di Romano Maria Levante
Nel 31° anniversario della scomparsa di Bruno Bartolomei, “Brunitt” per i paesani, avvenuta il 21 maggio 1990, ripubblichiamo il nostro ricordo di allora, uscito su “Mondo Edile” – trimestrale della Cassa Edile della Provincia di Teramo, n. 11, luglio-settembre 1990, direttore Giuseppe Di Maira – con il titolo “Storia di Brunitt, caduto sul lavoro”. Lo sgomento che provammo per il caro paesano si è ripetuto alla recente scomparsa di Luana, ugualmente vittima di ingranaggi mortali. Come in “Exodus” immaginiamo le due vittime di un destino ingiusto e spietato idealmente affiancate, e vogliamo ricordare Brunitt e Luana come martiri del lavoro accomunati dal loro eroismo. Al paese dove è nato e ha perso la vita, Pietracamela alla falde del Gran Sasso, gli è stato dedicato il “Largo Bruno Bartolomei”, uno spettacolare belvedere aperto sui luoghi a lui tanto cari.
Storia di Brunitt, caduto sul lavoro
Non potevi scrivere questa storia a Roma, lontano dai “suoi” luoghi e per di più sui tasti di un computer. Qui invece puoi, con questa vecchia Everest, il cui nome indica la vetta più alta, sì quella che Brunitt ha certamente raggiunto. Non solo puoi ma devi. Del resto tu, e tutti quelli come te, sono forse quelli che di più possono comprenderlo. Lui così esposto su una frontiera così critica, così inerme, così indifeso. Il distacco di persona semplice e saggia non gli è bastato. Lo aveva preservato dalle tante crisi nella sua vita di frontiera. Questa volta l’agguato gli è stato teso da una macchina, nel momento in cui aveva allentato le difese per aiutare un compagno in pericolo. La sua storia, dunque, che dai “suoi” Prati di Tivo si può leggere con chiarezza. In alcuni momenti rivelatori.
Il momento dell’arte. Nel gruppo del ‘Pastore Bianco” animato dall’artista indimenticabile Guido Montauti, tra i pittori “professionisti” vi è anche lui, Bruno Bartolomei. Lo troviamo alla grande mostra a Roma, con i suoi “guardamacchie”: gambali di pelle di pecora, quasi un marchio di garanzia, un sigillo “doc” per il manifesto trasgressivo e provocatorio del pittore Montauti. Soltanto questo, dunque? Anche questo, certamente, e non è poco. Un pastore “professionista” tra pittori “professionisti” che vogliono mantenere, e gridarlo, quel rapporto con la realtà, la natura, e qui la montagna ed i suoi cicli immutabili, che l’arte stava perdendo inseguendo avanguardie impazzite. Ma non è soltanto un richiamo di “colore”. E comunque non vuole esserlo. Vuole dare di più. Esprimere quello che non è “scritto” soltanto sui suoi “guardamacchie”; ma che lui sa di avere dentro di sé, e di sapere anche “leggere” da solo, e quindi esprimere. Per gli altri.
Così Brunitt diventa pittore. Sì, possiamo dirlo, pittore “professionista”. Perché espone i suoi quadri in mostre, piccole e modeste, ma vere. Come veri sono i suoi paesaggi. Come lui li vede, li legge dentro di sé. Senza pretese di “naive”, perché non è un bambino e con la sua sincerità non esprime un’infanzia lontana, ma un presente maturo, pur se ingenuo e semplice. Li ricordiamo i suoi quadri “adulti” e per ciò veri. La sua gioia genuina nel sapere che eravamo andati a vederli. Ma intanto Brunitt vive un passaggio traumatico. Solo con la sua pittura, dopo la lontana ubriacatura del “gruppo della rinascenza”. Solo con se stesso. Fiducioso però nella sua “natura” che non lo ha mai tradito.
Il momento del lavoro. Anche qui il passaggio traumatico, anzi i diversi passaggi che dovevano avvicinarlo al tragico appuntamento. Dalle interminabili giornate con le “sue” pecore, nei “suoi” prati, sotto i “suoi” monti, scandite dai ritmi secolari, ad altre interminabili giornate: c’erano sempre i “suoi” prati, i “suoi” monti, ma invece delle “sue” pecore, gli sciatori al culmine dello sky-lift più alto. No, non li poteva definire i “suoi” sciatori, anche se era su, nella postazione più fredda ed esposta, per dare ad essi una mano e una sicurezza. Ma il resto del “suo” mondo c’era tutto. E non lo tradiva. Neppure quando lo “dimenticarono” lassù, in cima al “Pilone”, sottraendogli, per una disattenzione, gli sci con i quali scendeva a valle al termine della giornata. Era nei “suoi” prati, nella “sua” montagna. E soltanto lui poteva trascorrere all’addiaccio una gelida notte d’inverno protetto solo dall’abbraccio della natura. Che con Brunitt non poteva essere inclemente. Ma era una premonizione. L’intrusione della tecnologia nella sua vita semplice e naturale reclamava dei prezzi. Ma come prevedere che sarebbero stati così alti? Non lo furono quelli del lavoro con le bombole del gas. Le portava in spalla come fossero fascine. Regolava la fiamma come attizzava il camino. Il gas non poteva tradirlo. Come lo sky-lift che in fondo portava nei “suoi” prati, sulla “sua” montagna, le nuove “pecore” del turismo di massa.
Ferrocemento, un nome che riunisce i due grandi nemici della natura. Ma con i quali Brunitt, come tutti quassù, aveva sempre convissuto. Collepiano ormai da una vita fa parte della natura. E Collepiano, con le sue gallerie, i suoi “pozzi”, è fatto di ferro cemento. Una modernità amica, dunque. Come le bombole che sembrano fascine, come gli sciatori che sembrano pecore. Brunit resta se stesso. Non ha più tanto tempo per dipingere. Forse neppure per pensare. La sua vita si muove su un binario, come quelli che percorre la “macchina”, la talpa che scava nella “sua” Collepiano. Forse ha ritrovato i suoi ritmi, le sue fantasie. Forse gli mancano le sue cose. Forse… Vi può essere tutto e il contrario di tutto nei sogni di Brunitt, adesso. Nessuno può saperlo. Tanto meno noi, “naturali” che tornano e poi ripartono. Che vivono gli stessi traumi dello sradicamento forse alla rovescia, in una precarietà di vita, nell’assenza di sogni che “dona” la città, con le sue povere certezze. Povere come le certezze di Brunitt quando è stato stretto dal ferrocemento.
Il momento della verità. Chissà come ha vissuto l’abbraccio della morte. Anche questo nessuno può saperlo. Perché la sua generosità gli ha fatto superare la frontiera. Lo ha fatto cadere nell’agguato della macchina, che non somiglia più a nessuna delle “sue” cose. Come non fosse nella “sua” Collepiano ma nel deserto tecnologico della “silicon valley”. Non possiamo saperlo ma vogliamo immaginarlo. Come Charlie Chaplin dei “Tempi moderni” lo vediamo inghiottito dalla macchina, percorrerne i terribili meandri. Ma per essere restituito al di là, intatto in tutto il suo essere e nella sua innocenza, su una vetta tanto, tanto più alta del “suo” Gran Sasso.
Dopo quello pure commentato da me “I dibattiti sulla Fede, una conclusione” ritengo di salutare anche la ripubblicazione di questo di “Storia di Brunitt, caduto sul lavoro” per quanto appreso della sua storia.
Una vita vissuta con amore per sua moglie Laura, accomunati dal loro eroismo, per la pittura e per le pecore.
Una storia bella e crudele, il meritare il grazie della comunità in cui sono vissuti e da tutti quelli che ne verranno a conoscenza, come me.
Un rispetto da riconoscere pure a tutte le vittime sul lavoro che continuano a verificarsi, senza provvedimenti seri tendenti a ridurli, ad evitarli.
Tre belle foto attinenti, la prima con Bruno ritratto all’interno di una cornice, tenuta con le mani, a significare il suo essere pittore e, le altre tre, insieme ai suoi cavalli, un buon esempio di vita vera.
La sensibilità di Francesco si manifesta ancora una volta dinanzi alla storia di Brunitt, che definisce icasticamente “bella e crudele”, usando l’altro appropriato accostamento di “una vita vissuta …per la pittura e per le pecore”. Una storia bella per i valori che racchiude, crudele per il tragico epilogo, l’accostamento tra “la pittura e le pecore”, come in un quadro di Segantini, evoca i motivi compresenti nella sua vita tra i pascoli e i dipinti, anche sulle rocce con il “Quarto stato montanaro” del “Pastore bianco”. Pastore nella vita, pastore anche nell’arte, finchè i “Tempi moderni” lo hanno portato via. Onore alla sua memoria e ai tanti martiri del lavoro, qual è Luana ghermita 20 giorni fa come Brunitt 31 anni fa da un macchinario impazzito; e onore ai martiri del progresso, come le 14 vittime della funivia del Montorone, intere famiglie strappate alla vita due giorni fa da un altro macchinario impazzito. Dopo decenni si ripetono le tragedie, sul lavoro e sugli impianti, è ora di dire basta! Occorre raddoppiare i congegni di sicurezza – come il Padreterno ha raddoppiato i nostri organi – e poi controlli, controlli, controlli molto più severi; non si può morire così mentre si lavora o mentre si fa un’escursione, non si tratta di fatalità nè di imponderabile errore umano ma di colpevole mancanza di sicurezza. Ha fatto bene Francesco a ricordarlo nel suo commosso commento.
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