di Romano Maria Levante
Abbiamo rievocato le fasi culminanti dei 15 anni trascorsi nell’Eni – prima da assistente del Presidente, poi da vice-direttore e direttore centrale, fino a più di 6 anni da amministratore delegato – descritte in modo accurato e particolareggiato nel libro di Franco Bernabè, “A conti fatti. Quarant’anni di capitalismo italiano”, a cura di Giuseppe Oddo. E’ un percorso manageriale di successo all’insegna della coerenza e della determinazione a portare fino in fondo le proprie idee nella convinzione di lottare per il bene dell’azienda e per l’interesse pubblico contro gli ostacoli da parte di certa politica e dei manager collusi con essa. Una collusione che ha portato all’affare Enimont, una Tangentopoli all’interno dell’Eni in cui Bernabè ha fatto emergere l’ iceberg corruttivo che si celava dietro una compiacente banca svizzera. Ora si volta pagina, la storia prosegue con il suo sbarco in Telecom Italia, quanto mai movimentato fin dall’inizio.
In Telecom Italia, tra il “nocciolino duro” e i “capitani coraggiosi”
Come altre importanti svolte nella vita professionale di Bernabè, anche il suo passaggio a Telecom Italia nasce da una circostanza casuale, pur se non estranea all’ambito della sua attività. Siamo nell’ottobre 1998, dopo l’incontro a Londra con gli investitori della 4^ “tranche” del collocamento di azioni Eni a una cena organizzata dal banchiere di Credit Suisse Andrea Morante, che aveva curato l’offerta per conto del Tesoro; questi gli chiede di ospitarlo nell’aereo aziendale e nel volo di ritorno gli parla della “disastrosa situazione del ‘nocciolino duro’ di Telecom Italia” e della “disperata ricerca di un manager che li portasse fuori dal guado”, poi gli domanda se fosse disponibile a lasciare l’Eni “in tempi molto stretti”.
Alla sua istintiva risposta negativa – dopo la quotazione dell’Eni, come amministratore delegato voleva seguirne ancora la crescita – il banchiere cercò di far leva sull’interesse per una nuova sfida in un settore con la tecnologia in forte evoluzione. Bernabè si era occupato attivamente di telecomunicazioni valorizzando la rete di fibre ottiche che era stata posata in via preventiva sui metanodotti della Snam mediante il conferimento dei diritti di uso ad Albacom; e lo intrigava la proposta anche per i rapidi cambiamenti nel settore rispetto alla lentezza in campo energetico e per il fascino che esercitava una ”public company” privata rispetto a un’impresa pubblica pur privatizzata. Più che il porto sicuro dell’Eni risanato prevalse il”folle volo” di Ulisse, lo “spirito animale” per il rischio personale. Il dado era tratto.
Non valsero a farlo desistere le pressioni perché restasse all’Eni del ministro del Tesoro Carlo Azelio Ciampi e neppure del presidente del Consiglio Massimo D’Alema, che per dissuaderlo gli prospettò le insidie di un azionariato instabile rispetto alla sicura riconferma al vertice dell’Ente dopo le traversie della trasformazione in S.p.A. Sono i primi di novembre, dopo 15 giorni entrerà in Telecom; ma già nel gennaio successivo leggerà sulla stampa la prima anticipazione dell’Opa, l’Offerta pubblica di acquisto che la Olivetti, guidata da Roberto Colaninno, intendeva lanciare per la scalata che aveva deciso di compiere.
D’Alema sapeva già qualcosa? Un dato di fatto è il suo immediato appoggio agli scalatori di Telecom, e perciò si potrebbe pensare che abbia sconsigliato Bernabè di andare a dirigerlo conoscendone la tempra e prefigurando la sua resistenza alla scalata; ma “a pensar male si fa peccato”, perciò allontaniamo questo pensiero molesto e senza alcuna prova, infatti non risulta che lo sapesse fino al termine di gennaio.
I tempi, del resto, sono molto stretti, se già all’inizio di febbraio 1999 Bernabè parla delle voci sull’Opa nel C.d.A. di Telecom, e il 20 febbraio, a soli tre mesi dall’ingresso nel gruppo, riceve la comunicazione ufficiale dell’Opa sul capitale di Telecom; e viene l’apprezzamento di D’Alema per quelli chiamati i “capitani coraggiosi”, con la critica al “nocciolo duro” del 6,6% nel quale la Fiat di Agnelli aveva solo lo 0,6% e con quella partecipazione minima poteva dettare legge sul grande gruppo strategico per il Paese.
Non si crede ai propri occhi oggi come potessero essere considerati allora “capitani coraggiosi” – anche se D’Alema ha negato di averli chiamati così – da apprezzare e addirittura appoggiare in modo decisivo dietro una “neautralità” di facciata, coloro che con una società lussemburghese, la Bell, controllavano la Olivetti la quale controllava la Tecnost titolare dell’Opa: la Olivetti aveva 1,3 miliardi di euro di fatturato e 18 miliardi di debiti, mentre Telecom aveva 27 miliardi di fatturato e 8 miliardi di debiti. La formica carica di debiti che si mangia l’elefante leggero come una piuma per poi rovesciargli addosso il suo indebitamento e quello derivante dal finanziamento della scalata da parte della Chase Manhattan, ecco l’italianità!
E si resta sconcertati dinanzi al “fragoroso silenzio di tutto il mondo politico”, opposizione compresa, forse spiazzata dinanzi all’atteggiamento inatteso degli “ex comunisti alla prova del mercato”. Soltanto due voci apertamente dissenzienti, dalle parti opposte dello schieramento politico: l’ex presidente della Bnl, Nerio Nesi, entrato nei Comunisti italiani dopo aver lasciato Rifondazione comunista in polemica con Bertinotti che aveva fatto cadere il governo Prodi sostituito da D’Alema; e Beniamino Andreatta, l’economista DC anticonformista e battagliero. Nesi, “che conosceva bene Olivetti per averci lavorato molti anni prima”, vede che “Olivetti parte alla carica con gli applausi del governo” e denuncia senza mezze misure che erano “speculatori internazionali” – altro che “capitani coraggiosi” – e si trattava di “un’operazione contro la Telecom”; Andreatta, apparentemente più benevolo – forse perché intervistato la domenica successiva all’uscita dalla messa che rende “buoni” almeno sul momento – ma puntando più in alto si domandò “cosa avesse da gioire D’Alema per un’operazione che avrebbe addossato debiti su Telecom, dimezzandone il flusso di cassa disponibile per gli investimenti”, l’allarme lanciato da Bernabè. Prodi “manifestò in modo più prudente le sue perplessità”, sia perché gli si poteva rinfacciare la debolezza del “nocciolo duro” della privatizzazione da lui governata nel 1997 che si era rivelata quanto mai deludente, sia perché la sua non sembrasse una ritorsione per il modo con cui D’Alema lo aveva sostituito alla presidenza del Consiglio.
Bernabè anche questa volta si batte con tutte le forze sia pure su un terreno molto diverso da quello nel quale aveva combattuto all’Eni: non più il terreno produttivo ma quello finanziario, e della finanza più lontana dalla vita dell’impresa: quella delle incastellature azionarie e delle scorribande borsistiche. E’ impressionante seguire la puntuale ricostruzione che fa anche questa volta, quasi minuto per minuto, delle mosse e contromosse di una battaglia per lui inusuale ma per la quale si attrezza rapidamente. Soprattutto dinanzi al “boicottaggio delle contromosse di Telecom”. Da parte dei corsari? No, da parte delle istituzioni.
Nelle motivazioni è coerente con se stesso e denuncia direttamente al governo – che avrebbe potuto opporsi all’Opa in vari modi, compreso l’uso della “golden share”, una sorta di diritto di veto alla scalata – il rischio gravissimo dato dall’insostenibile indebitamento che sarebbe gravato su Telecom per finanziare la scalata speculativa di finanzieri molto indebitati e con scarsissimi capitali: addirittura un terzo di quelli necessari lo avrebbero acquisito vendendo il terzo operatore nazionale, Omnitel e Infostrada a un soggetto estero, il resto sarebbe stato preso a debito. Non era un bel modo di difendere l’italianità e, cosa ben più grave, si comprometteva un settore strategico per il Paese facendogli venir meno le risorse necessarie ad adeguarne la struttura produttiva al progresso tecnologico sempre più incalzante.
E’ evidente, date le premesse, che Bernabè va “a muso duro con il presidente del Consiglio”, sempre D’Alema che, dopo averlo dissuaso a lasciare l’Eni per la Telecom, ora veniva allo scoperto, entrando in palese contraddizione con la costante avversione della sua parte politica per le operazioni speculative tanto più che questa metteva a repentaglio l’interesse del Paese. Né sarebbe bastato appoggiarla per dare ai comunisti una nuova “verginità” convertendoli al mercato, quasi che in campo ci fosse il mercato nella sua espressione più sana e produttiva, mentre era l’opposto come appariva evidente dai dettagli stessi dell’operazione. Non era il mercato ma la finanza d’assalto con pochissimi capitali propri e incastellature societarie come castelli di carta, buona solo a caricare di debiti le prede e poi ritirarsi senza onore ma con tanti immeritati profitti mentre si affossa la vittima: sono parole nostre, non del libro, è bene precisarlo.
Sono parole di Bernabè, invece, quelle sull’incontro con D’Alema del 21 febbraio: “Davanti a lui non riuscii a trattenere la rabbia e la delusione per l’appoggio che il suo governo aveva concesso a un gruppo la cui componente finanziaria di natura speculativa predominava palesemente su quella industriale”. E ancora: “Gli rinfacciai soprattutto il fatto che l’esperimento della creazione di una public company avviato da Prodi e Ciampi non meritava di essere liquidato in modo così brutale”. Fino all’avvertimento rivelatosi profetico: “Gli ricordai inoltre che l’indebitamento finanziario che sarebbe gravato sulla società ne avrebbe pregiudicato le prospettive di sviluppo e che avrei fatto di tutto per oppormi a un’operazione che consideravo nefasta per Telecom e per il futuro dell’industria italiana”. D’Alema si difende “negando di aver dato supporto a Colaninno” ma è negare l’evidenza, a stare ai dati di fatto: “La sua critica al nucleo stabile e ai protagonisti storici del capitalismo italiano, a suo dire incapaci di rischiare, non lasciava dubbi sui suoi orientamenti”. Conclude Bernabè: “Ci lasciammo in un clima di grande freddezza”.
E il giorno dopo, lunedì 22 febbraio, presenta un ricorso urgente contro l’Opa – preparato nel fine settimana con Guido Rossi, esperto di diritto societario e già presidente di Telecom, e con Renzo Costi esperto di diritto commerciale, già al lavoro prima dell’annuncio ufficiale – incentrato sulle sue irregolarità formali alla Consob, che “fu costretta ad accogliere gli argomenti di Telecom, ritenendo non valida l’offerta nei termini in cui era stata formulata”; quindi cadevano gli “obblighi di passività” per Telecom, poteva dar corso alle contromisure. Fu uno shock salutare, seguirono dei ripensamenti, “il tarlo del dubbio s’era insinuato tra i consiglieri di D’Alema”, tra loro l’economista Marcello Messori si era dimesso prendendo “le distanze dall’Opa e dopo aver denunciato l’opacità della catena di controllo Hopa-Bell-Olivetti”.
Stop alla scalata, dunque? Neanche per sogno, D’Alema non demorde. Passano solo tre giorni dal ricorso accolto dalla Consob che giovedì 25 febbraio convoca il suo presidente a Palazzo Chigi – “inusuale convocazione in un momento cruciale della battaglia” – e lo incontra. I “capitani coraggiosi” ricevono l’aiuto decisivo: “Il giorno successivo Olivetti trasmise all’Autorità di controllo della Borsa una comunicazione di Opa riveduta e corretta che ottenne il via libera dalla Consob il 27 febbraio e segnò l’avvio formale della procedura di offerta e degli obblighi di passività per il Cda di Telecom”. Riveduta e corretta con autorevoli suggerimenti venuti dopo l’incontro a Palazzo Chigi della domenica precedente? Di certo è un “post hoc”, ma potrebbe sembrare anche un “propter hoc” a chi fosse disposto a “far peccato” con il “pensar male”. Bernabè non è disposto a tanto e si limita ad affermare: “Non si sa se tra l’incontro del 25 e la decisione di autorizzare l’Offerta vi fossero altri nessi oltre quello temporale”; ma non può trattenersi del tutto e aggiunge: “La coincidenza di date fra i due eventi fa sorgere perlomeno il dubbio”. Il libro intitola “le ambiguità della Consob” il relativo paragrafo, ci sembra perlomeno eufemistico e riduttivo.
Non è solo la Consob a schierarsi inaspettatamente dalla parte degli “scalatori”. C’è anche il ministro dell’Industria che usò l’alibi dell’italianità dei “capitani coraggiosi” contro l’indolenza del capitalismo nostrano, come se fosse una giustificazione sufficiente considerado che gruppi esteri non avrebbero potuto avventurarsi agevolmente in un settore strategico protetto anche con lo scudo della “golden share”.
Si trattava di Luigi Spaventa e di Pierluigi Bersani, non potevano deludere D’Alema, il leader dei comunisti alla guida del governo: Bersani storico componente del gruppo dirigente del partito, Spaventa dal 1976 al 1983 alla Camera eletto nelle liste del PCI come “indipendente di sinistra” prima di tornare a insegnare, e molto dopo, dal 1998 al 2003, presidente della Consob. Solo la conseguente condiscendenza può spiegare una simile miopia, inconcepibile stando alle loro competenze e alla loro corretetzza.
Bernabè rinuncia al ricosrso al Tar per non portare in sede giudiziaria un problema aziendale, tanto più che “pur essendo un organo indipendente, anche il Tar avrebbe risentito del clima politico favorevole che circondava Colaninno”, inoltre le posizioni di alcuni consiglieri, legati a Mediobanca, non facevano presagire un giudizio equanime. La contromisura adottata, in linea con la sua impostazione manageriale e diremmo culturale, fu un piano industriale per la crescita di valore nel medio e lungo termine, mediante le dismissioni delle attività estranee al “core business”, che torna anche qui come all’Eni in una evidente coerenza; e l’integrazione tra Telecom Italia e Tim. Lo strumento? Prima si pensò ad un’Offerta pubblica di scambio poi fu trasformata in Offerta pubblica di acquisto da sottoporre all’assemblea. Le finalità erano di natura produttiva per la convergenza tra telefonia fissa e mobile con importanti risvolti finanziari nel rafforzamento della “public company” sganciata dal “nocciolo duro”, già “nocciolino”: e tale rimarrà.
Si sarebbe avuto ancora più mercato, e si ponevano le basi per superare il “sindacato di controllo” che con poco più del 6% dominava l’impresa, inoltre ci sarebbe stata la “lezione” che D’Alema voleva dare alle grandi famiglie inerti, gli Agnelli soprattutto. Ma si volle non capire, forse i motivi erano altri, e in questa nuova fase dell’odissea del protagonista, mentre si scatenano gli appetiti, la politica – e si tratta della sinistra – paradossalmente sta dalla parte degli speculatori d’assalto: il mondo alla rovescia.
E non solo la politica nel presidente del Consiglio D’Alema, ma anche la grande finanza con Enrico Cuccia e perfino la Banca d’Italia con Antonio Fazio. Il quale aveva assicurato che “la banca centrale non si sarebbe mai schierata a favore di operazioni aggressive e che avrebbe sostenuto un progetto di crescita industriale di Telecom”; nell’imminenza dell’assemblea – ricorda Bernabè – “aveva rettificato la sua posizione, dicendomi che il fondo avrebbe partecipato, ma che si sarebbe astenuto nel corso della votazione”. Niente di male, ciò che contava era la partecipazione per la validità dell’Assemblea: “Non avevo motivo di dubitare delle sue parole, che rispecchiavano il suo atteggiamento di chiusura nei confronti delle Opa bancarie. Ma anche in questo caso mi sbagliavo”. Più che errore è stata comprensibile fiducia.
Infatti non sembrerebbe possibile un nuovo radicale mutamento di posizione, eppure ci fu, ed è presto detto come: “Fazio fu convocato a Palazzo Chigi qualche giorno prima dell’assemblea, e nel pomeriggio dello stesso giorno ci arrivò la comunicazione ufficiale che Banca d’Italia avrebbe disertato l’assise”. Un nuovo “post hoc” o per chi “fa peccato” ancora un “propter hoc”- dopo quello prima ricordato con il presidente della Consob, e sempre a palazzo Chigi – con D’Alema mobilitato sorprendentemente in prima persona in una materia così tecnica di competenza ministeriale. E’ evidente lo sconcerto di Bernabè a cui aggiungiamo il nostro nello scoprirlo: “Il suo voltafaccia mi colse alla sprovvista. Comprendevo le ragioni di un’astensione dal voto come dichiarazione di neutralità dello Stato. Rifiutavo che lo Stato e Banca d’Italia si esprimessero facendo mancare i propri voti per la regolare costituzione dell’assemblea”.
Ma c’è di più, D’Alema incontra anche Enrico Cuccia, l’eminenza grigia di Mediobanca e non solo, in un appartamento di Alfio Marchini, il nipote del costruttore della sede del PCI di via Botteghe oscure: “Si creò qundi un’inedita allenza tra Cuccia, D’Alema e Fazio”, d’altra parte “per Fazio e Cuccia le Opa si pesano, non si contano”, erano contrari a quelle sulle banche, favorevoli a questa su Telecom. Il direttore generale del Tesoro Mario Draghi ancora una volta è dalla parte giusta, considera la contromisura di Bernabè da approvare nell’assemblea la più’ idonea a creare valore per l’azionista: la classe non è acqua, lo si vedrà all’opera nella Bce: si erano conosciuti ai seminari estivi di Bruno de Finetti all’inizio del loro percorso.
Ma cosa avviene al ministero del Tesoro? L’incredibile, perché nonostante la posizione del direttore generale, nel momento decisivo neppure l’azionista Tesoro si presenta all’assemblea convocata per approvare le contromisure che avrebbero rintuzzato l’attacco dell’Opa; quindi l’assemblea va deserta, inerti gli azionisti del “nocciolo duro” e in questo – ma solo in questo – D’Alema aveva ragione, però sarebbero stati ridimensionati con l’integrazione Telecom-Tim che anche finanziariamente avrebbe scongiurato l’Opa se fosse stato possibile portarla in assemblea. Sorprende la posizione di Carlo Azelio Ciampi ministro del Tesoro, non di D’Alema che gratifica i “capitani coraggiosi” dell’attributo di “rude razza padana” associandoli, sull’altro versante, alla “rude razza pagana” con cui Tronti aveva definito il nuovo soggetto sociale, l”operaio-massa”, quasi volesse porre gli speculatori sul piano dei lavoratori.
Bernabè non molla, fedele alla sua vocazione industriale e non finanziaria-affaristica tenta un rilancio eclatante: la “business combination” alla pari con Deutsche Telekom, cioé “l’aggregazione delle due aziende in un’unica entità societaria” dato che i tedeschi cercavano un partner per dare dimensioni europee alla loro impresa di telecomunicazioni, e i tentativi fatti con France Telecom non erano stati sostenuti dal loro management. L’accordo con i tedeschi è presto trovato, cosa di per sé straordinaria, e la condizione posta dal C.d.A. di Telecom, nel quale c’erano “i pretoriani di Mediobanca”, nell’approvare il progetto di fusione – un chiarimento del governo tedesco sull’esercizio del proprio diritto di voto nella nuova “holding company” – fu rispettata con l’impegno governativo alla totale privatizzazione. Comunica la sua ricerca di un “cavaliere bianco” per resistere all’Opa, nell'”ultimo faccia a faccia con il capo del governo”, a D’Alema che gli dà questo avvertimento: “Se avessi messo il governo di fronte al fatto compiuto di un accordo non gradito con una compagnia estera, ne avrei pagato le conseguenze”. Nessuna intenzione di Bernabè di “mettere in imbarazzo il governo ma metterlo in condizione di valutare alternative all’Opa, che consideravo una sciagura per la società”. Inutile dire che non bastò, ed ecco abbattersi di nuovo il “niet” di D’Alema: al premier tedesco Schroeder incontrato in quei giorni decisivi in un vertice Nato a Washington disse che avrebbero riparlato dell’operazione dopo l’Opa, quando era evidente che era la contromisura proprio per opporsi all’Opa alla quale così veniva dato il via libera. Proprio da D’Alema!
E si arriva rapidamente alla conclusione, “l’epilogo era già scritto”: l’Opa ebbe successo, il governo e l’establishment erano stati dalla parte di Colaninno che dall’incastellatura azionaria pilotava l’Opa, la “rude razza padana” aveva vinto. “Con l’unica eccezione dell’Imi di Arcuti, che mi appoggiò senza riserva – ricorda amaramente Bernabè – gli altri soci del ‘nocciolo duro’ si ritirarono tutti in buon ordine. Cedettero i loro pacchetti azionari ai ‘capitani coraggiosi’ incassando sostanziose plusvalenze e cercando di far dimenticare le pagine meno edificanti di questa storia, che avevano contribuito a scrivere. Da parte mia, feci le valige senza polemiche”.
Aggiunge delle parole che suonano come un messaggio: “Dopo tante prese di posizioni molto decise me ne stetti in silenzio. Non avevo niente da rimpiangere. Non avevo rancori. Non mi importava niente della mia posizione. Così come avevo respinto le imposizioni della politica quando ero in Eni, a maggior ragione non potevo accettarle in una società quasi completamente privata” . E conclude: “Era valsa la pena battersi, e pazienza se a qualcuno la mia battaglia era sembrata velleitaria. Se l’Opa avesse compromesso il futuro di Telecom, nessuno avrebbe potuto dire che era successo per un mio cedimento, una mia indecisione, una mia scelta”.
Il 25 maggio 1999 Bernabè con il C.d.A. si dimette per lasciare il campo ai nuovi amministratori, sono passati sei mesi dall’assunzione della carica. Con D’Alema “l’occasione di riprendere il dialogo venne qualche mese più tardi”, quando il presidente del Consiglio lo nomina “rappresentante speciale del governo italiano per la ricostruzione del Kossovo”, a conferma che nulla di personale c’era stato nella vicenda appena conclusa. “Accettai l’incarico pro bono – confida Bernabè – nella consapevolezza che un contributo alla soluzione dei problemi che si erano aperti in Kossovo sarebbe stato di grande aiuto all’azione del governo e allo stesso presidente del Consiglio”. Quindi, nulla di personale neppure da parte sua: “Era il mio modo di testimoniare che la battaglia contro l’Opa non era stata un battaglia contro il governo o contro D’Alema, ma contro un progetto sbagliato che avrebbe danneggiato il Paese”.
Diventa amministratore delegato di Telecom Roberto Colaninno, ma i momentanei vincitori rivelarono presto la loro vera natura, fu una “vittoria di Pirro” sul piano aziendale anche se fruttò immeritate, indebite plusvalenze nel 2001, quando Colaninno lascerà. Forse poteva dire a se stesso: missione compiuta!
Il fallimento dei “capitani coraggiosi”, l’armata Brancaleone in ritirata
Si rivelarono profetiche le parole di Bernabè sopra riportate, come tutte quelle spese nella battaglia contro la finanza d’assalto che oltre a rivelarsi inaffidabile, essendo priva di risorse proprie aveva gravato Telecom di un debito insostenibile. La piramide di controllo nella “cascata di società” partiva da Ominiaholding con cui Colaninno era primo azionista della Fingruppo che controllava Hopa, con 150 investitori, molti schermati da finanziarie, la quale controllava la lussemburghese Bell che controllava Olivetti, che controllava Tecnost, che controllava Telecom con il 51%, e quindi TIM.
La definizione data – anche se non da D’Alema – di “capitani coraggiosi” era appropriata, ma non nella sua accezione laudativa bensì al contrario: ci voleva “coraggio” per un’Opa da parte di una vera armata Brancaleone, come ce n’è voluto di “coraggio” da parte del governo a guida comunista per far passare una scorreria all’insegna della più deleteria degenerazione spacciata per mercato; e per di più su un “asset” strategico per il Paese in una fase di profonde innovazioni che richiedevano una visione lungimirante nell’interesse pubblico e non il cedimento alle scorrerie speculative di tali soggetti. Il paradosso era che per punire il “nocciolino duro” perché controllava la società con solo il 6,6%, lo si faceva con il “mininocciolino” di Roberto Colaninno con solo l’1,6%, un quarto di quello di Agnelli e soci del sindacato.
Il risultato è scontato: esplode l’indebitamento, dai 27,3 miliardi di lire del 1999 a 38,3 nel 2001, mentre obiettivo dei corsari improvvisati è pilotare i dividendi alla parte più alta della catena di controllo con artifici diabolici che spiazzano anche il governo venendo penalizzato il Tesoro oltre agli azionisti di minoranza, cosa che portò al crollo delle quotazioni in Borsa. Il piano di scissione di Tim da Telecom per lucrare maggiormente fu definito dal “Financial Times” addirittura “una rapina in pieno giorno”, al punto che D’Alema non poté fare a meno di bloccarlo minacciando di usare la “golden share”, mentre all’Opa aveva dato via libera, ma forse si stava accorgendo di essere stato un incauto “apprendista stregone”; “il troppo stroppia”, diciamo ora, non si potevano più superare certi limiti dopo il grave cedimento iniziale.
Non fu bloccata invece la spericolata acquisizione tra agosto e dicembre 2000 del 37% di Seat – pagata l’equivalente di 6,7 miliardi di euro, mentre tre anni prima il 61% era stato pagato al Tesoro solo 854 milioni di euro – dalla quale gli azionisti di Hopa, immessi prima callidamente in una delle scatole estere detentrici di Seat, lucrarono 151 milioni di euro compensando le perdite in Telecom: un’altra “rapina in pieno giorno” ripetendo l’espressione del “Financial Times”, comunque mascherata e purtroppo riuscita.
Ma il diavolo fa le pentole e non i coperchi, ci insegnavano da piccoli, la Procura di Torino e finalmente la Consob indagano sull’anomalia della costosa acquisizione di Seat, il centro sinistra perde le elezioni e gli ammiratori dalemiani della “rude razza padana” lasciano il posto ai berlusconiani incattiviti per l’incursione su Telemontecarlo acquisita da Seat: risultato, la Borsa punisce i titoli Olivetti e Telecom mentre il resto del mercato è in forte rialzo su tutta la linea.
“Il tracollo delle quotazioni”, da loro inatteso, capovolge le aspettative degli azionisti di Hopa i quali puntavano sulla lievitazione del valore di Bell che controllava Olivetti e quindi Telecom; pertanto con il capofila Gnutti ne escono vendendo Telecom a Marco Tronchetti Provera della Pirelli con Benetton in “Olimpia”, per 7 miliardi di euro. L’armata Brancaleone dei “capitani coraggiosi” si fece pagare le azioni Olivetti quasi il doppio del valore di borsa mentre l’indebitamento di tale società era lievitato alla cifra stratosferica di 46,8 miliardi di euro, con una plusvalenza di 1,8 miliardi di euro; il tutto tagliando fuori completamente i piccoli azionisti i quali reagirono abbandonando il titolo che crollò ulteriormente.
Così commenta Bernabè: “Si avverava quanto avevo previsto nel discorso ai dipendenti prima del lancio dell’Opa. Le quotazioni di Olivetti caddero sotto i due euro e quelle di Pirelli si dimezzarono”. E il “capitano coraggioso” Colaninno? Anche lui lascia la nave Telecom che rischia di affondare, però con una “robustissima plusvalenza” – di certo non ottenuta per meriti industriali – e la impiega subito nell’acquisizione, da parte della sua Omniaholding, di un consistente patrimonio immobiliare di Telecom: trenta immobili, molti di pregio, in parte riaffittati alla stessa Telecom, sembra a canoni maggiorati rispetto a quelli di mercato, anomalia nell’anomalia.
Ma non è stato il solo a speculare sull’acquisizione degli immobili di Telecom. Lo ha seguito Tronchetti Provera attraverso “Pirelli Real Estate” per il resto del patrimonio immobiliare, operazione non solo negativa economicamente per il prezzo di favore su cui si sono concentrate le polemiche, ma deleteria strategicamente per il pregiudizio arrecato alla rete di telecomunicazioni le cui centrali erano ubicate negli immobili ceduti che contestualmente, anche in questo caso come nel precedente, furono riaffittati con contratti a lunghissimo termine: un leasing per euro 1,9 miliardi rispetto ai ricavi dalla vendita di 4,8 miliardi, solo 2,9 miliardi di minore indebitamento, un affare per Pirelli, una beffa per Telecom.
“Il problema – osserva Bernabè – fu il vincolo dei contratti d’affitto che rallentò il processo di ammodernamento della rete nei tempi e nei modi richiesti dal progresso tecnologico”. Più precisamente: “Senza il vincolo dei contratti, una parte consistente delle 10.400 centrali Telecom avrebbe potuto essere chiusa nell’ambito di una riprogettazione della rete, con consistenti risparmi di costi di affitto e di gestione dell’infrastruttura”. Ed ecco cosa avrebbe potuto fare Telecom senza questa sciagurata ibernazione: “Soprattutto avrebbe dotato per tempo l’Italia di una rete di telecomunicazioni più moderna e performante”. I danneggiati? L’intero Paese, tutti i cittadini, e non solo la società di telecomunicazioni.
Gli epigoni dei “capitani coraggiosi”
Andiamo avanti in questo museo degli orrori, e non solo degli errori della politica e dell’economia. Tronchetti Provera, dopo aver ottenuto una riduzione per “eccessiva onerosità” del prezzo di acquisto delle azioni “Olivetti” crollate sotto il valore nominale di 1 euro – dai 4,175 euro pagati per ognuna quando però erano già scese a 2,25 euro – cede 25 società del gruppo Telecom, per lo più estere, incassando 12,8 miliardi di euro. Ma il colpo grosso riguarda la riforma dell’art. 2358 del Codice civile che puntualmente – con una miracolosa combinazione temporale del tutto casuale, non vogliamo “fare peccato” pensando male – consentiva il “leveraged buyout” fino ad allora sempre vietato: cioè l’acquisizione a debito di un’impresa che era forte generatrice di cassa al fine di scaricare su di essa il debito contratto per acquistarla, insomma il “gioco delle tre carte” proibito agli imbroglioncelli di strada consentito ai grandi finanzieri.
Così parte la fusione tra Olivetti super indebitata e Telecom generatrice di cassa, si deducono gli interessi passivi e si ottengono sostanziosi crediti di imposta per le perdite pregresse. Con questo effetto che sembra incredibile: Telecom dal 2003 al 2008 paga di imposte, precisamente di Ires, circa 1 miliardo di euro in totale in 6 anni, meno del livello normale di 1,4 miliardi annui a cui torna dal 2009. Tali risparmi d’imposta aumentarono il flusso di cassa per pagare i dividendi di 17,5 miliardi tra il 2000 e il 2006, a vantaggio di Olimpia i cui azionisti furono ripagati dei debiti contratti per l’acquisto di Telecom. “In una certa misura – la conclusione di Bernabè – fu quindi lo Stato a finanziare il debito che i privati si erano accollati per l’Opa”: operazione, aggiungiamo noi, che lo Stato così danneggiato aveva prima consentito, poi favorito addirittura anche sul piano normativo.
Ma non è finita. Tronchetti Provera lancia un’Opa per cassa di Telecom su Tim per far “risalire i dividendi” verso Olimpia, ma l’indebitamento ben maggiore di quando Bernabè voleva farla per opporsi alla scalata fece sì che Telecom spese invano 13,5 miliardi di euro e alla fine del 2005 il suo indebitamento finanziario totale toccò i 51 miliardi di euro, quello netto i 40 miliardi. I benefici fiscali venivano a cessare, il valore del titolo risultava dimezzato, i dividendi sarebbero stati insufficienti; inoltre nuove regole avrebbero inasprito la concorrenza, ed era nato un contenzioso davanti alle autorità garanti delle telecomunicazioni e del mercato, Agicom e Antitrust, che creava pesanti condizionamenti.
L’incauta proposta di Angelo Rovati, consigliere di Prodi, per risolvere i problemi di Telecom, in un documento che mandò a Tronchetti Provera, venendo dall’uomo di fiducia del nuovo presidente del Consiglio dal maggio 2006, poteva cambiare le carte in tavola. Ma Prodi ne prese subito le distanze, e Bernabè ne dà testimonianza avendolo visto “sconcertato” quando ebbe la notizia durante una cena in Cina in suo onore cui partecipava anche lui, “mi disse di non essere al corrente dell’iniziativa”. Comunque, “il piano Rovati di scorporo della rete fu un insperato aiuto a Tronchetti per distogliere l’attenzione dalle difficoltà in cui versavano Telecom e la controllante Pirelli”. Pressato dagli altri azionisti di Olimpia, cioè la famiglia Benetton, a trovare una soluzione, con le perdite di Pirelli giunte a un miliardo di euro nel 2006, colse la palla al balzo e il 15 settembre dello stesso anno si dimise da presidente. Fu sola la prima mossa.
“Pirelli-Olimpia nella morsa del debito” non persero tempo, del resto la “gallina dalle uova d’oro” non serviva più, era stata completamente spennata. Il dado era tratto verso l’uscita di Olimpia, si rimescolano le carte, riprende “il valzer degli azionisti” . Poi torna sul ponte di comando di Telecom nel mare in tempesta Franco Bernabè, lo vedremo molto presto. L’odissea continua, volteremo ancora pagina, anzi più pagine.
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Franco Bernabè, “A conti fatti. Quarant’anni di capitalismo italiano”, a cura di Giuseppe Oddo, 3^ Edizione, luglio 2020, pp. 358, euro 20. I primi 2 articoli del presente servizio sono usciti in questo sito il 20 e 21 novembre, i prossimi 2 articoli usciranno il 23 e 24 novembre 2020.
Foto
Le immagini che illustrano il testo sono state inserite per richiamare figure ben note che hanno recitato un ruolo rilevante nelle vicende rievocate, come sporadici fotogrammi estratti da un film quanto mai affollato di primi attori e comprimari. Non sono tratte dal libro che è senza illustrazioni, ma da siti web di pubblico dominio, di cui si ringraziano i titolari, precisando che non vi sono finalità di natura economica di alcun tipo e, qualora la pubblicazione delle immagini non fosse gradita, si è pronti a eliminarle su semplice richiesta. I siti, ai quali rinnoviamo la nostra gratitudine, sono i seguenti, nell’ordine di inserimento delle immagini nel testo: zeusnews.it, biografieonline.it, 3 in it.wikipedia.org, cislpiemonte.it, viperland.it, ilsole24ore.it, ilfattoquotidiano.it, it.wikipedia.org, corriere.it. In apertura, Franco Bernabè, amministratore delegato di Telecom Italia 20 novembre 1998-25 maggio 1999; seguono, Roberto Colaninno, amministratore delegato di Olivetti 1996-99 e Telecom 1999-2001, e Massimo D’Alema, presidente del Consiglio 21.10.98-11.12.99 ; poi, Luigi Spaventa, presidente della Consob 1998-2003, e Antonio Fazio, governatore della Banca d’Italia 1993-2005 ; quindi, Carlo Azeglio Ciampi, ministro del Tesoro 1996-97 e 1998-99, e Mario Draghi, direttore generale del Tesoro 1991-2001; inoltre, Pierluigi Bersani, ministro dell’Industria, Commercio e Artigianato 1996-99, e Marco Tronchetti Provera, presidente di Telecom Italia 2001-06; infine, Romano Prodi, presidente del Consiglio 18.5.96-21.10.98 e, in chiusura, Enrico Cuccia, di Mediobanca e non solo.