’assoluta fiducia che avevo acquisito nel metodo Pims quando Piercarlo, pur confermandola, era andato oltre: l’esperienza sul campo della consulenza – un’attività altrettanto intensa di quella pubblicistica e di approfondimento culturale ad essa parallela – lo poneva a stretto contatto con manager e imprenditori, spesso in un rapporto quasi psicanalitico, per cui agli elementi oggettivi del “metodo Pims”, con la sua banca dati di comparazione universale, andavano aggiunti gli elementi soggettivi propri di chi guidava l’impresa, e così la consulenza diventava un “abito confezionato su misura” e non scelto sia pure con molta cura e maestria tra quelli “prodotti in serie” da una “griffa” prestigiosa. E ancora una volta Piercarlo non si è accontentato, per penetrare in questa nuova dimensione, così peculiare e personale, ha sentito il bisogno di adottare un nuovo strumento con un apposito linguaggio, quello del romanzo e ha fatto il “salto di specie” da analista a scrittore, aggiungendo all’approccio scientifico del primo l’intima immedesimazione del secondo. Ne è nata una nuova “collana” dopo quelle dell’analista, in un genere che ho chiamato “Company Thriller” nel recensire nel sito web sempre accessibile che ha preceduto questo, http://www.arteculturaoggi.com, “I Gianselmi” e “I Martini” il 14 gennaio 2017, i primi due suoi romanzi della serie, ne sono seguiti altri due, la serie continua…. In questi romanzi nella componente psicologica dei “decision taking” rientrano, oltre agli elementi personali, quelli familiari che in gran parte delle imprese italiane riguardano direttamente gli imprenditori sia nei rapporti quotidiani che in quelli economici connessi agli assetti proprietari spesso intrecciati alle parentele e quanto mai condizionanti. Con questo “background” professionale e umano, il grande consulente direzionale nel quarantennale della sua attività ci insegna che “per fare impresa bisogna ascoltare anche il cuore”. Figurarsi per tutto il resto! E’ un bel regalo di Epifania in apertura dell’Anno Nuovo, dopo un 2020 e delle festività in cui il cuore ha tanto sofferto, perciò non possiamo che ringraziarlo. Auguri, Piercarlo, per i tuoi … quarant’anni, la tua passione e la tua umanità sono contagiose, grazie anche di questo!

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