di Romano Maria Levante
Andiamo ancora avanti nella nostra narrazione della 17^ edizione della Quadriennale d’Arte espressa nella mostra “FUORI” al Palazzo delle Esposizioni, curatori Sarah Cosulich direttore artistico della Fondazione Quadriennale di Roma, e Stefano Collicelli Cagol, con gli ultimi 11 artisti dei 43 espositori, dopo aver commentato finora gli altri 32. Nel realizzare la mostra, la Fondazione si è avvalsa della collaborazione dell’Azienda speciale Palexpo, ha contribuito il Ministero per i Beni e le Attività culturali e per il Turismo. Inaugurata il 20 ottobre 2020, dopo la chiusura prolungata per la pandemia Coronavirus, è stata riaperta il 4 febbraio 2021 e potrà essere visitata fino alla primavera; ingresso gratuito per il contributo del “main partner” Gucci. Catalogo della Treccani, bilingue.
Nei tre articoli precedenti abbiamo riassunto all’inizio l’impostazione della mostra, con al centro Roma e il Palazzo, le Quadriennali precedenti e l’Arte italiana, rivisitata nel corso degli ultimi sessant’anni per proporre oggi artisti che avevano una visione anticipatrice, nelle tre linee di ricerca, il Palazzo, il Desiderio, l’Incommensurabile. Poi abbiamo passato in rassegna 32 artisti dei 43 complessivi e le loro opere, citando le descrizioni e i significati attribuiti dalle schede illustrative e, in molti casi dai curatori, risultando improponibile l’interpretazione al cronista che, come semplice narratore, le considera indecifrabili e pensa che lo siano anche per il comune visitatore. Completiamo ora la rassegna con i restanti 11 artisti.
Ci siamo lasciati nell’ultimo articolo con il primo di tre artisti “ammaliatori”, Franceschini. E’ il turno degli altri due, De Luca e Sacchi. Tommaso de Luca ha una linea scenografica riferita all’architettura, secondo la scheda con “l’esplorazione della coreografia che uno spazio architettonico crea in relazione ai corpi che lo attraversano”. In pratica mette in scena “macchine visive che fanno saltare l’assunzione di una corrispondenza diretta tra visione e realtà e incoraggiano invece il visitatore a percorrere lo spazio assumendo posture alternative”.
Addirittura nell’opera di De Luca si vedono “gli echi della pratica del cruising, un incontro di sesso casuale tra uomini che avviene in spazi non deputati, come parchi o toilette”. Non sappiamo assumere le posture alternative evocate né riusciamo a immedesimarci nello squallido ambiente di cui all’opera intitolata “”Salopp Gesagt Schlapp” 2014, che “mima l‘estetica dei bagni pubblici, utilizzati dalle comunità omosessuali come luogo di incontri e soddisfazione di desideri e contemporaneamente richiama la costruzione di un forum, inteso come un posto di incontro e scambio, alludendo alla natura ambigua di fruizione insita nello spazio stesso”.
Dopo i progetti di “Bagni pubblici biologici” di Bruna Esposito ritroviamo gli stessi ambienti, prima declinati all’insegna della sensibilità ambientale e dell’equilibrio tra corpo e natura, ora in chiave sessuale, anzi omosessuale. La mostra così rende onore al suo titolo “Fuori” nell’accezione del movimento di Angelo Pezzana, e alle proprie motivazioni. L’altra opera, “Die Schlussel des Schlosses” 2020, mostra “un padiglione non finito” che evoca “l’ambiguità destabilizzante del lavoro”. In altri termini, “quella che De Luca sembra proporre è un’analisi grammaticale dello spazio del potere, riflettendo sulla strutturazione e sul mantenimento del privilegio”. Altro che “ammaliatore”, l’artista ci riporta ai temi ideologici molto frequentati, tutt’altro che ammalianti….
Il terzo artista che abbiamo definito “ammaliatore” prendendo lo spunto da Collicelli Cagol, Davide Stucchi – un ritorno il suo dopo la 16^ edizione del 2016 – presenta opere radicalmente diverse, che la scheda descrive come sculture “risultato di fragili modifiche dei materiali, azioni minime che, aggrappate – come cinture – alla vita e all’autobiografia dell’artista, disegnano nuovi corpi, descrivono l’intimità degli spazi e la vulnerabilità degli oggetti”. “All Clothes Artists’ Own” 2020 mostra una persona vestita distesa bocconi su un letto che guarda un video.
Le altre opere realizzate per la Quadriennale sono molto diverse. In “Light Switch (The Guy Next Door)” si vedono luci al neon ancora semi imballate in scatole semiaperte, sul ballatoio del Palazzo, lampade a terra tra fili elettrici. “Traslocando (Shy Neon)” si ispirerebbe a due quadri di Giorgio de Chirico, “Arrivo del trasloco” 1951 dove si vede un pacco caduto dal veicolo a terra nell’ombra, e “Sole sul cavalletto” 1973 con il filo elettrico che sembra alimentare la sorgente di luce.
Ma, a parte tali lontani riferimenti, peraltro a dipinti, le scatole semiaperte come in un trasloco ci fanno pensare a quanto avvenuto in altre circostanze in cui oggetti dello stesso tipo e imballaggi sono stati addirittura ritenuti da utilizzare o riporre, fino ad essere scambiati per rifiuti, ne parleremo al termine.
Questa volta non c’è un rischio simile, data la cornice in cui li colloca l’allestimento considerando il valore loro attribuito nella scheda: “L’opera è una riflessione sull’intimità, sui perenni traslochi di vite precarie e instabili, sulla memoria di oggetti desideranti che ormai hanno appreso la capacità di lasciarsi andare o la curiosità instancabile di costruire nuove occasioni e relazioni”.
Sempre di Stucchi vediamo i simil-interruttori fissati al muro, “Kitchen” e “Corridor”: al posto del pulsante si intravvedono immagini, cosa che “mette in scacco la gestualità convenzionale del suo utilizzatore”. In tal modo “Stucchi invita al voyeurismo, sollecita la curiosità e stimola il contatto”. Ma come?
Ecco la risposta: “Stucchi si confronta con la letteratura queer, spesso interessata allo spazio pubblico, e riporta la trasgressione del cruising (la ricerca di incontri sessuali in luoghi pubblici con sconosciuti) e l’esposizione del sé a una dimensione domestica e quotidiana, dove l’io si confronta con se stesso e la maggior parte delle sue esperienze, infine accade”. Anche qui non vediamo evocato l’“ammaliatore” suggerito da Collicelli Cagol, ma la tematica omosessuale legata a luoghi pubblici, peraltro squallidi, come quelli progettati dalla Esposito ed evocati anche da De Luca.
Andiamo “in più spirabil aere”, ci sia consentito di dire, con Caterina De Nicola che, secondo la scheda, “analizza i processi di estetizzazione culturale, esaminando motivi e tendenze ormai svuotati di senso ma che circolano ideologicamente nella società”, cosa che a nostro avviso darebbe loro pur sempre un senso, quale che sia l’ideologia.
In questa ottica “sfida la percezione immediata delle sue opere, mirando a stimolare sensazioni opposte” e impiega materiali eterogenei, quali immagini e simboli di varia natura, prodotti di design, testi e tracce sonore ricomposti con il “mash up”: una tecnica utilizzata soprattutto nella musica miscelando brani diversi per ottenere un nuovo suono pur restando distinguibili le componenti.
Ne deriva una forma di espressione definita “theory fiction” che consiste nel “toccare tematiche specifiche attraverso la finzione” realizzando degli ibridi, nei quali si perde il riferimento al singolo autore o personaggio pur se “i suoi testi parlano in prima persona”. Per cui “il risultato finale è un ibrido tra oggetto di design e libro, tra un quadro e una scultura, sulla cui indeterminata definizione l’artista non prende una decisione”.
“Moxette’s Crazy. Stupid Love” presenta i 7 nani disneyani su una trapunta verde, in un ritorno all’infanzia, mentre “Erotic Injury” e “Degought Depletion” “ sono tra le prime opere dell’artista a riunire scrittura, pittura e scultura” con scritte apposte su tessuti presi nei mercati dell’usato, tutte del 2020. “Sotto la sua azione, le forme del design subiscono un processo di trasformazione che con ironia mette in luce la tendenza – comune sia al design che all’arte – di scadere nella riconoscibilità, ripetitività e prevedibilità, in una parola: nello stile”.
Sulla ripetitività e prevedibilità siamo d’accordo, ma lo “scadere nella riconoscibilità” può essere solo un’espressione ironica, perché altrimenti il visitatore potrebbe aversela a male. E non serve spiegare perché, ne parleremo al termine riguardo al problema della comprensibilità che si pone per l’arte contemporanea, non solo per questa mostra.
Altri tre artisti, Castelli, Bosetto, Nicolai, “nel loro essere fuori scala, fuori norma, fuori dal tempo, implicano l’apertura al futuro e un sentirsi organici alle sfide (e alle ansie) del mondo globalizzato” afferma Collicelli Cagol, e cita “”le posture squilibrate e disarticolate delle creature di Guglielmo Castelli, gli interni abbandonati di Benni Bosetto,… la fragola gigantesca di Valerio Nicolai”. Consideriamo ad uno ad uno questi tre artisti accomunati dall’essere “fuori” da tutto.
“Nelle tele e nei disegni di Guglielmo Castelli una certa nostalgia malinconica indugia sul momento dell’attesa, l’attenzione concentrata su attimi apparentemente insignificanti”, osserva la scheda, che esemplifica questi momenti nella “fine di un pasto, il dismettere le scarpe da danza, l’accosciarsi su un divano”, con i materiali utilizzati in modo innovativo al di fuori delle regole tradizionali, un altro “fuori”…. “Le figure umane sono agglomerati di materia cromatica resi fluidi dagli effetti debordanti delle pennellate” e attraverso mescole di colori acrilici e a olio, resi più brillanti e luminosi: le ambientazioni “sono paesaggi che si prolungano e si disperdono sui corpi che le abitano”.
“Ordine nostalgico di un assetto spaziale” è un’installazione per la Quadriennale con un varietà di componenti, tele di misure diverse e disegni di piccole dimensioni. ”L’ordine si piega alla nostalgia, una qualità ondeggiante tra l’eccesso di immaginazione e il desiderio acuto misto a rimpianto…”. Ma poi la scena si anima con un’altra opera, “Compiuta figura” , una danzatrice che ballando si specchia nella propria ombra, mentre altre volteggiano e ci sono anche quelle distese nel riposo dopo la danza.
Dal movimento all’intimità in “Ogni cosa nel buio la posso sapere”, una camera da letto il cui disegno “sottolinea come in Castelli, le posture dei corpi si sviluppino in maniera uniforme al gesto continuo del pittore, lo seguano interpretandone la durata”. Non mancano gli animali domestici nel trittico “Giochi da adulti” , i gatti da scoprire nelle macchie di colore, i topi nel labirinto. Tutte del 2020, come “A memory”, “About today”, “All You Can Eat”, mentre è del 2019 “I muscoli del Capitano”. Sono opere di un cromatismo coinvolgente che hanno il pregio, o il difetto – a stare a quanto si è letto su De Nicola – della riconoscibilità, e per il visitatore è una boccata di ossigeno dopo tanta stupefatta apnea.
Benni Bosetto dipinge e disegna sulla parete, inoltre, sottolinea la scheda, realizza sculture e installazioni “che immergono chi le incontra in mondi dove il corpo è decostruito e immaginato nuovamente”. Nelle sue opere, “la corporeità si dissolve divenendo parte di altre specie, altri generi e altri tempi che si tengono e riallacciano in un racconto eterno – balsamo contro ansie e incertezze, strategia di localizzazione”.
Frammenti umani rappresentano il “linguaggio corporeo” dell’artista e si uniscono ad elementi vegetali anche con “processi alchemici rocamboleschi” partendo sia da antiche leggende medievali, sia da fatti di cronaca. Nella performance “Ambiente X” 2019, vengono presentati ossessivamente i gesti quotidiani del lavoro d’ufficio “in una reiterazione meccanica che li priva di senso”. Ma è altrettanto arduo il senso nell’interpretazione che viene data, dopo la descrizione appena riportata: “Il rito, come il racconto, è allora una strategia che, opponendosi all’escapismo, afferma un’iper-presenza dai confini espansi”, fa uscire dall’”ambientazione standardizzata” dell’ufficio e “abbraccia altri possibili luoghi e il tempo si liquefà connettendo le tradizionali ripartizioni tra presente, passato e futuro”.
Per la Quadriennale ha progettato l’istallazione ambientale sonora “Anima”, che rappresenta una stanza quasi “in rovina”, dato che la carta da parati è strappata e si vedono disegni sul muro con travi di legno insicure e rifiuti: “La presenza umana è evocata in assenza. Si possono udire flebili rumori, stridori e voci indistinguibili che compongono un paesaggio sensoriale dalla profonda qualità fisica”.
Il Catalogo riporta ”Jewels” 2019, due “Senza Titolo” identificate in “Lo scriba” e “Il giornalista” del 2020. “Cleaning” è un disegno a muro con un “superorganismo” fantasioso, dove le figure, collegate da tubi biomeccanici, “rivelano la centralità del corpo come baluardo di ricchezza sensoriale, centro della percezione, fonte di conoscenza materiale e depositario di memoria interpersonale e intergenerazionale”. Non è troppo caricare il “superorganismo” di tutti questi contenuti? Li vede l’interprete, speriamo che possano vederli anche i visitatori, al cronista risulta difficile.
Valerio Nicolai va anch’egli oltre i limiti, come i due artisti precedenti, anche quando resta nella pittura perché “mette in continua frizione la realtà, creando dei cortocircuiti nelle immagini”. E lo fa “innestando elementi in contesti inaspettati” seguendo l’immaginazione e la libera associazione di idee, “in un processo psicanalitico che cerca di non far sfuggire i lampi improvvisi di immaginazione e memoria”; in pratica, “l’immagine viene smontata e rimontata in un processo di aggiunte e sottrazioni”.
Così la scheda, ma non sappiamo quale “processo psicanalitico” possa essere alla base della ceramica cromata “Coglione” (sic!) 2017 e dell’olio e acrilico su tela “Mare di merda # 5” (sic bis!) 2018; è come se dopo sessant’anni la celebre “Merda d’artista” di Piero Manzoni sia uscita dai 90 barattoli numerati uno dei quali venduto all’asta a fine 2016 per 275.000 euro…
Ben diversa è “Tempesta al prosciutto cotto” 2019, un tela di 177 x 254 cm con le venature che diventano fulmini e saette, fino a “Capitan Fragolone” 2020, una enorme fragola di cartapesta rossa esposta nel Palazzo con delle fessure per vedere all’interno una nave dove c’è un “performer” nella cambusa vestito da pirata; “mondi inaspettati si fondono l’uno dentro l’altro, attivando l’effetto di una serie di scatole cinesi che il visitatore è chiamato ad aprire”. I visitatori partecipano a questo viaggio fantastico e fantasioso.
Lo “Spremilimone candelabro” 2019, sempre di Valerio Nicolai, è perlomeno stravagante, mentre “Prospettive di una matrioska” ispira questo volo pindarico: “Mondi inaspettati si fondono l’uno dentro l’altro, attivando l’effetto di una serie di scatole cinesi che il visitatore è chiamato ad aprire, sospeso tra il desiderio della scoperta e lo spaesamento a cui essa lo condurrà”. Dal prosciutto cotto, il fragolone e lo spremilimone alla matrioska, al “coglione” e al “mare di merda”, non c’è che dire, complimenti! Escursioni impensabili nella loro stupefacente varietà…
Dalla pittura, dalla ceramica e l’improbabile “ready made”, al rapporto tra scultura e fotografia che troviamo in Giuseppe Gabellone, le cui opere scultoree vengono spesso conosciute solo attraverso immagini fotografiche, e poi a volte distrutte, in modo da non essere databili, quindi fuori dal tempo e soprattutto dalla contemporaneità.
I lavori di Gabellone non appaiono realizzati nel presente, ma per la scheda sembrano “emersi da qualche archetipo tempo delle origini della storia dell’arte italiana del Ventesimo secolo, che non trova però collocazione precisa su un’immaginaria linea del tempo”.
E’ il significato dato alle due “Falsa Finestra” del 2020, create per la Quadriennale: grandi pannelli in fibra di vetro, resina e colori acrilici, con un “lavoro di stratificazione che conduce a questo tempo indefinito” facendo perdere di trasparenza ma riacquistando il colore rispetto a lavori precedenti sullo stesso tema, in particolare alla “Falsa Finestra” del 2019. La mancanza di trasparenza è il risultato di un processo lento di stratificazione che dà “un alto tasso di opacità” alle sue opere collegato “alla riflessione sulla memoria e in qualche modo sull’atemporalità della pratica dell’artista”.
Richiamano lavori anteriori “emblematici dell’interrogazione che Gabellone avanza ai confini di bidimensionalità e tridimensionalità” e nella loro materialità opaca la quale inibisce di guardare oltre fanno sì che, mentre cerca “di interrogare l’immagine che dovrebbe rivelarsi, si trovi invece a guardare tutto insieme, tutto in una volta sola”. Con questa conseguenza: “Ecco allora che il processo di lenta sedimentazione degli strati non ha come risultato un qui e ora, che viene dichiarato impossibile dall’opera di Gabellone, ma offra invece una visione sincronica di tutto ciò che è sempre qui”. Provare per credere, il visitatore è avvertito, deve solo interrogare e guardare.
Luisa Lambri è una “fotografa di luce e architettura: la sua ricerca è orientata a restituire l’esperienza di essere negli spazi”. Dopo questa presentazione la scheda descrive l’architettura nelle sue fotografie luminose, considerando che “non usa le sue immagini per rappresentare delle architetture, mette piuttosto in atto il procedimento inverso, partendo dalle architetture per creare le proprie opere”.
E come avviene questo? Con una propria visione degli spazi che ne rende la percezione e sensazione al di là della rappresentazione oggettiva, ottenuta con “tagli diagonali, porte socchiuse, riflessi” per renderne l’atmosfera e “svelare qualcosa che c’è ma che, senza l’aiuto del suo sguardo, potrebbe rimanere per sempre celato, nascosto”. Vediamo 3 opere in stampa a pigmenti, “Untitled”, del 2007 “Schinder House” e 2 opere del 2016, “The Met Breuer # 5 e 7”.
In esse “l’atto di fotografare il modernismo diventa occasione per metterne in scacco il linguaggio formale”, ed ecco come: “Rileggendolo da un punto di vista obliquo che ne ridisegna le geometrie e dà una tridimensionalità scultorea all’immagine”. Se si trattasse solo di tecnica fotografica ci verrebbe da associarla alle riprese oblique che hanno reso celebre il fotografo russo Aleksander Rodcenko, ma si vuole ci sia molto di più.
In primo luogo si butta di nuovo nell’ideologia di genere affermando che “guardando all’architettura modernista, Lambri svela il suo sguardo che è da intendere come una vera e propria esperienza femminile in un mondo costruito e creato dagli uomini”; e con questa espressione femminista si fa un torto alle donne che hanno contribuito insieme all’uomo al mondo come lo vediamo. Inoltre si valorizza la sua fotografia ad opere d’arte, come i”tagli” di Fontana da lei ripresi “riempiendo tutto il campo di visione di questa lacerazione che sprigiona una potenza tattile”.
Infine, “di fronte all’interpretazione di Lambri degli spazi assistiamo alla metamorfosi di un corpo, il corpo dell’artista, in architettura”. E nessuno potrà dire di non aver capito, neppure noi ci azzardiamo a questo, perché la scheda precisa: “Quello messo in atto non è un semplice gioco di rispecchiamento, ma un’operazione di riconoscimento”. Vuol dire che “scade nella riconoscibilità” che prima abbiamo visto considerato come fattore negativo? Forse, ma solo parzialmente.
Dalla “metamorfosi del corpo dell’artista in architettura” a una visione speculare, che attiene non al corpo né a un contraltare materiale bensì “al campo espanso della percezione, della cognizione e della relazione interpersonale” cui Raffaela Naldi Rossano affida “la prerogativa della costruzione del sé, dell’altro e del noi”, è scritto nella scheda. Oltre ai fattori biologici interni operano “supporti esterni, estranei: linguaggio, artefatti tecnologici e culturali”, che ci sembrano il “pendant” rispetto a corpo e architettura della Lambri.
Né il corpo è assente in questa visione dato che “se la memoria si deposita, non può che farlo nell’odore di un corpo, nel sapore di un pasto, nella pelle d’oca al passaggio di una brezza”, che sono le “porzioni di realtà”. Tutto questo si esprime, in particolare, in 2 opere del 2019. “Noi siamo le nipoti delle streghe che non siete riusciti a bruciare“, declinata in inglese, esprime già nel titolo la sua provocazione, le streghe sono considerate “eroine resistenti” e non nell’accezione negativa che le faceva ardere sul rogo. Si tratta di 56 lettere di ceramica con le quali l’artista “ricostruisce una discendenza ideale, ribadendo lo spirito inclusivo e fantasioso alla base della costruzione di linee familiari e collettività materiali”.
“A Liquid Confession” è un’acquasantiera in ceramica smaltata con dei limoni veri, che ha tagliato la stessa artista perché i visitatori sentano il loro aroma e partecipino “ai ricordi dell’artista”. Meglio i limoni che la m…da, ci viene da dire con una facile battuta. Sarebbe troppo semplice, per questo la scheda richiama subito alla complessità interpretativa: “Naldi Rossano compone uno spazio in cui incontri casuali e diacronici danno avvio a relazioni con le visitatrici, i visitatori e la storia, e in tali movimenti e trasformazioni l’io, la memoria e i corpi ne risultano espansi e continuamente rinnovati”. E chi non vorrebbe una tale mutazione? Ma come accorgersene ?
Passiamo alla danza e al cinema con i due ultimi artisti della nostra rassegna, e della mostra, rispettivamente Rizzo e Zapruder. Michele Rizzo coreografo e danzatore “ha arricchito la sua formazione con il linguaggio scultoreo che, come la danza, gli consente di esplorare le relazioni tra materialità e movimento”.
La scheda su Rizzo sottolinea il rapporto biunivoco tra la danza che diviene scultura e la scultura che acquisisce il movimento, ma non è qualcosa di automatico bensì il risultato delle sue ricerche e dell’aver portato la danza negli spazi espositivi: “Attraverso l’uso del corpo, l’artista permette alla danza di assumere una posizione scultorea e alla scultura di poter abitare il movimento”.
Ne sono testimonianza le “performance” degli ultimi anni, come “High xtn “ 2018 in cui “la ripetizione ossessiva dei gesti induce i raver a uno stato di trance che permette loro di essere contemporaneamente corpo collettivo e individuale, vere e proprie forme-sculture in movimento”.
In questa Quadriennale ciò è reso plasticamente da Rizzo nella “performance” ”Rest” 2020, 4 sculture viventi con corpi adagiati su portantine deposte nella sala “a formare un’installazione immersa in un paesaggio di luci e suoni”, coreografia che “riecheggia la ritualità delle processioni religiose del sud Italia”: tutto ciò nello spazio museale che è il “tempio dell’arte”, e viene evocato anche il Mare Mediterraneo, “simbolo di infinito e di vita, ma anche terminus di migliaia di vite in cerca di speranza”.
Oltre all’accenno alle migrazioni, vengono citate “le rivolte sociali (unrest) che hanno infiammato diverse città a sostegno delle proteste del movimento Black Lives Matter”, come “risveglio da un’età dell’innocenza a favore di una presa di coscienza”: l’immancabile corredo ideologico di tante opere in mostra. A parte ciò, con “Rest” Rizzo evoca il riposo dopo la danza, mentre da parte nostra possiamo vederci anche un riferimento di attualità alla immobilità forzata conseguente al “lockdown”, l’opposto del movimento vitale che può essere visto in quest’altra chiave: “Un momento di ricongiungimento con sé stessi, attraverso cui rielaborare la propria relazione con ciò che è prossimo”. Senza dubbio un utile richiamo alla meditazione che può aiutare in un periodo come questo, di ansie e incertezze.
Con Zapruder Filmmakersgroup si conclude la galleria espositiva, e non a caso, è l’ultimo in ordine alfabetico e costituisce un collettivo cinematografico italiano con 20 anni di vita e tre componenti, impegnato in ricerche sul teatro con la già citata Romeo Castellucci Socìetas, “contribuendo a definire un territorio di incontro tra arti performative, figurative e cinematografiche” mediante “elementi installativi che esulano dallo schermo di proiezione”; è un “cinema espanso, con sperimentazioni anche nel campo della stereoscopia”, un “cinema da camera” ispirato ai cinema delle fiere di paese, nell’accostamento operato dalla scheda.
Viene presentato per la prima volta completo “Zeus Machine” 2019, dopo “Salita all’Olimpo” 2016 che è un box dorato nel quale si può entrare per la visione di un film girato nel Festival dei teatri, per una esperienza “fortemente immersiva”. “L’invincibile” è un video con “dodici reperti archeologici estratti dal presente”, la video narrazione “radica l’esperienza della fatica di Ercole nel contemporaneo”, ma non con le immagini della mitologia classica, bensì con quelle dei film “peplum”, i famigerati banali colossal.
“La riflessione sul mito, inteso come tentativo di rappresentare l’irrappresentabile, e la mitologia, nell’accezione di strumento di riproduzione e sopravvivenza del mito (o anche ‘macchina mitologica’..) è centrale in questo lavoro”. E si svolge incarnando l’eroe mitico nei soggetti della realtà quotidiana, per di più alle prese con situazioni contemporanee dissacranti in cui ci si scontra con la modernità. Ma in questo modo non esorcizza, bensì “restituisce in pieno la natura del mito, colto nella sua narrazione mutevole e circolare, facendo fare allo spettatore esperienza della ‘macchina mitologica’, in grado di riprodursi infinitamente insieme con le gesta degli eroi che la incarnano”.
E’ una “narrazione mutevole e circolare” anche quella fatta fin qui, e il nostro spettatore ha potuto conoscere la “macchina artistica” della Quadriennale, connaturata ai suoi eroi: gli espositori selezionati appunto dalla “macchina “ suddetta. Ci ha sorpreso la scelta di tanti temi orientati ideologicamente, e in una sola direzione, per questo ci sembra si sia rinunciato di fatto a dare un panorama a 360 gradi dell’arte contemporanea anche nella rivisitazione del passato, a meno che i temi declinati siano gli unici frequentati dagli artisti di oggi e di ieri, cosa di cui ci permettiamo di dubitare.
La “macchina artistica” della Quadriennale ha fornito anche le interpretazioni e le motivazioni delle singole opere e dei loro autori, da noi riportate traendole, lo ripetiamo, dalle introduzioni dei due curatori, Sarah Cosulich e Stefano Collicelli Cagol, e dalle esaurienti schede illustrative cui abbiamo attinto.
Lo abbiamo fatto, ribadiamo anche questo, per l’umiltà del cronista che non è critico d’arte, quindi non ha il “sacerdozio” per interpretare l’arte contemporanea, o almeno certa arte contemporanea, e quella della Quadriennale d’Arte in particolare. Diciamo questo a ragion veduta: a parte ogni nostra personale considerazione che non conterebbe, c’è un settore molto ampio degli appassionati dell’arte che andrebbe opportunamente rassicurato per non perderlo. Perciò parleremo prossimamente, a conclusione del nostro “viaggio”, della difficile comprensibilità dell’arte contemporanea e delle sue motivazioni e implicazioni.
Info
Palazzo delle Esposizioni, Via Nazionale 194, Roma. Da lunedì a venerdì ore 11-20, sabato e domenica chiuso, ingresso gratuito per il contributo del “main partner” Gucci, si entra fino a un’ora dalla chiusura con prenotazione e misure di contenimento e protezione per la pandemia. www.palazzoesposizioni.it tel. 06.39967500, www.quadriennalediroma.org tel. 06.97743311. Catalogo “FUORI Fuori Fuori Fuori Fuori”, Treccani, pp. 680, formato 16,5 x 24, bilingue; dal Catalogo sono tratte le numerose citazioni del testo. Del nostro servizio sulla mostra in 5 articoli, i primi 3 articoli sono usciti in questo sito il 1°, 2, 3 marzo, l’ultimo uscirà domani 5 marzo 2021. Cfr. i nostri articoli: in questo sito, sulla mostra: per la presentazione dell’attuale 17^ Edizione 20 luglio, 13 marzo 2020; per la 16^ Edizione del 2016, 21, 22, 23, 24, 25 luglio 2020, già pubblicati nel sito web www.arteculturaoggi.com il 16 giugno, 24 e 27 ottobre, 1° e 29 novembre 2016.
Photo
Le immagini delle singole opere dei 43 artisti espositori, come le panoramiche delle sale espositive – queste ultime inserite nel 1° e 5° nostro articolo sulla mostra – sono state fornite dall’Ufficio stampa della mostra, ringraziamo Maria Bonmassar per la cortesia manifestata fornendo anche il prezioso Catalogo; alterttante immagini delle opere illustrano il 2° e 3° articolo, anch’essi dedicati alla galleria dei 43 artisti. Sempre sono state inserite immagini di 2 opere per ogni artista, tutte “courtesy l’artista” e in taluni casi anche “courtesy Collezione” o “courtesy Galleria”; a loro, e a tutti i titolari dei diritti, il nostro più vivo ringraziamento. Anche per illustrare ogni artista con 2 opere, in aggiunta alle immagini fornite dall’Ufficio stampa ne sono state inserite altre tratte dal Catalogo, in questo articolo le n. 7, 10, 11, 14, 15, 17, 20, 21, 23, 26; quindi, si ringrazia anche l’Editore con i titolari dei diritti. Sono tutte inserite nell’ordine di citazione nel testo, con l’avvertenza che le 2 opere di Salvo, di Francesco Gennari e di Anna Franceschini, con cui iniziano le illustrazioni, sono commentate alla fine del 3° articolo. In apertura, Salvo, “Case con lampione” 1986, e “Il passaggio del numero 1” 2014; seguono Francesco Gennari, “Tre colori per presentarmi al mondo, la mattina” 2013, e “Autoritratto su menta (con camicia bianca)” 2020; poi, Anna Franceschini, “Villa Straylight” 2019, # 1 e 2, due installazioni; quindi, Tomaso De Luca, “Salopp Gesagt Schlapp” 2014, e“Die Schlüssel des Schlosses” 2020; inoltre, Davide Stucchi, “Traslocando (Shy Neon)” , e “Socket (Corridor)” 2019; ancora, Caterina De Nicola, “Moxette’s Crazy, Stupid Love”, e “Degrought Depletion” , 2020; continua, Guglielmo Castelli, “Compiuta figura“, e “All You Can Eat”, 2020; poi, Benni Bosetto, “Jewels” 2019 e “Senza titolo (Il giornalista)” 2020; seguono, Valerio Nicolai, “Coglione” 2017, e “Capitan Fragolone” 2020; poi, Giuseppe Gabellone, “Falsa Finestra” 2020, # 1 e # 2 intera, interno e dettaglio; quindi, Luisa Lambri, “ Untitled (Schlindler House # 01)” 2007, e Untitled (The Met Breuer” # 05″)” 2016; inoltre, Raffaela Naldi Rossano, “Noi siamo le nipoti delle streghe che non siete riusciti a bruciare“, e “A Liquid Confession” 2019; ancora, Michele Rizzo, “Rest” 2020, # 1 e # 2 dettagli; in chiusura, Zapruder Filmmakersgroup,“Zeus Machine. L’invincibile” 2019, # 1 e # 2 fotogrammi video .
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