di Romano Maria Levante
Inizia il nostro racconto della galleria di opere dei 43 artisti presentati al Palazzo delle Esposizioni con la mostra “FUORI” , dalla Fondazione Quadriennale di Roma nella 17^ edizione della Quadriennale d’Arte, curata dal direttore artistico della Fondazione Sarah Cosulich con Stefano Collicelli Cagol, selezionatori degli artisti. Ha collaborato con la Fondazione nel realizzare la mostra l’Azienda speciale Palaexpo, ha dato il suo contributo il Ministero per i Beni e le Attività culturali e per il Turismo. La mostra, aperta il 20 ottobre 2020 e chiusa a lungo per la pandemia, dopo la riapertura del 4 febbraio 2021 per i giorni feriali, si potrà visitare fino alla primavera; ingresso gratuito per il contributo del “main partner” Gucci. Il Catalogo, bilingue, è della Treccani.
Abbiamo già indicato sommariamente l’impostazione e le motivazioni della mostra sulla base di quanto contenuto nella presentazione dei due curatori, dalle cui argomentazioni abbiamo cercato di trarre, invero con qualche difficoltà data la materia spesso imperscrutabile, quello che ci è sembrato l’essenziale, non risparmiando un giudizio critico su alcuni passaggi: in sintesi, i quattro “vertici del perimetro” della mostra, aperto all’esterno, sono Roma e il Palazzo, le precedenti Quadriennali e l’Arte italiana, con tre” linee di ricerca” già illustrate: il Palazzo, il Desiderio, l’Incommensurabile. E abbiamo cercato di precisarne i contenuti, nella nostra interpretazione di quanto indicato nel Catalogo.
Le interpretazioni e i contenuti indecifrabili, l’effetto spettacolare
Siamo giunti al momento di confrontare la sensazione ex ante tratta dalla sintesi iniziale del Catalogo con quella analitica ex post. Lo faremo descrivendo le opere esposte dai 43 artisti sulla base delle interpretazioni fornite dai due curatori Sarah Cosulich e Stefano Collicelli Cagol, nonché delle schede illustrative che sono particolarmente ampie e, come si dice con un orribile neologismo, esaustive.
Ma proprio tale loro caratteristica positiva sottolinea e approfondisce ulteriormente il solco tra la visione del visitatore – al quale possiamo aggiungere il cronista – e quella del curatore e del critico. Infatti i significati e i contenuti sono indecifrabili e spesso sorprende quando vengono descritti con parole e iperboli inenarrabili che vanno oltre l’immaginazione, quindi ben al di là della comprensione. Da semplici cronisti ne daremo conto fedelmente, confessando che non riusciremo a trattenere le nostre reazioni istintive, lo premettiamo, nessuno è perfetto….
Ciò detto, però, va aggiunta una considerazione fondamentale. Al di fuori delle interpretazioni e dei contenuti la mostra ha una straordinaria forza spettacolare. Le opere esposte hanno un impatto visivo intrigante e coinvolgente al quale nulla toglie l’indecifrabilità, anzi aggiunge quel tocco di mistero che spinge il visitatore a dare sue interpretazioni senza peraltro potersi avvicinare alla lettura dei “sacerdoti” che sanno, solo loro, decifrare i geroglifici…
Sebbene negli intenti dichiarati affondi spesso nel passato, come impressione immediata nell’approccio visivo suscita la stessa sensazione della 16^ Quadriennale “Altri tempi, altri miti” del 2016, che definimmo “un salto nel futuro”. Ed è quello che conta per una grande mostra di arte contemporanea, quindi possiamo dire “missione compiuta” anche in questo anomalo 2020-2021; anzi soprattutto ora, risultando la maggiore esposizione nel suo genere, l’unica a livello internazionale della sua caratura.
Nei nostri commenti sui singoli artisti e sulle loro opere, ripetiamo, citeremo le interpretazioni dei curatori quando disponibili – e lo diremo espressamente – e quelle delle schede illustrative che riporteremo virgolettate, delle volte senza indicare la provenienza dalla scheda avendolo già detto ora per tutte.
Ciò premesso, apriamo la nostra galleria espositiva iniziando da Micol Assael, la cui opera “Stone Broken Circuit” 2016, è un circuito elettrico di bachelite definito dalla Cosulich “una potente mappa mentale di opposti: da immagine simbolo di conducibilità il circuito diviene, attraverso l’uso di un materiale isolante, corto circuito mentale”.
In questa ottica si collegano leggi fisiche e visione filosofica, i dadi sparsi indicano la casualità, il circuito è come lo spago del gioco della matassa in mano al visitatore. Forse lo giudicherebbe un gioco, se i voli pindarici interpretativi non lo riportassero alla realtà sorprendente dell’arte contemporanea, alla quale si riferisce esplicitamente un’altra opera, intitolata appunto “Reality is Not Contemporary” 2020; è una finestra con polvere, mentre è un libro l’opera intitolata “Free Fall in the Vortex of Time” 2006, un “vortice”… di 14 anni.
Non sembra un gioco, sebbene nella scheda le opere di Assael…. “mettono in gioco aspetti cognitivi e sensoriali coinvolgendo il pubblico in situazioni impossibili da prevedere e controllare assumendo la fisionomia di veri e propri esperimenti”. E dinanzi ad essi non si può restare in situazione passiva: “I lavori della Assael provocano e contemporaneamente impongono un ’interazione da cui potrebbe scaturire un disagio psicologico causato da uno stimolo fisico”. Provare per credere, intanto non possiamo negare che il “disagio psicologico” lo proviamo già nel leggere queste parole magniloquenti.
Anche nell’opera di Chiara Camoni, “Senza titolo (una tenda)” 2019, la curatrice vede il gioco della matassa, questa volta da parte della natura, con “le impronte liquide di fiori e piante selvatiche a imprimere la tela” per la grande tenda simbolo di “protezione collettiva, in continuità con il considerare la creazione artistica un gesto comunitario”; l’altro curatore osserva che viene considerata “l’arte come bene comune”.
Secondo la scheda, la Camoni “ si prende cura degli oggetti trovati, dei processi naturali a cui sottopone i materiali che usa, delle persone che coinvolge nella propria pratica e delle forme che reclamano la sua mediazione per materializzarsi”. Sembra semplice, ma non è così, si innesca un processo imperscrutabile: “Il recupero della dimensione spirituale dell’individuo crea delle sacche di resistenza morale e passa attraverso l’esplorazione di una dimensione intima, uno spazio partecipato, un tempo di creazione e di fruizione che diventa lento e di cui mettersi in ascolto”. Chi saprà farlo?
Oltre all’opera citata, della Camoni abbiamo “Kabira” 2019: un grande cavallo nero, con lunghe collane di pezzi di creta assemblati, dà l’impressione di poter essere “abitato” come “riparo e capanna”, una riedizione… pacifica del Cavallo di Troia. Aggiungiamo quest’associazione di idee all’interpretazione di curatori e scheda.
“Cuoghi Corsello” sono due artisti ma non formano un duo, non c’è la congiunzione tra i loro nomi. Hanno rivisitato spazi industriali abbandonati occupandoli e trasformandoli in studi d’artista e in dimore temporanee, ed eccone l’effetto secondo la scheda: “L’atto dell’occupazione raccoglie intorno a Cuoghi Corsello una comunità reattiva e riunita ma non viene vissuto collettivamente, bensì con il rimando a una dimensione domestica e intima”. E’ la dimensione di “Anima diversa” 2019: un viso quasi in dissolvenza emerge in tinta spray su una moquette, che “in mostra si srotola come un papiro, una sacra scrittura”.
Cosa evocano Cuoghi Corsello? Per la Cosulich “mondi altrettanto familiari eppure misteriosi, risultati di cortocircuiti in cui la narrazione è fuoruscita dall’opera per entrare nella vita degli artisti, e viceversa”, per Collicelli Cagol sono “immersioni negli incommensurabili sé”. Non abbiamo solo un viso specchio dell’anima, anche “Mutandine”, “Ciclamini”, “Tulipani” , del 2016, nella stessa tecnica, con questo intento preciso: “Il mondo che ci circonda viene dissacrato e ripensato attraverso uno sguardo aguzzo e ironico e la creazione di un’alternativa immaginifica popolata di icone che, facendosi risorse, generano una nuova grammatica”. Forse per questo chi, come noi, non la conosce, ne resta irrimediabilmente escluso.
Di Simone Forti i video “Zuma News” 2014 e “A Free Consultation” 2016, il primo una sorta di danza nel cercare di recuperare dei giornali sulla spiaggia da parte dell’artista, che in genere si ispira al movimento degli animali. Per la Cosulich “usa il corpo come elastico primordiale e strumento d’avanguardia, anticipatore, sensibile a narrazioni private e ai cambiamenti nel mondo” , con l’aggiunta qui di sabbia e carta; Collicelli Cagol vi vede “l’approccio multidisciplinare”.
Ci sono anche 16 disegni su carta intitolati “Animal Study- Gorilla” 1990, risalgono a 30 anni fa le sue osservazioni sul modo con cui gli animali in cattività nello Zoo di Roma si misuravano con “lo spazio del confinamento”, nelle loro relazioni con l’esterno: disegni appena abbozzati, poche linee, quindi criptici per l’osservatore, come d’altra parte tante opere anche ben definite dell’arte contemporanea.
Pur essendo la danza il suo campo – essendo coreografa e danzatrice, oltre che artista e scrittrice – “Forti si allontana dalle coreografie strutturate della danza moderna in favore dell’improvvisazione e dello studio dei movimenti del quotidiano, descrivendo se stessa più come un’artista del movimento che come un’artista performativa”.
Viene declinato ulteriormente tale concetto: “Pensare con il corpo per Forti vuol dire relazionarsi con lo spazio, gli oggetti, i suoni, attraverso strumenti cinetici e visivi, stabilire un dialogo, domandare e rispondere al movimento con il movimento”. Si deve essere “artisti” per farlo, non ci provi il volenteroso vsitatore.
Irma Blank presenta “Bleu Carnac” 1992, 38 oli su tela dell’installazione al Padiglione di Arte Contemporanea di Milano, riadattata per il Palazzo delle Esposizioni, disposti lungo un corridoio nel quale si vorrebbero evocare gli “allineamenti megalitici” della località Carnac in Bretagna che dà il nome all’opera: “Quello che si crea è quasi un percorso sacro, celebrativo, scandito dal ritmo creato dal colore e dalle pause tra una tela e l’altra”.
Vediamo uno dei “Radical Writings, Abecedarium” 1991 che vi sono inseriti. Ed ecco l’interpretazione della Cosulich: ”La sua è una scrittura asemantica, svuotata di significato culturale e riempita di significato metafisico, autonomo nella sua potenzialità universale di insegnare a guardare e non a leggere… Non c’è figura nè figurazione nel suo lavoro ma un movimento trasformativo di linee che corrono parallele, imitano, in alcuni casi si intersecano”.
Un minimo di decifrazione delle parole sulla Blank è necessario, non sappiamo se possibile. Forse tutto nasce dal suo trasferimento dalla Germania alla Sicilia con i problemi linguistici che ha approfondito tornando ai segni primordiali, “ogni segno tracciato risponde al ritmo della respirazione”. Si legge nella scheda: “Il blu delle tele non è colore di sfondo o suggestione, ma è lo spazio megalitico stesso, che prende forma e pulsa al centro di Palazzo delle Esposizioni”. I visitatori lo potranno vedere, ma dubitiamo che penseranno allo “spazio megalitico”.
Con Lydia Silvestri irrompe il desiderio. Per la Cosulich “nella sua dimensione di ossessione ripetuta”, la sua ricerca incentrata “sulla liberazione della sessualità e del desiderio, personifica un erotismo fluido di cui è sorprendente pioniera”; per Collicelli Cagol è “la fusione del maschile e del femminile, corpi i cui sessi e generi diventano irriconoscibili”.
Sono riconoscibili, eccome, le sculture falliche in bronzo della Silvestri come “He” 1974 e semigres come due “Incontro” 1981-83, preceduti da “Sogno d’ambra” e “Sogno di una vergine araba” del 1970 in cristallo, prima ancora da “Aspide” 1969, una bella immagine di africana con collana e anello; tornando ancora indietro nel tempo abbiamo i marmi “Ex voto – per un amore perduto e ritrovato” 1965 e “Torso di G. FA” 1963 i quali, secondo la descrizione della scheda, “lasciano che l’atmosfera sensuale ed erotica pervada il tema sacro”.
Ma non si tratta di atmosfera sensuale senza altre implicazioni: “La dualità ambigua dei sessi, il rapporto attrattivo tra di essi e lo scontro-incontro che in ragione di questo si scatena, viene esplorato dall’artista attraverso lo studio e la composizione di forme sinuose e conturbanti”. Sono quanto mai esplicite le sculture falliche sopra citate, se possono definirsi conturbanti potranno giudicarlo i visitatori, in base alla rispettiva propensione personale a siffatto coinvolgimento.
“Il rapporto simbiotico tra sessualità e natura è incarnato dai “Fiori giganti” di Petrit Halilaj e Alvaro Urbano, simbolo unico di unione sentimentale, fisica e politica”, quella tra i due artisti che hanno dovuto rinviare il loro matrimonio a causa del Covid. Così li presenta la Cosulich che aggiunge: “I tre livelli di lettura di quest’opera (ma possono essere molti di più) confluiscono in un’unica immagine di libertà personale che appare al visitatore nella forma di un paesaggio fiabesco e protettivo”.
Nella scheda questo “paesaggio” spettacolare viene descritto così: “Halilaj e Urbano invadono infatti le pareti e il soffitto di uno dei due scaloni interni al Palazzo delle Esposizioni con un bouquet di fiori giganti i cui petali, su tela dipinta o tinta, hanno delicate anime di acciaio”. Ed ecco il significato: “Testimoni dell’amore per la poesia simbolista, i fiori attestano la cura dell’altro, la fragilità della bellezza… l’uguaglianza dell’amore in tutte le sue forme…”.
Sull’opera di Halilaj e Urbano si precisa che viene “reclamato” addirittura “uno spazio di visibilità e di affermazione di diritti”, premesso che i fiori sono “sospesi su uno scalone che negli anni Trenta era palco per la propaganda fascista”. Ci sorprende tale inattesa evocazione: un tenero richiamo alla dolcezza della vita e all’amore, senza confini né barriere, sembrerebbe lontano da pulsioni di altro tipo, però non è così, l’ideologia porta lontano ma all’indietro dove il cuore non penserebbe mai di tornare….
Dal collettivo di artiste – ne abbiamo contate 13 italiane e internazionali – Tomboys Don’t Cry, viene presentata “la loro ricerca sulla neutralità del linguaggio di genere e il loro focalizzarsi sulla lacrima come espressione del corpo universale transitorio e liquido”. Si definisce “un corpo polifonico di voci unite in un percorso che esplora l’idea di corpo nella sua presenza, latenza, ed emanazione”.
C’è fisicità e linguaggio, emozione e desiderio, con le radici nella “ricerca intersesezionale queer femminista”. La vediamo in “Training Coincidences” 2017, di Dafne Ruggeri, con le dita che incontrano sottili cactus spinosi in un’edizione di poster, e soprattutto in”Pravda” 2019, dolente viso di donna con basco nero di Rada Kozelj, simbolo della lotta in Bosnia.
Nei video, come quello di Tarek Lakhrisssi “Gli alieni invadono la terra per sovvertire il capitalismo” – dove arriva l’ideologia! – e nei disegni di Cinzia Ruggeri, che ritroveremo più avanti come “solista”, si incontrano “creature mutanti, al confine con l’extraterrestre”; fino ai poster grafici “Malelingue” di Idroletta in “un linguaggio di narratori fantasiosi” e agli “Stivali feticcio” di Eleonora Luccarini, “dispositivo accompagnato da 13 poemi” che sono stati letti all’inaugurazione della mostra.
“Nella minima distanza” è un’installazione – sempre del gruppo Tomboys Don’t Cry – datata 1990-2020, con una “serie di lenti a contatto usate dalle partner dell’artista”, Collicelli Cagol parla di “Body Language” definendola “mostra nella mostra” che “condensa in una temporalità e spazialità precise energie, pulsioni erotiche, forme sospese tra sarcasmo e coscienza della propria luminosità”. Non è poco, capirlo non è facile, né la serie di lenti a contatto aiuta a vedere…
Il tratto sottile a matita o a penna di Bruna Esposito disegna “Due gabinetti pubblici biologici” e 2 “Espositoilette” 1987-88, “il suo progetto di bagni pubblici autosufficienti dai canali d’acqua non rappresenta solo una forma di architettura utopica ma è un modello di ecologia e rigenerazione che guarda all’idea di scarto umano come nutrimento, nell’ottica di un diverso tipo di ecosistema, interconnesso e interdipendente”: essendo dei gabinetti si immagina di quali “scarti umani” si tratti.
Per Collicelli Cagol più semplicemente “spazi pubblici alternativi” nell’ottica dell’”Arte come bene comune”, mentre nella scheda si legge: “Quella che si crea è una fruizione scultorea di un luogo generalmente nascosto e appartato, in cui il corpo umano è inserito nella natura che contribuisce ad alimentare, riacquisendo la propria posizione di equilibrio dinamico con l’ecosistema in cui è inserito”. Si resta senza parole dinanzi a tale exploit descrittivo…
Il protagonista involontario nella pandemia del Coronavirus e nel tremendo atto delittuoso che ha dato avvio al Black Lives Matter, è alla ribalta con “Respiro” di Cloti Ricciardi , presentato addirittura nel 1968 al circolo romano “La Fede”. Secondo la Cosulich, “Ricciardi si interroga sul respiro dello spazio espositivo e sulla vitalità della creazione rispetto allo spettatore” , secondo Collicelli Cagol “le pareti si sfaldano nel ‘respiro’”, è la sala a essere antropomorfizzata e a respirare attraverso l’azione del visitatore che muove i fili come un burattinaio.
La scheda precisa: “Respiro è una stanza rivestita da una grande tela che viene attivata dai visitatori tramite fettucce che, connesse a un sistema nascosto di carrucole, fanno in modo che la stanza intera respiri, dilatandosi e contraendosi come un grande diaframma”. L’autrice “adotta una posizione che la porta ad analizzare il rapporto artista-opera d’arte-sguardo e a rivendicare lo ‘sguardo’ laterale delle artiste donne come strumento di consapevolezza con cui scardinare e introdurre elementi di profonda modifica nella struttura simbolica dell’arte”. Lo esprime “con uno spazio-corpo che si svincola dalle costrizioni e prevaricazioni del patriarcato, creando un nuovo terreno di interazione confronto con l’opera”. Ci sembrava di aver capito, fino al riferimento alle “prevaricazioni del patriarcato”, poi…
Altrettanto coinvolgente è il “respiro” non di una stanza ma dell’intero Palazzo: per la Cosulich “con Norma Jeane è il battito del cuore dell’artista stesso a far respirare il Palazzo delle Esposizioni” in modo ancora più spettacolare ed emblematico nei lunghi giorni di chiusura della mostra per il lockdown dando il senso che continuava a vivere, e forse anche a soffrire.
Oltre a questi “Battiti del cuore” , che fanno respirare” il “Corpo di fabbrica” nel 2020, l’artista anonimo “senza corpo, senza genere, senza biografia” – che come Norma Jeane ha preso il nome anagrafico di Marilyn Monroe evocandone la storia – “crea un disorientamento fisico, mentale e temporale attraverso l’esposizione di oggetti e macchine della vita quotidiana a particolari condizioni di stress e fuori dal loro contesto”: da “Loops of Fury” e“Lady Loo/ Rrose Sélavy vs R. Mutt” , tra il 2004 e il 2006, a ”ShyBot” e “Loony Park”, tra il 2017 e il 2019.
Il visitatore ne viene coinvolto, “uno degli aspetti fondamentali della sua pratica è infatti la rottura della barriera che divide l’artista dal pubblico”. In questo caso addirittura il pubblico non è quello dei visitatori, a mostra chiusa, ma quello all’esterno, sono i cittadini che passano con le mascherine davanti al Palazzo delle Esposizioni.
Norma Jeane “non vuole far riferimento a sé ma alla relazione sempre più centrale tra corpo umano e tecnologia”, espressa negli elettrodi che collegano la sua frequenza respiratoria all’impianto di illuminazione del palazzo e “lo fa pulsare di notte, disorientando il rapporto tra vita biologica e artificiale”. Nella chiusura della mostra, del Palazzo e in parte della città dettata dalla pandemia , è un messaggio di vita, “una soglia liminale di passaggio tra dentro e fuori, tra lo spazio espositivo e quello della realtà, tra l’arte e la città”. E questo lo si vede e lo si sente, “chapeau”!
Cinzia Ruggeri, che abbiamo trovato prima nel gruppo Tomboys Don’t Cry, “pensa il corpo e veste il pensiero: il suo è un costante uscire disciplinatamente dalle discipline, incrociando sentimenti, disegnando libertà, concretizzando manie indipendentemente dalla categoria creativa a cui i suoi oggetti e abiti appartengono”, scrive la Cosulich. Moda e design, scultura e architetture sono collegate in quelle che Collicelli Cagol chiama le “riflessioni corrosive” che fa l’artista “mettendo in scacco topoi dell’arte italiana, del made in Italy e dei costumi correnti”. Una sorta di “ready made” tra il 1984 e il 1989, “Scarpe scale” e “Abito salame” , “Stivali Italia” e “Guanto borsa schiaffo”, fino al “Gioiello per lampadina” 1978-2018.
C’è ironia nelle decontestualizzazioni che fa la Ruggeri degli oggetti, ma ci sembra esagerato far irrompere l’ideologia, come si legge nella scheda: “Gli ‘Stivali Italia’ (1986), per esempio, ironizzano sul concetto del made in Italy e contemporaneamente mettono in dubbio il valore dell’unicità, tramite lo sdoppiamento della penisola italiana”, e fin qui “nulla quaestio”, ma ecco la conclusione: “Il machismo insito nel sentimento nazionalista viene ribaltato da un’estrema femminilizzazione della geografia italiana”, forse dagli stivali maschili alla penisola femminile…
Anche in Maurizio Vetrugno troviamo oggetti di moda che raccoglie per ispirarsi ad essi nelle sue composizioni inizialmente realizzate in set fotografici, poi in ricami di artigiani. Vediamo, in progressione temporale, l’incisione “I feel Mysterious Today” e i polimeri su seta di “E’ più che bella” 1994-95, poi i ricami a mano in filo di seta su tela “Patty Hearst” , “Nico Chelsea Girl” e “Divine I’m so Bautiful” del 2005, Jane B.” e “Rolling Stones. Stocky Fingers” 2007.
Si legge nella scheda: “Artista concettuale in grado di dialogare con il glamour, Vetrugno ci invita ad individuare valori estetici al di là di quelli sanzionati dai confini della storia dell’arte, per rappresentare l’irrappresentabile”, con questa conclusione: “L’artista è un autore virtuale che crea ipertesti di folgorante e onnivora bellezza”. Lo fa mescolando icone dello spettacolo a persone sconosciute, spesso suoi amici, perché nei suoi ipertesti “l’importante non è tanto la riconoscibilità del ritrattato, quanto la raffinatezza del ritratto e la sua messinscena”, E ci sembra non solo condivisibile, ma addirittura ovvio, è questo che si è sempre ammirato nella ritrattistica anche se spesso i soggetti raffigurati sono noti e ben riconoscibili.
Giulia Crispiani è invece radicata nell’oggi più angoscioso, la pandemia del coronavirus che ha stravolto in modo disumano ogni socializzazione e, leggiamo nella scheda, “porta all’interno delle sale di Palazzo delle Esposizioni le pulsioni di una collettività, mette in scacco la visione autoriale dell’artista, pone al centro della discussione il desiderio e promuove, allo stesso tempo, la circolazione di pensieri e idee all’esterno della mostra”. In pratica, espone le risposte a una lettera inviata a 60 amici e colleghi per superare l’isolamento, e un pallet di cartoni di pizza con stampata la lettera, 3000 distribuiti nelle pizzerie di Roma per consegna a domicilio. E’ “un’opera collettiva che si infiltra nel palazzo ma origina al di fuori di esso”.
Riguardo all’autrice dell’iniziativa, si legge che “Crispiani si confronta con la tradizione dei movimenti femministi, considerandone la forza non solo oppositiva ma anche contro generativa. Il desiderio e il piacere sono stampati nella sua riflessione come avviene nella raccolta di lettere mai spedite ma pubblicate ‘What if Every Farewell Would Be Followed by a Love Letter’” 2020. Sono in mostra, non riusciamo a vederci la “celebrazione di un’erotica del fare artistico che non rappresenti solo una visione individualista, ma un espediente per la cura reciproca, dove lo spazio della distanza diventa spazio del possibile”.
Con le sue ceramiche smaltate e molte “piastre esposte a muro” Alessandro Pessoli “costruisce i propri dipinti come fossero dei collage materici e insieme concettuali”. Ne sono esposte molte del 2013, intitolate “L’ultimo impero” e “La Rivoluzione”, “Repubblica” e “Zombie Market”, “Autoritratto rosso” e “Futuro”, “Il sol dell’avvenire” e “la veglia”, ”Italietta” e “La mia gente che”.
Inoltre abbiamo, sempre in ceramica, le sculture che “ in modo tridimensionale e tuttavia pittorico, ne riprendono le atmosfere”, ”Kippenberg” 2012, “Ritratto di Zucca”e “Il Paese (Periferia)” 2013. “La storia diventa per Pessoli un prisma attraverso cui guardare e capire il mondo contemporaneo: nei suoi lavori eventi e personaggi storici subiscono un processo di trasformazione che li radica fortemente nel tempo presente”.
Partendo da tali considerazioni, la scheda considera le sue opere “un catalogo di esperienze intime e collettive” in cui – con uno “sdoganamento” inatteso dopo la “damnatio memoriae” di quel passato – risuonano echi di Umberto Boccioni, Arturo Martini, Mario Sironi, Fausto Melotti, il terzo è stato a lungo innominabile. Ma non basta, l’impostazione ideologica di cui si è detto all’inizio fa affermare che “l’intento di Pessoli è quello di mostrare la percezione di un artista italiano di fronte al ventennio berlusconiano, constatandole le conseguenze lasciate nella società”. Sì, in effetti anche quello “berlusconiano” è stato un ventennio, con “le conseguenze lasciate nella società”, però ci chiediamo cosa c’entri…
Andiamo avanti. “Le partiture musicali di Sylvano Bussotti – scrive la Cosulich – sono opere autonome, pentagrammi sorprendenti in cui le linee si incrociano formando figure umane o geometriche, aperte all’interpretazione personale di cantanti e musicisti intenti a leggerli: un altro gioco della matassa, altre mani”. Secondo la scheda, “l’eros, forza dionisiaca in grado di liberare l’uomo, permea la sua arte come la sua musica, entrambe intese come sensualismo e gestualità”.
La sua ricerca “segue la direzione di un’esuberanza sognante e vitale, eppure elegantissima e colta”. Si passa da “Il tappezziere” del 1953, che mostra la schiena e il sedere nudo, all’”Arlequin Poupi” del 1955, dal diversissimo “Autoquartetto (il quinto)” con partitura musicale e due volti a “Il catalogo è questo” 1981 e “La vera foglia di Adamo” 1991.
“Autore poliedrico dalla “scrittura proliferante” – musicista e compositore, regista e artista – Bussotti “immagina ogni singolo dettaglio della scena, per realizzare un ambiente dove musica, testo e scenografia si fondono seguendo la spregiudicatezza del desiderio, e pervertendo così la tradizione dell’opera d’arte totale”. Queste parole della scheda riportano alla visione interdisciplinare che è una della peculiarità della mostra; sulla pregiudicatezza e perversione… sarà colpa nostra non riuscire a sentirvi il desiderio.
Prossimamente proseguirà la nostra galleria della Quadriennale con altri 16 artisti, per terminare successivamente con i restanti 11 artisti.
Info
Palazzo delle Esposizioni, Via Nazionale 194, Roma. Da lunedì a venerdì ore 11-20, sabato e domenica chiuso, ingresso gratuito per il contributo del “main partner” Gucci, si entra fino a un’ora dalla chiusura con prenotazione e misure di contenimento e protezione per la pandemia. . www.palazzoesposizioni.it tel. 06.39967500, www.quadriennalediroma.org tel. 06.97743311. Catalogo “FUORI Fuori Fuori Fuori Fuori”, Treccani, pp.680, formato 16,5 x 24, bilingue; dal Catalogo sono tratte le numerose citazioni del testo. Del nostro servizio sulla mostra in 5 articoli, il 1° è uscito in questo sito il 1° marzo, gli altri 3 usciranno il 3, 4, 5 marzo 2021. Cfr. i nostri articoli: in questo sito, sulla mostra per la presentazione dell’attuale 17^ Edizione il 20 luglio, 12 febbraio 2020; per la 16^ Edizione del 2016, il 21, 22, 23, 24, 25 luglio 2020, già pubblicati in www.arteculturaoggi.com il 16 giugno, 24 e 27 ottobre, 1° e 29 novembre 2016. Per gli artisti citati nel testo, nel sito ora indicato, Boccioni 1° ottobre 2018, Sironi 2 novembre 2015, 1°, 14, 29 dicembre 2014; in cultura.inabruzzo.it, Sironi 26 gennaio 2009 (quest’ultimo sito non è più raggiungibile, gli articoli, sempre disponibili, saranno trasferiti su un altro sito).
Photo
Le immagini delle singole opere dei 43 artisti espositori, come le panoramiche delle sale espositive – queste ultime inserite nel 1° e 5° nostro articolo sulla mostra – sono state fornite dall’Ufficio stampa della mostra, ringraziamo Maria Bonmassar per la cortesia manifestata fornendo anche il prezioso Catalogo; alterttante immagini delle opere illustrano il 3° e 4° articolo, anch’essi dedicati alla galleria dei 43 artisti. Sempre sono state inserite immagini di 2 opere per ogni artista, tutte “courtesy l’artista” e in taluni casi anche “courtesy Collezione” o “courtesy Galleria”; a loro, e a tutti i titolari dei diritti, il nostro più vivo ringraziamento. Anche per illustrare ogni artista con 2 opere, in aggiunta alle immagini fornite dall’Ufficio stampa ne sono state inserite altre tratte dal Catalogo, in questo articolo le n. 2, 5, 14, 15, 16, 18, 20, 21, 27; quindi, si ringrazia anche l’Editore con i titolari dei diritti. Sono tutte inserite nell’ordine di citazione nel testo, con l’avvertenza che la 2^ opera di Alessandro Pessoli e le 2 opere di Sylvano Bussotti, commentate nel testo, sono riportate all’inizio del 3° articolo. In apertura, Micol Assaël, “Stone Broken Circuit” 2016-20, e “Reality is Not Contemporary” 2020; seguono, Chiara Camoni, “Kabira“, e “Senza titolo (una tenda)” 2019; poi, Cuoghi Corsello, “Anima diversa” 2019, e “Adoro diventare una principessa” 2020; quindi, Simone Forti, “Zuma News” 2014, 1 # e # 2, due fotogrammi video ; inoltre, Irma Blank, “Bleu Carnac” 1992, e“Radical Writings, Abecedarium 27-3-91” 1991, e ancora, Lydia Silvestri, “Sogno di una vergine araba” 1970, e “He” 1974; continua, Halilaj-Urbano, “Work in progress” 2020, e “7 aprile 2020 (Quince)” 2020; poi, Tomboys Don’t Cry, “Training Coincidences” 2017 di Dafne Ruggeri, e ”Pravda” 2019 di Rada Kozelj; quindi, Bruna Esposito, “Espositoilette” 1987-1988, # 1 e # 2, disegni; inoltre, Cloti Ricciardi, “Respiro” 1968, # 1 e # 2, l’artista al montaggio e inaugurazione a Napoli ; ancora, Norma Jeane, “Corpo di fabbrica” 2020, e“Loony Park” 2019; continua, Cinzia Ruggeri, “Stivali Italia” 1986, e “Gioiello per lampadina”, 1978-2018; poi, Maurizio Vetrugno, “Ivy Nicholson/ Dahl-Wolfe” 2004, e “Divine, I’m so Beautiful” 2006; quindi, Giulia Crispiani, “Rivolta” 2019, e “Lettere” 2020 parte di “Incontri in luoghi straordinari” ; in chiusura, Maurizio Pessoli, “La mia gente che va in pezzi” 2013.