Renata Rampazzi, “Cruor”, il sangue delle donne nella mostra al museo Bilotti

di  Romano Maria Levante

Nella “Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne” del 25 novembre 2020, spicca la mostra “Cruor” di Renata Rampazzi, a cura di Claudio Strinati, prevista dal 17 settembre 2020 al 10 gennaio 2021 al museo Carlo Bilotti, all’Arancera di Villa Borghese a Roma, chiuso per coronavirus, in attesa della riapertura. La  mostra spicca pur se non visitabile perché con una iniziativa celebrativa è stato diffuso oggi 25 novembre dal museo sulla pagina Facebook il video di Giorgio Treves sulla genesi e sui significati profondi delle opere esposte sul tema da un’artista che si è battuta  per il mondo femminile  fin dagli anni ‘70. Promossa da Roma Capitale, Assessorato alla Crescita culturale – Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, la mostra è organizzata dallo studio dell’artista, i servizi museali sono  a cura di Zètema Progetto Cultura. E’ prevista una Tavola rotonda sul tema con Dacia Maraini e Luciana Castellina, Chiara Valentini e Margaretha Von Trotta, Francesca Medioli e Massimo Ammannati con la partecipazione dell’artista. Catalogo bilingue delle “Edizioni Sabinae”, con testi di Maria Vittoria Marini Ciarelli e Dacia Maraini, Cludio Strinati e l’artista, parte delle vendite sarà devoluta all’Associazione Differenza Donna.   

L’artista nell’installazione

Il sigillo  della  carica interpretativa della Rampazzi  che accomuna le sue opere è un colore, il rosso, come forma espressiva, e il sangue come elemento rappresentativo dotato di forza non solo simbolica. E’ un sangue speciale, come sottolinea  Maria Vittoria Marini Clarelli, quello della violenza e della morte che sgorga dalle ferite,  il “cruor” , distinto dal “sanguis” della vita che circola nel corpo: ma  ”è nel sangue che si diventa donna, moglie, madre”, e non è il “sanguis” perchè “il termine cruor definiva anche il sangue mestruale, quello della deflorazione e quello del parto”, come altrettante ferite. Tutti momenti cruciali della vita, ugualmente cruenti, in cui l’uomo è solo spettatore con il suo “sanguis”, ma può diventare disumano protagonista del femminicidio versando il “cruor” della donna.

Le dimensioni del femminicidio e il contesto familiare 

Ma come si può concepire una simile aberrazione criminale contro quella che viene chiamata “l’altra metà del cielo”, angelicata, destinataria di liriche e serenate, di amori dolci e delicati? Tentiamo di dare una risposta  a questa domanda che non si dovrebbe porre neppure, ma presenta in tutta la sua drammaticità la tragica realtà dei “femminicidi”, parola che fa rabbrividire.  Omicidio non è l’uccisione dell’homo, l’uomo,  a cui deve corrispondere il femminicidio, l’uccisione della donna, ma dell’omo, il proprio simile. Si è voluto creare il termine di genere, femminicidio e non c’è il maschicidio, per la sua inconcepibile ma reale e vasta diffusione, però non si è modificata la sanzione, resta la stessa dell’omicidio anche se la vittima è una donna. Le nuove norme penali che portano questo nome con la qualifica del “codice rosso”, non si riferiscono al momento delittuoso, ma alle  molestie e alle violenze, spesso preludio del reato più grave, con doverose corsie preferenziali  per la necessaria tempestività nella prevenzione e nella repressione.

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“Composizione”, 1977 parte sin.

Qual è la dimensione di un fenomeno così aberrante e  disumano, e quali sono le  sue espressioni criminali?  Rispondere a questa domanda può essere un preludio per l’altra ben più difficile, sulle radici di tale violenza; per poi passare alle opere della Rampazzi che dà corpo artistico alla ribellione contro questo massacro. Perché tale si deve definire l’uccisione di una donna ogni tre giorni in Italia nei primi 10 mesi del 2020, 91 vittime per il 95% ad opera di uomini, altissima percentuale questa quasi costante, è variata solo tra il 90 e il 95% dal 2000.  Con la particolarità che quasi il 90% dell’uccisione delle donne avviene nell’ambito familiare e, al suo interno,  quasi il 70% nel rapporto di  coppia. Le donne assassinate dalla criminalità comune  nei 10 mesi del 2020  sono  state 3, mentre nel 2019 erano state 14, quindi la maggiore esposizione alla violenza all’esterno da parte dei delinquenti di strada come “sesso debole” fisicamente non c’entra affatto, anche se la diminuzione degli assassinii nell’ultimo anno è dovuta al “lockdown”, putroppo più che compensata dall’aumento delle violenze all’interno delle mura domestiche.

“Composizione”, 1977 parte dx.

Sono dati dell’ultimo Rapporto Eures sul femminicidio in Italia,  rilevatori dell’aggravarsi del fenomeno anche quest’anno, dato che nell’ultimo ventennio  l’incidenza nell’ambito familiare è stata del 73,5% e quella all’interno della coppia del 66%, aggravamento peraltro progressivo dal 2000 ad oggi. E’ in forte aumento una circostanza che richiederebbe maggiore attenzione: oggi almeno la metà di questi assassinii è stata preceduta da violenze pregresse, mentre in passato la percentuale era inferiore. Questo dato significativo potrebbe dipendere dallo scarso peso  dato agli allarmi dinanzi a violenze di ogni tipo: psicologiche per il 20%, fisiche per il 18%, le molestie dello  stalking  per il 13%, infine per l’11% violenze note a terzi; soltanto il 4,4% vengono denunciate, quindi non è neppure scarsa efficacia degli interventi delle autorità, ma sottovalutazione o meglio paura di aggravare la situazione con il ricorso alle autorità delle potenziali vittime. Il “lockdown” ha aggravato il fenomeno, come è stato evidenziato rilevando l’aumento dei reati nella convivenza dal 58% del totale nel 2019, al 67,5% nei primi mesi del 2020 fino a superare l’80% nel periodo di chiusura completa nelle abitazioni, per cui tra marzo e giugno “ben 21 delle 26 vittime convivevano con il proprio assassino” mentre è sceso il numero di vittime non conviventi del 28%.

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“Composizione”, 1978

 Ci siamo soffermati su dati inequivocabili che riportano alla famiglia  e alla coppia, dove le donne sono più protette che all’esterno nella normalità; troppo spesso, però, nell’alterazione trascurano i segnali pericolosi delle violenze pregresse, a parte i timori cui abbiamo appena accennato, e su questo si dovrebbe fare leva per combattere la degenerazione insensata della convivenza. Ma  tale situazione deve far riflettere anche  sulla natura umana, in particolare sulla differenza di genere, per ricavarne elementi utili a fini propositivi.

Le radici sociologiche e l’espressione individuale di una violenza aberrante

Partiamo da una prima riflessione: a differenza dei primordi in cui la maggiore forza fisica poteva determinare il divario criminale tra uomo e donna, ora non può essere più questa l’origine: tanti sono i modi subdoli cui si può far ricorso soprattutto nella convivenza e del resto la storia di Sansone e Dalila insegna a quali artifici la donna potrebbe ricorrere, con tanti mezzi di offesa a sua disposizione.

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“Composizione”, 1978

Su quali possano essere i motivi della maggiore aggressività maschile si è interrogata Dacia Maraini nel presentare la mostra. La sensibile scrittrice parte da lontano, dal patriarcato tradizionale quando le donne erano sottomesse in tutti i sensi all’uomo. E non si può che darle piena ragione ripensando che nel nostro paese fino a pochi decenni fa era nel codice penale  il “delitto d’onore” – divenuto “divorzio all’italiana” nel film di Pietro Germi – cioè il femminicidio di coppia quasi depenalizzato, mentre l’”adulterio” della donna era punito dalla legge addirittura con il carcere in base alla prova del “letto caldo”, più di quello maschile che richiedeva una “relazione adulterina”. La scrittrice parla di “una vera azione punitiva da parte di una società dei padri nei riguardi delle nuove figlie” cresciute con l’emancipazione “demolendo le roccaforti dei privilegi patriarcali”, considerando che “per ogni diritto conquistato c’è un privilegio che viene negato”.

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Ferita”, 1979

Questo porterebbe “i più deboli e impauriti” tra  gli uomini a ribellarsi alla perdita della superiorità che sentivano acquisita soprattutto nel rapporto di coppia: “il dominio sulle femmine  della famiglia, la libertà di scelta sessuale, la possibilità di imporre ubbidienza e fedeltà  alla donna che dicono di amare, l’arbitrio della conquista  e della predazione, la solitudine del comando”.  Mentre “l’uomo che guarda con occhi saggi il mondo che cambia si adegua”,  e con la donna affronta i cambiamenti cercando di “governarli per il meglio”, una minoranza di loro “usano la violenza estrema sulle loro donne”; e questo avviene anche in modo virtuale sulla rete, dove “il clima di intolleranza circola anche tra i giovanissimi” e  “monta il rifiuto verso le donne che diventano sempre più autonome e indipendenti”; in particolare con “l’accanimento contro quelle che agiscono, che si fanno riconoscere, che prendono decisioni pubbliche, che dispongono di una qualche forma di potere”.  Sgombriamo il campo da quest’ultima estensione, che appare “ultronea” e non considera che sulla rete si trova di tutto, è generalizzato l’”accanimento” in particolare verso quelli che “dispongono di una qualche forma di potere”, uomini e donne che siano, razzismo compreso.

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Ferita”, 1980

Ma la Maraini ha usato due parole chiave sugli uomini che non accetterebbero l’emancipazione femminile: “i più deboli e indifesi”. Vediamo come interpretare questo riferimento, anche se in modo estensivo e al di là del pensiero della scrittrice,  o comunque traiamone le conseguenze.  Crediamo che non si debba attribuire eccessivo raziocinio ai “più deboli e indifesi” che si macchiano di simili orrendi misfatti collegandoli  alla criminale riaffermazione di un potere che sono consapevoli di avere perduto e vogliono riconquistare con la forza andando contro la storia. Non riaffermano nessun potere ma sanciscono la propria definitiva  impotenza,  quindi avviene proprio l’inverso in quanto non possono sfuggire al potere repressivo dello Stato – spesso addirittura si costituiscono dopo il delitto –  e oltre a cedere  i”privilegi” di cui parla la Maraini devono cedere la propria libertà senza per questo riconquistarne alcuno, l’opposto! 

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Ferita”, 1981

Sarebbe pura demenza un atto pseudo razionale di questo tipo, com’è pura demenza l’atto barbarico e irrazionale compiuto. Che poi ci siano i motivi citati dalla sensibile scrittrice può anche verificarsi in determinati casi, ma in generale non troviamo spiegazioni e giustificazioni razionali a qualcosa che è bestiale, irragionevole e inqualificabile. Perciò è importante avvertire i sintomi nelle violenze pregresse prima che la follia criminale esploda in tutta la sua forza belluina. Non “nobilitiamo” con patenti di sociologia ciò che è uno scoppio di pazzia  di menti malate come avviene nei “deboli e indifesi”! Ma chiediamoci perché sono solo dell’uomo e non anche della donna interrogandoci su ormoni e Dna.

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Ferita”, 1982

Al contrario della naturale maggiore forza data dalla prestanza fisica e dalla massa di muscoli i maschi in generale – e non solo “i deboli e indifesi” citati dalla Maraini – mostrano una maggiore fragilità psichica rispetto alla donna, nella cui matrice genetica  ci sono le risorse fisiologiche e interiori a sostegno della maternità, e queste le danno una forza mentale superiore. Anche nei primordi, mentre il maschio andava a caccia del cibo che si procurava con la forza muscolare unita all’inventiva, la femmina doveva provvedere ai piccoli nella solitudine e nell’insicurezza. Quindi ha rafforzato le sue risorse interiori  già superiori per i motivi naturali anzidetti. Con l’emancipazione ha acquisito una nuova consapevolezza e ulteriori sicurezze, confermandosi ben più solida del maschio dal punto di vista psichico. Di qui l’assenza di maschicidi comparabili ai femminicidi – per usare due termini equivalenti  ugualmente aberranti – mentre potrebbe essere una  conseguenza dell’emancipazione della donna il far valere le proprie ragioni nello stesso modo. 

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“Lacerazioni”, 1980 parte sin.

Non ci sembra contrastare con questa visione il fatto che  il fenomeno della violenza sulle donne fino all’assassinio sia di intensità crescente, come mostrano i dati degli ultimi vent’anni.  Crediamo infatti che non sia collegato alla maggiore emancipazione della donna, ma piuttosto alla continua crescita dei disturbi neurologici e mentali soprattutto nei paesi ad alto reddito, forse in parallelo alla diminuita tensione per le necessità quotidiane che porta alla luce le insicurezze interiori facendole esplodere in patologie. E’ stata evidenziata una stretta relazione tra i disturbi neurologici e  mentali e lo sviluppo, dato che già Freud parlava del “disagio della civiltà” e oggi l’Organizzazione Mondiale della Sanità collega  alla crescita del reddito l’aumento dei disturbi mentali; il fenomeno si spiegherebbe non perché il progresso economico crei tali disturbi, ma perché fa nascere maggiori occasioni in cui possono verificarsi gli squilibri interiori.

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“Lacerazioni”, 1980 parte dx.

Va anche sottolineato che spesso quelli che sono considerati “tratti caratteriali”  ai quali vengono riferiti i comportamenti violenti sottovalutandoli, possono essere invece i sintomi di un disturbo che viene così ignorato, anche perché per ovvie ragioni né i soggetti interessati né i familiari sono disposti  a parlarne. Oltre ai farmaci appositi, c’è la terapia cognitivo-comportamentale per rompere gli schemi distruttivi e sostituirli con qualcosa di positivo. L’Economist avanza questa previsione: “A causa del legame tra sviluppo economico, invecchiamento e malattia mentale i prossimi decenni rischiano di assomigliare a un’età dell’irragionevolezza”. In questa tendenza si può collocare il mostruoso fenomeno del femminicidio che ci sembra vada affrontato anche e soprattutto sul piano sanitario piuttosto che limitarsi a quello sociologico. Soprattutto per mettere in campo una prevenzione efficace che colga i primi segni di violenza come prodromi da non trascurare ma contrastare non solo con doverose misure repressive ma pure curative.

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“Lacerazione”, 1981

I singoli dipinti nelle forme astratte e coinvolgenti tipiche dell’artista

Renata Rampazzi è molto qualificata a dare veste artistica alla ribellione a un fenomeno così aberrante e disumano dato che combatte per la l’emancipazione e la parità delle donne sin dagli anni ’70, e nell’arte esprime la sua denuncia contro la discriminazione: ora la fa direttamente contro il femminicidio!

Pur nella forma astratta dei suoi dipinti ha trovato un modo per rendere percepibile l’oggetto della propria denuncia senza bisogno di interpretazioni sofisticate. E lo ha fatto prendendo come soggetto e oggetto della sua rappresentazione il sangue: il sangue delle donne portato  a livello del sangue dei martiri cristiani, fino allo stesso Cristo, come osserva Claudio Strinati , rifacendosi “a una tradizione antichissima e ricchissima” portata ai giorni nostri “per farsi strumento  di vera  e propria lotta intellettuale e morale in sé e per sé”.  A tal fine sconvolge la sua cifra stilistica, con illustri riferimenti all’”Action Painting”, alla “Pop Art” e alla stessa classicità, trasformando il tema del sangue “nel tema più specifico e molto forte  e coinvolgente della ferita, della lacerazione,  della violazione, verrebbe da dire,  dello spazio figurativo”; in tal modo facendovi irrompere “un elemento di violenta  e  perturbante disarmonia proprio in un contesto che nasce  invece con l’intento di dare bellezza, forma ed equilibrio”.  Ma l’equilibrio l’artista riesce comunque ad assicurarlo “tra la denuncia della vita e la sublimazione dell’arte che assimila ma non dimentica il male”.

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“Rosso”, 1984 parte sin.

Questo equilibrio viene raggiunto con le forme quasi evanescenti descritte così dalla Maraini: “Renata Rampazzi trasforma i corpi di carne in visioni fluttuanti, di tela e nuvole, tela e sogni, i cieli sembrano stillare dall’alto un sangue simbolico, più pesante  e torbido di quello reale, per rivelare lo spessore sordido e terribile delle ferite”.  E la Marini Ciarelli precisa che l’artista “non poteva usare i corpi per stigmatizzare i femminicidi e ha concentrato tutta l’attenzione sul sangue, o meglio sulle sue tracce: le gocce, le macchie, gli aloni, il rapprendersi sulle ferite”. Nessun segno del carnefice, e anche nel riferimento alla vittima, “tutto è sfumato, sbiadito, come se qualcuno avesse cominciato a lavare  quei panni  e li avesse stesi prima di riuscire a renderli di nuovo bianchi”.

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“Rosso”, 1984 parte dx

Anzi in molti dipinti è il bianco a prevalere,  come nelle 3 opere intitolate ”Composizione” : la prima, del 1977, è una grande tela di 2 metri di larghezza in cui il candore della parte centrale è rotto ai due estremi dalle ferite inferte con il rosso che si incupisce fino al marrone scuro nella profondità della lacerazione; nelle due successive, del 1978, larghe poco più della metà,  in una il rosso così incupito occupa il centro ma i suoi rivoli hanno arrossato la parte bianca circostante, nell’altra, sulla destra e in parte a sinistra una macchia nera invade il bianco anch’esso arrossato.

Seguono di poco – a fine anni ’70-inizio anni ’80 – 4 dipinti intitolati “Ferita”:  anche in questi, delle stesse misure delle “Composizioni” di dimensioni minori, il sangue evocativo ugualmente incupito è al centro della tela bianca, in parte appena arrossata.  Negli stessi anni  con le 2 “Lacerazioni“ si approfondiscono di più le ferite, nella forma più elaborata delle “Composizioni”, una delle due richiama quella del 1977, oltre che per la larghezza quasi doppia, per l’analoga collocazione dei tratti cromatici, questa volta più forti con un verde evocativo, ai due estremi della tela. Anche “Rosso” torna alla larghezza doppia, con la differenza che il colore nelle varie tonalità fino all’incupimento dilaga nell’intera superficie, non è più solo una ferita.

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Studi preparatori”, 2018

Dal periodo più lontano, 1970-80 –  che dimostra un impegno artistico sul tema costante e intenso da oltre un quarantennio – si passa agli anni più recenti: nel 2018  troviamo gli “Studi preparatori” per realizzare l’installazione della mostra: strisce larghe 25 cm e alte poco più di un metro, il motivo della ferita è sempre presente, in metà di quelli esposti c’è solo il rosso, negli altri intervengono tinte più scure sfumate.

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Studi preparatori”, 2018

Sono preparatori della straordinaria installazione che rende particolarmente emozionante la visita alla mostra, così descritta da Strinati: C’è  “una specie di cammino marcato nello spazio da una serie di pannelli, fatti  di garze e teli, che sembrano evocare una vera e propria processione, una sfilata di dolenti che accompagnano il visitatore nella visita alla mostra ma sono la mostra stessa”. E lo spiega: “Il visitatore è sollecitato a muoversi come il pellegrino  che va  al Santuario, ma questo è un santuario laico e non ci sono immagini di santi o di martiri”. Ed ecco  cosa vi si trova all’interno: “Ci sono soltanto lacerazioni  e aggregazioni che ci fanno vedere ciò che di fatto non c’è: il dolore, la ferita, il pianto, il grido”. E questo artisticamente è “ tradotto in un’immagine che in ogni caso rappresenta se stessa. Ma quel se stesso è appunto il monito, l’indignazione, la meditazione, tutti coagulati in una essenzialità visiva che dice molto di più di mille descrizioni o perorazioni piene di episodi, aneddoti, dettagli”. In questa rappresentazione laica “non esiste l’episodio o il dettaglio. Esiste con sobrio e solenne vigore l’immagine che evoca senza dire, sollecita senza retorica, commuove senza accumulare una infinità di particolari  precisazioni”.

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Studi preparatori”, 2018

L’arte di denuncia di Renata Rampazzi

E’ così intenso tutto  questo da portare  Strinati a interrogarsi sull’arte di denuncia per rispondere che esiste ma l’obiettivo dell’artista è sempre la creazione e, quando riguarda qualcosa da condannare, la sua forza espressiva è tale “da generare forza emotiva e costernazione in chi guarda che vede svelati orrori e miserie altrimenti meno percepibili e comprensibili”.  Ma sempre all’insegna dell’ “armonia e della bellezza” in una contraddizione almeno apparente con una materia di contenuto opposto che nelle opere della  Rampazzi, e in particolare nel percorso della mostra, trova la sua composizione “nel segno significante  che è bello, sovente bellissimo in sé  ma resta carico del residuo di male e di colpa da cui è scaturito”.  Strinati vi vede addirittura una dimostrazione, nell’arte, della filosofia estetica di Kant,  in quanto “fa sì che la denuncia sia veicolata nella forma di una  convincente e vincente immagine. L’immagine che descrive il male non è scaturita dal male ma dalla positività della creazione artistica”. 

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Studi preparatori”, 2018

Non si pensi, però, che  il male venga nascosto nella trasposizione operata dall’arte.  Strinati è molto chiaro, si deve constatare che “la bellezza dunque non edulcora il male ma ci rende conoscibile l’aspetto più profondo di ogni problema”; e questo avviene quasi in chiave psicanalitica perché, “portando alla chiarezza di sé l’individuo, lo mette in condizione di esorcizzare il male che è in lui”, in una specie di catarsi benefica, come quella che Aristotele attribuiva al teatro.

Del resto, l’installazione esposta in mostra può essere vista in una prospettiva teatrale, “in modo tale da portare il visitatore verso quel sentimento di condivisione e quindi di compassione” che è il fine dell’arte. “I personaggi sono i singoli dipinti  e l’azione consiste nel loro accostamento e nell’essere posti in una sequenza   che genera dialogo, dialettico contrasto e composizione finale dei contrari”.

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Studi preparatori”, 2018

Ma non finisce qui: nell’installazione che rappresenta la sublimazione dei dipinti prima citati, “le opere dialogano veramente tra loro, come attori  sulla scena, e proprio da questo dialogo scaturisce una dimensione di armonia e pienezza interiore che è l’approdo  finale di un singolare viaggio nella pittura…”.  Si tratta, in definitiva,   di “una attraversamento di segni che vogliono dire qualcosa di ben preciso  e ci accompagnano fino ad una conclusione”. La conclusione di Strinati: “Benefico e in questo caso ammirevole bersaglio colpito dall’arte.  Doloroso indubbiamente ma rivelatore”.

Un  giudizio simile, da parte di una maestro della critica e della storia dell’arte come Strinati, fa onore a una coerente linea artistica tenuta per mezzo secolo e approdata a questa realizzazione nella quale con l’installazione si dà corpo a questo coinvolgimento emotivo che arriva alla catarsi.

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Studi preparatori”, 2018

Gli “appunti di viaggio” dell’artista nel “labirinto” della mostra

Questo risulta essere negli intendimenti dell’artista, oltre che nella puntuale interpretazione del critico: lo vediamo nei suoi “appunti di viaggio” – il “singolare viaggio nella pittura” con “l’approdo finale” di cui parla Strinati – in cui la Rampazzi  definisce così questa esposizione che le realizzò per la prima volta nel 2018 per la Fondazione Giorgio Cini di Venezia: “Una mostra  che pensavo come un mio atto di denuncia  per scuotere l’indifferenza della gente  e per sensibilizzare chi, uomo o donna, fosse venuto a vederla”.  Con questo intento ambizioso capì subito che non si poteva limitare a dei quadri, pur se shockanti, dato che il visitatore sarebbe rimasto sempre “spettatore esterno”, coinvolto in “un’azione meramente estetica che doveva successivamente fare da tramite verso una presa di coscienza e di rifiuto a posteriori”. 

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Un momento del lavoro per l’installazione

L’artista si mise alla ricerca di una formula  nuova perché “il visitatore vivesse un’esperienza totalizzante  in cui sensi e riflessione fossero coinvolti contemporaneamente”  e  le singole opere “non dovessero solo dialogare tra loro, essere una galleria di esempi”, ma fossero organicamente  inserite in “un’installazione in cui ogni quadro ne fosse una componente”. Come “momenti autonomi, ma allo stesso tempo parti interdipendenti di un complesso più ampio. Organi vitali di un corpo più articolato”.  Doveva trovare “nella tridimensionalità dello spazio” , ciò che “la spatola o la pennellata sulla tela erano la realizzazione bidimensionale della mia denuncia”. Senza rinunciare ai propri quadri, anzi “dovevano essere  tutti lì presenti e avvolgere chi entrava in un labirinto”.

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Un altro momento del lavoro per l’installazione

Come si compone tale labirinto ce lo dice l’artista per prepararci a percorrerlo, e non le è stato semplice realizzarlo. Perché si è trattato “della trasfigurazione dei singoli quadri in altrettanti teli di cinque metri di altezza per un metro di larghezza”, e questo ha comportato l’uso di materiali diversi da quelli consueti che non avendo la necessaria trasparenza alla luce avrebbero spento le emozioni: invece della tela la garza, che ricorda la cura delle ferite con le bende, invece dei colori ad olio mescole e impasti di pigmenti e terre col siero organico come per richiamo “degli umori dei corpi”; inoltre le grandi dimensioni dell’installazione hanno richiesto che dall’estro individuale dell’artista si passasse a un lavoro collettivo tradottosi in una condivisione più ampia. Finché nel dipingere le garze con i pigmenti di nuovo tipo, in una “Action painting” non voluta ma sopravvenuta, “il colore passava attraverso la trama del tessuto   alterando ulteriormente l’idea originale del modello  rispetto a quello che sarebbe stato il risultato finale che dovevo immaginare”. Quindi, “non semplice copiatura in scala, ma imprevedibilità che mi permetteva di seguire l’estro del momento, l’urgenza del gesto e delle sfumature che le grosse pennellesse mi sollecitavano”.

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Il momento finale del lavoro per l’installazione

Seguiamo ancora l’artista nella sua confidenza in cui presenta il risultato: “Non più tanto lacerazioni, ferite, spessori di olio e di grumi come sulle piccole tele, ma sfumature, diluizioni, ombre ‘tracce’…”. Questo sul piano tecnico, sul piano dei contenuti l’evocazione si fa sofferta: “Lo spazio in cui chi entrava si doveva immergere o si sarebbe trovato circondato, non era più quello della brutalità, ma quello di un grande dolore, di una condivisione emozionale, spirituale, mentale ma anche fisica della sofferenza”. Fino alla rivelazione più accorata: “La vittima del femminicidio non era più il corpus  di un’ingiustizia e di un reato, ma un essere umano di sesso femminile che soffre e con cui il visitatore o, purtroppo, ancora di più la visitatrice deve condividere l’orrore della ripulsa  e l’esperienza del patimento”. 

La conclusione ci sembra il migliore sigillo alla mostra  e non solo: “Non più un’arringa e un proclama, ma un dialogo e un conforto”, dal momento che si viene a creare “un’atmosfera avvolgente in cui lasciarsi immergere e trasportare  dall’emozione e dalla commozione”.  Ha scritto queste parole Renata Rampazzi  nei suoi “Appunti di viaggio” il 20 giugno 2020, le ripetiamo anche noi oggi, 25 novembre 2020, annuale “Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne“, unendoci con la nostra viva cronaca all’artista che attraverso “Cruor” ne è stata la combattiva e appassionata protagonista.

Il percorso dell’installazione

Info

Museo Bilotti, Arancera di Villa Borghese, Roma, sospesa per il Dpcm del 3 novembre 2020. Per la ripresa, da martedì a venerdì e festivi ore 13-19, sabato 10-19, entrata fino a mezz’ora prima della chiusura. Ingresso gratuito. Tel. 060608. Catalogo “Cruor. Renata Rampazzi”, Edizioni Sabinae, pp. 60, bilingue italiano-inglese, formato 21 x 24; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Per la Pop Art e l’Action Painting cfr.nostri articoli in www.arteculturaoggi.com, Guggenheim 22, 29 novembre, 11 dicembre 2012.

Foto

Le immagini sono state riprese dal Catalogo fornito cortesemente – e provvidenzialmente nel regime di lockdown che lo ha reso ancora più necessario per la recensione – dall’ufficio stampa di Maria Bonmassar che si ringrazia, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura, l’artista nell’installazione; seguono, “Composizione” 1977, parte sin. e parte dx; poi, 2 “Composizione” 1978; quindi 2 Ferite” 1979, 1980; inoltre, altre 2 “Ferite” 1981, 1982; ancora, “Lacerazioni” 1980, parte sin. e parte dx, e altro 1981; continua, “Rosso” 1984, parte sin. e parte dx; poi, 6 “Studi preparatori” 2018; quindi, 3 momenti del lavoro per l’installazione; infine, il percorso dell’installazione e, in chiusura, l’artista mentre prepara i bozzetti.

L’artista mentre prepara i bozzetti.

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