La Perdonanza a L’Aquila, ieri e oggi, un evento carico di valori nel segno del perdono

di Romano Maria Levante

L’”oggi” della Perdonanza è la grande manifestazione religiosa di larga presa popolare del 29 e 30 agosto 2021 che vince anche la pandemia del  Coronavirus, a stare alle numerose iniziative che fanno corona alla 727esima  edizione  del rito solenne con cui si celebra ogni anno la  “Bolla del Perdono” che papa Celestino V emise il 24 settembre 1294,  tre mesi prima di dimettersi  dall’alto soglio pontifico cui il Conclave  aveva portato in modo del tutto inatteso lui, noto come Pietro da Morrone. Ne abbiamo raccontato la storia nel “ieri” – il nostro resoconto del 2009 che riportiamo di seguito – ma vale la pena di tornarci con l’indignazione che si fa un imperdonabile torto a papa Celestino V se si dimentica il gravissimo comportamento del successore, un certo… Bonifacio VIII.

Fu eletto papa eccezionalmente un semplice monaco, e non  un porporato,  per l’inconcludenza del Conclave aperto a Perugia – scelta dopo dissidi se tenerlo a Roma o a Rieti – alla morte  di papa Niccolò IV il 4 aprile 1292 con soli 12 cardinali, ridotti ad 11 per la morte di uno di loro nella peste che fece sospendere il Conclave, e anche alla ripresa era inconcludente. Fino a quando addirittura irruppe nella sala dove era riunito il Sacro Collegio, con il figlio Carlo Martello, il re di Napoli Carlo d’Angiò che attendeva con impazienza il nuovo papa per vedersi avallato il Trattato in discussione con gli Aragonesi dopo che con i “vespri siciliani”  dell’11 marzo 1282 la situazione  andava stabilizzata. Fu respinta subito la sua ingerenza, però c’era stata….

Ora il gesto pur inammissibile del sovrano rendeva più urgente, anzi indifferibile,  l’elezione ma restava insanabile il contrasto tra i sostenitori e i contrari ai Colonna. L’eremita Pietro Angelerio – detto Piero da Morrone dal monte sopra Sulmona in cui si era ritirato – interpretando il malcontento popolare profetizzò “gravi castighi” se la paralisi del Conclave fosse proseguita: allora si pensò di eleggere lui,  il monaco eremita.

L’influente cardinale Benedetto Caetani appoggiò tale soluzione, lui e la Curia pensavano che lo avrebbero manovrato come volevano data  la  totale estraneità di un eremita ai gravi problemi del governo della Chiesa. Fu eletto il 5 luglio, l’annuncio gli fu dato da tre ecclesistici che nell’agosto andarono a incontrarlo nel suo eremo, trovarono “un uomo vecchio, attonito ed esitante per così grande novità”, con “una rozza tonaca”, ma lui dopo una resistenza iniziale finì per accettare.

Fu incoronato il 28 agosto 1294 nella basilica di Santa Maria di Collemaggio all’Aquila, e non si rivelò manovrabile anche perchè Carlo d’Angiò lo prese sotto la sua protezione, anche se interessata, e lui avallò subito il Trattato siciliano, lo nominò “maresciallo del Conclave” e seguì il suo consiglio di spostare la Curia a Napoli, al Castel Nuovo, con una piccola stanza per lui, dove si ritirava a meditare. Oltre alla Bolla del Perdono e al Giubileo con l’indulgenza plenaria aquilana, nominò 13 nuovi cardinali.

Ne seguì l’isolamento che, con i… consigli interessati di Benedetto Caetani, lo portò alle dimissioni il 13 dicembre 1294 motivandole  con “l’umiltà e la debolezza del mio corpo e la malignità della Plebe [di questa città], al fine di recuperare, con la consolazione della vita di prima, la tranquillità perduta…” .

Chissà se il cardinale Caetani, che sembra fosse decisivo nello spingerlo al gesto e di certo nel considerare ammissibili le dimissioni, non abbia pensato di poterne essere il successore – non potendolo manovrare mentre si preparava alla successione, come aveva sperato – come poi avvenne realmente? Lo elessero in un Conclave di soli 10 giorni col nome di Bonifacio VIII, fu incoronato a Roma.  Da qui forse nasce l’ingenerosa invettiva dantesca contro Celestino V, messo tra gli ignavi nell’Antinferno  come “colui che fece per viltade il gran rifiuto”, mentre non fu viltà ma coscienza dei propri limiti dopo aver voluto provare accettando la nomina e prendendo alcune  decisioni importanti.

Così torniamo alla “Bolla del Perdono” con la quale Celestino V istituì il primo vero Giubileo nella storia della Chiesa con indulgenza plenaria a tutti coloro che entrano in grazia di Dio nella basilica aquilana. Bonifacio VIII, che cancellò tutti i provvedimenti di Celestino,   non si sentì di annullarla, e sei anni dopo, nel 1300, fece un proprio Giubileo. Se rispettò questa sua pronuncia, non rispettò la sua persona, per usare un eufemismo, non permettendo che tornasse all’eremo – ritorno che era stato il motivo delle dimissioni – facendolo arrestare dopo che, accortosi che si tramava contro di lui, cercava di fuggire ma fu preso il 16 maggio 1295 e imprigionato nella rocca di Fumone, in un castello del papa suo successore in provincia di Frosinone, e questo per il timore che i francesi ne potessero fare un “antipapa” facendogli poi riprendere il seggio pontificio. Non riuscì a sopportare un carcere duro con ante vessazioni e sofferenze, aveva più di ottant’anni e gli fu fatale.

Sopraggiunse  la morte un anno dopo, il 18 maggio 1296, dopo uno sferzante vaticinio: “Otterrai il papato come una volpe, regnerai come un leone, morirai come un cane”. Dante aveva ragione, Bonifacio VIII aveva meritato il fuoco eterno ma forse più per questo crimine che per le malversazioni sulle indulgenze per le quali, pur in vita, è atteso all’Inferno tra i simoniaci, o per le colpe politiche di cui si parla nel Purgatorio e per quelle religiose che gli imputa San Pietro nel Paradiso. Se Dante si fosse soffermato sulle circostanze del “gran rifiuto” di Celestino V forse le avrebbe riferite ai vili maneggi sin da allora del futuro Bonifacio VIII e non a una sua presunta “viltade”.

Rispetto a tutto questo, un’attenzione speciale andrebbe dedicata alle circostanze della morte del papa-eremita, e alla sua prigionia che fa pensare a quella di Tommaso Campanella, dalla “Città del Sole” alla fetida cella; per lui dall’eremo luminoso nei monti così amati al carcere nel buio della cupa torre. Invece è sceso l’oblio, ma forse è meglio così, l’indignazione sarebbe troppa e non farebbe onorare a dovere la “Bolla del perdono”. E’ venerato come san Pietro Celestino, canonizzato sin dal 5 maggio 1313, si celebra il 19 maggio nel giorno della morte, è patrono di Isernia terra natale, e compatrono dell’Aquila e di Ferentino, di Urbino e del Molise.

La  preparazione spirituale alla giornata dell’indulgenza plenaria avviene con  riti religiosi distinti per dare la  Perdonanza alle diverse categorie: giovani,  lavoratori, religiosi, forze armate, famiglie, malati, confraternite con la veglia dei giovani nella notte che segue l’apertura della Porta Santa.  La Perdonanza è imperniata sul valore del perdono, e forse per questo di Bonifacio VIII non si parla come si dovrebbe, ma come si può perdonare una tale infamia pepetrata da un successore di San Pietro che resta un marchio indelebile anche dopo sette secoli? La celebrazione religiosa si traduce in una festa popolare, all’insegna della perfetta letizia: meditazione e ricreazione.

Quest’anno il direttore artistico della parte musicale è stato il maestro Leonardo De Amicis, noto volto televisivo, nel Teatro del Perdono, davanti alla Basilica di Collemaggio si è avuto  il concerto di Gigi D’Alessio con Arisa e Clementino, mobilitati pure Roby Facchinetti e Irene Grandi, Orietta Berti e Renato Zero, Max Pezzali e Michele Zangrillo, Riccardo Cocciante e Simone Cristicchi con la sua canzone ispirata al 33° Canto del Paradiso: il canto con la musica è l’espressione più intensa dopo la preghiera. Oltre a questi spettacoli musicali, e altri con l’Orchesta Casella dell’Aquila, mostre di arte contemporanea, di pittura e di fotografia, nonché di arte sacra, con i simboli rituali della processione del venerdì santo; appuntamenti culturali – L’Aquila nella cultura ha le sue radici – tra cui il Premio Rotary-Perdonanza 2921 al presidente onorario dell’Accademia della Crusca Francesco Sabatini, e la presentazione della lavorazione del merletto aquilano.

Il “clou” è il corteo in costume nel giorno dell’apertura della Porta Santa alla quale è dedicato,  è stato condizionato dal rischio Covid per cui i  250 figuranti  non sono sfilati ma si sono disposti distanziati ai lati di viale Collemaggio,  ma un piccolo  corteo mobile c’è stato,  quello rituale con le autorità civili (sindaco Biondi dell’Aquila, presidente del Consiglio comunale e della Provincia,  rappresentante del Governo e Prefetto) e soprattutto con tre personaggi tradizionali, impersonati rispettivamente da Marianna Capulli, Federico Santilli e Marina Ciccone:  la Dama della Bolla che ha portato l’astuccio dove da secoli è tenuta la Bolla del Perdono di Celestino V per essere esposta nella giornata di apertura della Basilica per il Giubileo,  il Giovin Signore che ha recato il bastone di ulivo con cui il Cardinale Enrico Feroci ha picchiato sulla Porta Santa per farla aprire e dare avvio all’indulgenza celestiniana, che libera delle conseguenze che restano dei peccati anche se confessati, e la Dama della Croce che ha portato la croce del perdono indossata poi dal cardinale nell’apertura della Porta Santa,  opera dell’artista dell’Aquila Laura Caliendo. L’araldo cittadino ha portato il gonfalone storico dell’Aquila e il sindaco ha letto la Bolla del Perdono all’arrivo all’interno della Basilica di Collemaggio dove è stata celebrata la Santa Messa Stazionale prima dell’apertura la sera del 29 agosto della Porta Santa, che viene chiusa il 30 agosto dopo 24 ore di afflusso di fedeli per ricevere l’indulgenza plenaria.

Questo l’”oggi” della Perdonanza, nel “ieri” spicca la celebrazione nel pieno di un’altra emergenza, quella del terremoto  che il 6 aprile 2009 arrecò una ferita profonda, ancora lungi dall’essere del tutto rimarginata, alla città dell’Aquila.  Allora non ci fu nessuna manifestazione di contorno dell’apertura della Porta Santa dopo la rituale Santa Messa Stazionale di preparazione all’apertura nella Basilica di Santa Maria di Collemaggio con l’abside scoperchiato per il crollo della copertura, seguimmo la messa  dall’esterno nello spazio antistante traformato in una platea per i fedeli, e poi sfilammo all’interno nel gesto propiziatorio dell’indulgenza.

Nel 2009 c’eravamo, quest’anno non ci è stato possibile per un’emergenza personale, perciò riportiamo la cronaca di 12 anni fa per dare  un’idea di massima della della celebrazione “come eravamo”. E’ il nostro “ieri e oggi” dedicato a un rito così antico e coinvolgente, incluso dal 2019 dall’Unesco nel Patrimonio dell’Umanità.

Perdonanza 2009, un pellegrinaggio per ricordare e riflettere

di

Romano Maria Levante

– 3 settembre 2009  Postato in: Cultura tradizionale, Culturalia, Storia

L’idea del simbolo della rinascita dopo un viaggio tra miserie e nobiltà dell’essere umano

Non è un “executive summary”, tutt’altro, ci accingiamo a fare un reportage molto particolare, di un pellegrinaggio celestiniano dal quale sono nate riflessioni che riportano in primo piano la figura del grande monaco eremita; e ci hanno fatto pensare al potere salvifico dell’arte. Però l’esigenza profonda, e l’idea che ne è scaturita, dobbiamo esprimerle subito, in apertura; poi se ne vedrà la maturazione nel corso del servizio, fino alla conclusione che ne esplicita ulteriormente il significato.

L’esigenza profonda è di manifestare la volontà di rinascita in termini che riportino all’innocenza primigenia, in modo da volare sopra tutto quanto è avvenuto e ricominciare; l’idea conseguente è che con l’arte si può creare la raffigurazione simbolica di questo ritrovare slancio e innocenza.

E allora un’immagine ci prende all’improvviso, la scultura che rappresentò l’Italia all’Expo’ di Siviglia del 1992, una grande aquila cavalcata da un bimbo felice. La sua forza evocativa ci sembra prorompente, non si perde nei tempi lontani della classicità e non è neppure frutto di correnti artistiche contemporanee. E’ il colpo di genio di un’artista popolare che ha dimostrato cosa sia trovare in sé la forza per sconfiggere il tempo e rinascere in una nuova vita che dalla precedente ricava forza e stimoli e non ripiegamenti sofferti. Non solo, ma è un “pezzo unico” di una produzione scultorea ispirata alla bellezza che con quest’opera ha realizzato qualcosa di superiore, quasi volesse dare alle altre sculture una guida e un’ispirazione suprema.

Il titolo è “Vivere insieme”, opera di Gina Lollobrigida, in una delle sue tante vite di artista: per quest’opera e per le sue doti artistiche il presidente della Repubblica francese Francois Mitterand la insignì della Legion d’onore e la definì “artista di valore”.

La proponiamo quale simbolo e sigillo di questa rinascita nell’innocenza primigenia e nella voglia di crescere: un simbolo forte, alto e nobile del nuovo inizio nella bellezza e nella speranza.

Il nuovo “gran rifiuto” celestiniano”

Un altro “gran rifiuto” celestiniano, a più di 700 anni dal primo e più grande, ha segnato l’inizio del nostro pellegrinaggio ideale. Perché non si può certo paragonare la rinuncia al soglio pontificio con la rinuncia a partecipare a un rito, sia pure così altamente simbolico in un momento come questo per L’Aquila, qual è la “Perdonanza”. Questo rifiuto però, proprio per il momento, le circostanze e il modo in cui si è verificato ha toccato la gente, ha fatto rivivere ancora di più vicende lontanissime nel tempo. Che non furono edificanti, come non lo sono state quelle attuali. E non dalla parte di chi ha fatto il rifiuto, ma di chi lo ha portato a ciò con atteggiamenti discutibili degni di miglior causa.

Nessuna “viltade” ci fu allora, nessuna oggi, piuttosto vicende di spessore incommensurabilmente diverso come lo è il rifiuto, e soprattutto incommensurabilmente diverse per le conseguenze. Ma la storia la prima volta si manifesta in tragedia, la seconda si ripete in farsa. Così è stato per la “sostituzione”: non per la figura istituzionale e personale del sostituto, autorevole e rispettabile oltre ogni dire, oltre che pienamente legittimata a presenziare in proprio, per la sua opera fattiva e la sua “abruzzesità”; ma perché lo si è svilito a controfigura di chi era tanto atteso e non poteva mancare.

Doveva esserci non solo per il ruolo istituzionale, e non è chi non veda come un Presidente del Consiglio abbia un rango diverso dal proprio sottosegretario, sempre in termini di cerimoniale, e questo conta se la mettiamo sul piano formale.

Se consideriamo invece la sostanza dei fatti pensiamo che il più meritevole di partecipare in prima fila all’abbraccio popolare cittadino a quasi cinque mesi dalla tragedia del sisma fosse chi immediatamente ha capito la gravità e l’importanza di essere presente con una assiduità mai verificatasi finora nei purtroppo ripetuti fenomeni tellurici, dal Friuli all’Irpinia, per non parlare del Belice e di altri luoghi dove ancora attendono; ricordiamo tutti il pronto annullamento del viaggio a Mosca e degli impegni seguenti, la mobilitazione personale, lo spostamento del G8 a L’Aquila per porla al centro del mondo, mossa coraggiosa ai limiti dell’azzardo, i continui viaggi nel capoluogo abruzzese per coordinare, stimolare, controllare che i lavori per la ricostruzione procedano spediti, il rapido avvio di alloggi non proprio di fortuna.

Diciamo questo senza alcun riferimento né allusione politica, i fatti non hanno colore ma lasciano il segno, e non si può ignorare che ci siano stati e il segno sia rimasto. Nel vedere i quartieri che stanno sorgendo a Bazzano, a Coppito, a Castelnuovo è impossibile non attribuirne il merito non politico ma operativo a chi certe cose le sa fare per averle fatte, con altre modalità ma con la stessa carica innovativa. Qui l’innovazione è che non si tratta di “container” ma di palazzine a tre piani, almeno cinque appartamenti a piano, collocate su piattaforme in cemento armato che possono scorrere per assorbire eventuali onde sismiche in stantuffi posti su pilastri che sembrano grosse palafitte.

E non è un volo pindarico parlare di “onda sismica”. Un gentile capitano della locale Polizia provinciale, nel mostrarci la distruzione del piccolo centro storico di Roio, ci ha detto di aver visto l’onda sismica mentre stava all’aperto; sembrava che le case fossero sollevate da un’onda terrestre che poi le ha riportate a terra con sconquasso, un’immagine che ci ha ricordato il disegno di de Chirico “Termopili” del 1937, con un palazzo su un’onda marina. Il genio civile dovrà rivedere i suoi criteri, ci ha detto, i tetti in cemento armato sopra le vecchie murature sono stati deleteri, eppure questo era finora lo standard antisismico adottato in queste zone e non solo.

Sopra tale basamento, le pareti in legno o altro materiale con analoghe caratteristiche antisismiche come ferro e prefabbricato infrangibile, case quindi sicure e indistruttibili. Le abbiamo viste nei tre grandi cantieri, in uno abbiamo contato una ventina di palazzine, con ridenti finestre di diverso colore, sono quasi terminate. Una goccia nel mare? Certo, ma una goccia che si vede; e si sente, lo sentiranno in positivo le famiglie che ci abiteranno e poi, almeno a Coppito, gli universitari che vi risiederanno nel nuovo “campus” previsto nella zona. Un rimedio provvisorio per gli “sfollati” che si tradurrà in un apporto prezioso alla comunità locale quando le loro abitazioni saranno ripristinate.

Dopo aver visto tutto questo, il “gran rifiuto” del 2009 appare ancora più inspiegabile logicamente, mentre lo diventa entrando nella logica della rinuncia celestiniana originata da sottili maneggi.

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La storia di Celestino V tra i maneggi e gli intrighi di ieri

La rinuncia di Celestino V non fu tanto o solo conseguenza di un ripensamento personale quanto di un’intricata situazione più politica che religiosa tutta all’interno della Chiesa di allora e del Collegio cardinalizio, composto da pochi ma potenti prelati, in numero di dodici, tra i quali il decano Latino Malabranca e Benedetto Caetani di una famiglia laziale molto influente. Vale la pena di rievocarla per sommi capi, perché ci sembra molto istruttiva oltre che edificante per il santo eremita.

Morto papa Niccolò IV il 4 aprile 1292, il Conclave non riuscì ad eleggere il successore, anche per un’epidemia di peste che uccise il cardinale francese Cholet, e dopo un anno arrivò a stento ad accordarsi sulla sede, che fu Perugia; la frattura tra i sostenitori dei Colonna e gli altri cardinali fece prolungare la Sede vacante con crescente malcontento popolare, ma non fu questo l’acceleratore bensì l’intervento di Carlo Martello a Perugia nella sala del Conclave per giungere a una nomina che avrebbe dato l’avallo pontificio all’imminente trattato in corso tra angioini e aragonesi.

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Pur protestando sdegnati per l’indebita irruzione, gli undici cardinali rimasti decisero di accelerare i tempi con una pur faticosa convergenza sul nome proposto dal decano, il monaco eremita Pietro Angeleri da Morrone, noto per la sua vita ascetica e per aver fondato un proprio ordine monastico che aveva difeso al secondo concilio di Lione dove si era recato a piedi nel 1273 lasciando l’eremo dov’era dal 1239, una grotta nel Monte Morrone sopra Sulmona, impedendone lo scioglimento. L’unanimità per una soluzione indilazionabile dopo 27 mesi di sede vacante, tra le attese della gente e delle potenti monarchie, fu raggiunta su di lui come papa di transizione, per la tarda età, quasi ottant’anni, molti a quei tempi, e per l’inesperienza che credevano consentisse di manovrarlo.

Il netto rifiuto iniziale del monaco, raggiunto nella sua grotta sui monti della Maiella da tre vescovi, si trasformò in una riluttante accettazione per dovere di obbedienza. Carlo d’Angiò in persona lo accompagnò a L’Aquila dove aveva convocato il Sacro Collegio e dove fu incoronato nella chiesa di Santa Maria di Collemaggio. Tra i primi suoi atti, oltre al trasferimento della curia a Napoli, in Castel Nuovo, dove per sé tenne una piccola semplice stanza per pregare e meditare, ci fu l’emissione della Bolla del Perdono con cui fu istituita la “Perdonanza”, il prototipo del Giubileo che fu introdotto in seguito, con indulgenza plenaria a Collemaggio; e il Concistoro del 18 settembre con la nomina di 13 nuovi cardinali, che raddoppiarono il Collegio cardinalizio, tra i quali nessun romano. E chissà che non fu questo uno dei motivi delle vicende successive!

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Ma i maneggi cardinalizi ricominciarono presto a dispiegarsi, questa volta in direzione opposta, dalle pressioni per accettare a quelle per rinunciare, il tutto nel volgere di meno di quattro mesi. Fu Caetani, laziale di Anagni, grande nemico dei Colonna, a preparare la bolla che consentiva l’abdicazione, pensando a se stesso, come aveva pensato a se stesso nel favorire l’elezione del monaco eremita in vista di una sua successione più avanti nel tempo. I tempi stringevano, il nuovo papa poteva consolidarsi con l’appoggio di Carlo D’Angiò su consiglio del quale si era trasferito a Napoli sotto la sua protezione; potevano rafforzarsi le correnti opposte a quelle allora prevalenti.

Papa Celestino V il 13 dicembre 1294 lesse la bolla che contemplava l’abdicazione per gravi motivi e subito dopo pronunciò la formula della rinuncia al Soglio Pontificio. Bastarono solo undici giorni per eleggere Benedetto Caetani, a 59 anni, che prese il nome di Bonifacio VIII. Dante lo mette all’inferno pur ancora vivente, ma non capisce che Celestino V non fece il “gran rifiuto” per “viltade”, bensì fu vittima del porporato che aggiunse la morte del frate eremita alle sue altre colpe.

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Gli eventi corrono sempre più rapidamente e in modo imprevedibile. Eletto papa, Caetani tira fuori il peggio di sé, come prima era stato astuto e forse infido consigliere ora diventa spietato aguzzino dello stesso soggetto tornato a fare il monaco eremita. Come prima cosa annulla le bolle del predecessore, salvo appropriarsi dell’idea della Perdonanza per farne il Giubileo.

Teme che i cardinali filo-francesi, sostenuti da Carlo d’Angiò, il quale aveva tentato invano di dissuadere Celestino V dal dimettersi, lo rimettessero sul seggio papale con uno scisma; perciò ordina di prenderlo sotto controllo per sottrarlo ai francesi e, dopo che lui tentò la fuga verso oriente, il 16 maggio 1295, cinque mesi dopo la rinuncia al papato, lo fa catturare dal Contestabile del Regno di Napoli e rinchiudere nella rocca di Fumone, in Ciociaria. Il regime carcerario molto severo, con vessazioni di ogni tipo – c’è il mistero di un chiodo nel cranio – tanto più che aveva oltrepassato la soglia di ottant’anni, gli fu fatale, morì nella rocca il 19 maggio 1296, dopo un anno di carcere duro.

La riabilitazione non si fece attendere troppo, la Chiesa commette anche gravi errori, ma ha la forza di riconoscerli nel tempo, spesso biblico e a volte terreno, come nel caso di Celestino V; dopo una vicenda che non fa onore ai protagonisti, anzi li condanna elevando una spanna in alto nell’empireo dei Santi questo autentico martire della Chiesa. L’artefice della completa riabilitazione che portò al riconoscimento della sua santità fu papa Clemente V, successore di Bonifacio VIII e a lui ostile, il quale canonizzò Celestino nel 1305, e per la spinta della devozione popolare, lo fece traslare dal monastero di Sant’Antonio a Fermentino alla basilica di Collemaggio, sede della sua incoronazione.

Le confuse vicende odierne

Difficile tornare alle miserie dell’attualità dopo la trista grandezza dei misfatti di ieri, ma dobbiamo farlo. Anche oggi si parla di una divisione all’interno della Chiesa in due “partiti”, che non devono eleggere il pontefice ma sono portatori di diverse politiche, e sono agguerriti “mutatis mutandis”.

Tutto questo avrebbe portato ai messaggi inequivocabili che hanno bloccato l’intento esplicitamente enunciato di partecipare. E non intendiamo dire che ci sia stato un complotto sabotatore né qualcosa di riprovevole in assoluto, ma che può diventare disdicevole nello specifico in base alle circostanze.

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Cosa si è verificato, dunque? Le notizie confuse che circolavano tra la gente in attesa dell’arrivo del corteo sul sagrato posteriore della basilica di Santa Maria di Collemaggio parlavano di incompatibilità tra lo status di divorziato e la possibilità di accedere alla Porta santa; circostanza questa che avrebbe bloccato l’intento di partecipare alla sua apertura, il clou della “Perdonanza”, all’illustre “penitente”; si crede sia tale, avendo dichiarato “non sono un santo”, come tutti del resto. Al termine, invece, notizie dirette hanno attribuito lo stop inatteso alla ritorsione delle autorità ecclesiastiche rispetto agli attacchi del giornale di famiglia al direttore del giornale dei Vescovi.

Non vogliamo crederci, ci ha sorpreso anche la cena mancata tra i due grandi protagonisti, considerata un surrogato riparatore rispetto alla partecipazione diretta; meglio che non ci sia stata un’inaccettabile pezza diplomatica ad uno strappo che ha impedito un atto di partecipazione personale con una forte spiritualità; alla “Perdonanza” si partecipa per autentiche, intime motivazioni che attengono al profilo interiore di ciascuno e alla sua sincera immedesimazione.

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Perché la figura di Perdonanza 2009, un pellegrinaggio per ricordare e riflettere non per propria scelta, ma per maneggi e intrighi, e per questi rimosso, poi arrestato, incarcerato fino a morirne, giganteggia come martire della Chiesa, lo abbiamo detto; precisiamo nel senso di essere stata vittima di uno dei peggiori momenti della grande istituzione, quello che portò al soglio pontificio Bonifacio VIII, il Benedetto Caetani al centro dell’intrigo. Ed è un ricorso storico che il corpo di Aldo Moro, vittima dei nostri tempi, fu trovato nella strada romana dove c’è il palazzo di famiglia, Via Caetani, che inizia in Via delle Botteghe Oscure, che fu sede del PCI, ed è vicina a piazza del Gesù, che fu sede della DC.

Il corteo cittadino e il rito religioso

Questo aleggiava nella mente e nel cuore nell’attesa del grande rito religioso nella spianata dietro la Basilica di Collemaggio, da lui voluta e nella quale fu incoronato, per così dire, papa, e traslato dopo gli anni del martirio e della tumulazione provvisoria in Ciociaria. E dove, in meno di quattro mesi di pontificato, diede vita addirittura al giubileo celestiniano con l’indulgenza plenaria legata al passaggio attraverso la Porta santa attraversata con purezza di cuore e innocenza d’animo.

E’ stato questo il momento finale, culminato nel rito solenne celebrato su un grande palco con il fondale raffigurante la facciata della Basilica. Facevano corona i più alti dignitari, i vescovi con le loro mitrie, i sacerdoti con le loro cotte bianche, la “schola cantorum” con i suoi cori suggestivi che sono stati la persistente colonna sonora, dopo il corteo cittadino con la sfilata nei costumi dell’epoca.

Un serpente variopinto ha attraversato la parte agibile della città, partito da piazza Palazzo per piazza Duomo, poi passato a lato della Villa comunale e quindi approdato a Collemaggio: tutti i colori, tutte le fogge nell’abbigliamento, nobili e paggi, madonne e cavalieri, armigeri con i loro elmi e i loro archi, in un compunto pellegrinaggio. In testa i primi cittadini, della Regione, Provincia e Comune, nonché tanti sindaci e parlamentari, presenti, crediamo, non soltanto per l’istituzione ma anche per se stessi; dopo la pressione di momenti tragici e sconvolgenti ci voleva questo bagno di spiritualità e di riconciliazione, con il mondo della fede, tra la folla di concittadini di tutte le epoche.

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Il rito si svolge con grande solennità, officiante il porporato venuto da Roma, il numero due del Vaticano cardinal Tarcisio Bertone, Segretario di Stato di Sua Santità Benedetto XVI, del quale porta la personale benedizione; lui stesso officiò le tristi esequie alle 300 vittime le cui bare nella grande spianata di Coppito sotto la scritta “Recisa non recedit”sono ancora nei cuori di ognuno.

Alla metà del rito anche il cielo corrusco sembra riflettere le contraddizioni del momento: fulmini e tuoni e insieme un arcobaleno che si apre sulla vallata alle spalle della spianata, punteggiata di paesi e case sparse immersi nel verde quasi fosse una coltre protettiva. Tuoni e fulmini vengono da lontano, dopo quelli di Roma giunti non in senso meteorologico; ma l’arcobaleno è qui, sembra di toccarlo mentre la messa prosegue, altro bel segno. Ed è questo che conta, c’è la partecipazione popolare, c’è la vita, sono lontani i passi felpati nelle anticamere che hanno scandito la vigilia.

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Le brevi parole dell’Arcivescovo di L’Aquila Giuseppe Molinari scuotono l’assemblea. Parla del sisma come di “santa provocazione”, che può rimettere in discussione convincimenti profondi: “E’ difficile la fede nel tempo del terremoto, è difficile la fede per chi ha perduto la casa e forse anche le persone care”. Un brivido corre tra la gente: “E’ una fede difficile ma possibile, ed è l’unica nostra salvezza”.

L’omelia del cardinal Bertone inizia ricordando “quelle scene di sofferenza e di morte”, unite alla “dignità di quelle esequie dinanzi al mondo”. Il tono si fa pastorale: “Gesù crocifisso non vi abbandona, non lascerà senza risposta le vostre domande. La risposta di Dio passa attraverso la solidarietà degli uomini, che non può limitarsi all’emergenza ma deve essere un progetto stabile nel tempo”. E sollecita a “mantenere le promesse che sono state fatte ai cittadini”.

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Ma le parole non riescono a far dimenticare che si è consumato qualcosa di ingiusto per la ricorrenza che dà avvio all’anno celestiniano. Quale avvio poteva essere migliore se al corteo, al rito e all’attraversamento della Porta santa avesse partecipato anche colui che è divenuto il “convitato di pietra”, assente ma da tutti nominato, la cui presenza avrebbe suggellato nel modo giusto un periodo intensamente vissuto da lui stesso in unione con l’intera cittadinanza?

Se non è per l’offesa al direttore del giornale dei vescovi – “ultronea”, direbbero i giuristi, rispetto alla circostanza che con tale questione non ha nulla a che fare ponendosi su un piano ben diverso e superiore – è per qualcosa che sarebbe non meno grave, vale a dire la discriminazione personale in base ad una arbitraria valutazione che nessuno si può arrogare.

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Nel senso che non si può mettere in dubbio la libertà di partecipare all’evento celestiniano con il corteo, il rito fino all’attraversamento della Porta santa; a nessuno è stato chiesto il “passaporto” della santità o della purezza, ad essa si lega l’effetto di indulgenza plenaria legato alle condizioni poste dalla Chiesa, confessione e comunione, non la legittimazione a partecipare, se non andiamo errati e abbiamo capito bene, d’altra parte nessuno si è fermato sulla soglia. Dopo di che l’effetto salvifico è inconoscibile, e chissà se l’innocenza d’animo non possa surrogare positivamente l’atto rituale ora evocato! Questa la riflessione che abbiamo fatto personalmente passando nella Porta santa come tutti gli altri.

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Detto questo, entrare nella Basilica a gruppi di quaranta subito dopo le autorità è stato emozionante. Vedere l’abside completamente scoperchiato, con le macerie rimaste a terra e il cielo aperto al di sopra ha fatto tornare la mente alle più fosche immagini della guerra, che sono quelle dei templi bombardati perché è una violenza fatta allo spirito e al cuore di ognuno, oltre che all’arte, alla storia e alla fede. Poi le colonne tutte strette in “imbraghi” per rinforzarne la tenuta in attesa degli interventi di consolidamento, gli archi sottesi nelle due navate tutti sorretti da incastellature di tubi d’acciaio, sembrava un ferito incerottato e rappezzato con chiodi, ingessature e sostegni artificiali.

Una considerazione ci è venuta spontanea nel vedere distrutta la volta dell’abside, abbiano ripensato alla coraggiosa decisione che fu presa dal soprintendente, all’atto dell’ultimo restauro, di abbattere le voltine barocche nelle lunghe navate della Basilica in modo da riportarla all’austerità originaria, tolti gli orpelli e i fregi che vi erano stati sovrapposti, in un lavoro meritorio che ce la restituì in tutta la sua francescana, o meglio celestiniana, suggestione.

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Furono lasciate queste voltine barocche soltanto nell’abside per mantenere la memoria di come era apparsa per un lungo periodo della sua lunga esistenza quasi millenaria. Forse è un segno del destino che siano crollate, è ora di riportare anche quella parte della basilica alla sua veste originaria, se ne vede la bellezza nei grandi squarci.

Il bimbo felice sulla grande aquila in volo nel futuro

Lasciamo la basilica con nel cuore le emozioni che ci ha dato una “Perdonanza” così particolare, stretta fra contraddizioni anche laceranti – e non sono solo quelle che abbiamo evocato, ma anche i problemi oggettivi che restano aperti – però con un riferimento forte per un nuovo inizio.

Si può ricominciare tornando all’età dell’innocenza perché è scevra dei fardelli che si accumulano e pesano sul cuore con i condizionamenti che recano con sé. Non ci devono essere remore e ritardi nella ricostruzione, l’ammonimento è venuto anche dall’omelia, le nuove “cittadelle” provvisorie ma dignitose prendono corpo, ma quante ce ne vorranno!

E come sarà ben più lunga e faticosa la ricostruzione del centro storico “bombardato”, com’era e dov’era, cioè dove sono oggi le macerie e i palazzi disastrati dal sisma. Un immenso lavoro da compiere e immense risorse da trovare con la solidarietà invocata dal cardinale e, se necessario, con la tassa di scopo che a suo tempo richiese il Sindaco di L’Aquila, oggi commosso lettore della Bolla della Perdonanza di Celestino V.

La ricostruzione del centro storico monumentale è ben più difficile della costruzione di “new town” prefabbricate, è evidente, è una sfida da superare dopo aver vinto quella dell’emergenza.

Ma tutto si può fare se si ricostruisce nella gente la voglia di andare avanti, di crescere. Le popolazioni colpite hanno mostrato grande dignità, anche questo è stato ricordato nell’omelia. Ora non basta più, occorre una mobilitazione di energie del tipo di quella che il Paese riuscì a produrre con la ricostruzione dopo la tragedia bellica.

E allora avviene che tutto il corpo economico e sociale viene preso in una straordinaria palingenesi che sovverte i ritmi usuali, li accelera in modo impensabile, fa bruciare le tappe e raggiungere traguardi che sembrerebbero preclusi. I più rapidi progressi sono avvenuti storicamente dopo eventi distruttivi proprio perché si mobilitano energie nascoste e sorprendenti che non si sapeva neppure di avere. E’ stato così per la stagione del “miracolo economico” italiano e per altri eventi che hanno messo alla frusta le capacità, potrà e dovrà essere così nella tragedia che ha sconvolto L’Aquila.

Un nuovo slancio dovrà percorrere questa terra: il suo simbolo, dalle grandi ali, il nobile profilo e lo sguardo verso l’infinito dovrà essere scolpito in ogni iniziativa come segno di solidità, forza, lungimiranza. Il senso della crescita e della speranza dovrà accompagnare questo simbolo, e ci pare possa essere espresso nel bimbo felice che con la massima rapidità traduce da potenza in atto quanto è in lui, nel suo Dna, nella sua volontà e forza interiore. Aquila e bimbo felice, espressioni di uno stesso anelito di rinascita e di crescita nella fierezza e nella dignità, nell’innocenza primigenia.

Vedere il bimbo felice a cavallo della grande aquila nella scultura che ha rappresentato l’Italia a Siviglia nel 1992 ha materializzato questi nostri pensieri attraverso le vie dell’arte – che sono ben evocate dalla mostra a Coppito delle opere salvate dalla distruzione del terremoto – su come l’arte può esprimere tutto questo con la sua capacità di nobilitare la materia e mobilitare le sensibilità. Trovare che l’opera è della diva nazionale degli anni cinquanta, la quale ha saputo rinascere ad una nuova vita artistica vincendo le ingiurie del tempo alla sua bellezza, è stata una scoperta per noi rivelatrice: si può rinascere e ricrearsi un futuro, basta volerlo e mobilitare il talento, perpetuare la bellezza nell’arte, e lo fanno le sculture della diva divenuta artista.

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Di bellezza ha scritto anche l’Arcivescovo Molinari immedesimandosi in Celestino V fino a mettergli in bocca queste parole: “E la bellezza che non morirà mai. Ricordalo sempre, amatissimo popolo dell’Aquila. E con l’aiuto di questo Dio, Signore del tempo e della storia, riprendi subito il tuo cammino, per una storia nuova, piena di Bellezza e di Speranza”.

La conclusione l’abbiamo posta in apertura, e la ripetiamo ora, al termine. La scultura “Vivere insieme” la proponiamo quale simbolo e sigillo di questa rinascita nell’innocenza primigenia e nella voglia di crescere: un simbolo forte, alto e nobile del nuovo inizio nella bellezza e nella speranza.

Foto

Le immagini riguardano tutte, meno l’ultima, la Perdonanza 2021, anche quelle inserite nell’articolo del 2009, il “ieri”, che sostituiscono le fotografie dell’articolo originario da noi scattate 11 anni fa nell’interno della Basilica di Santa Maria di Collemaggio con i vistosi segno del sisma nel soffitto dell’abside e nelle colonne in una integrazione che abbiamo sentito come vitale e virtuosa. In chiusura, la scultura di Gina Lollobrigida, “Vivere insieme”, nella quale il ragazzo felice in groppa a un’aquila ci sembra incarnare la volontà di riscatto della città. Questi immagini sono tratte da siti web di pubblico dominio, di cui si ringraziano i titolari per l’opportunità offerta. Indichiamo di seguito tali siti, precisando che le immagini inserite sono a mero titolo illustrativo, senza alcun intento economico, commerciale o pubblicitario e che, qualora non ne fosse gradita la pubblicazione, verrebbero subito rimosse su semplice richiesta, anche mediante una nota all’articolo. Le immagini mostrano, senza bisogno di didascalie, le varie fasi della celebrazione celestiniana del 2021, dalla Basilica di Santa Maria di Collemaggio e dai cartelli alla presentazione dei partecipanti, al Corteo, ai portatori dei simboli, fino al loro arrivo alla basilica, dalla Porta Santa prima dell’aperura e dopo il rituale battito del Vescovo alla Porta Santacon il bastone portato in corteo, fino a un’immagine dell’interno; infine la “Bolla del perdono” di papa Celestino V e, in chiusura, la scultura “Vivere insieme” di Gina Lollobrigida – citata nell’articolo – che nel bambino felice con le braccia levate al cielo in groppa all’aquila impersona la rinascita della città dalla catastrofe del terremoto del 2009, fin da allora proponemmo che tale scultura, che ha avuto prestigiosi riconoscimenti internazionali, divenisse simbolo della città. I siti web da cui sono state tratte le immagini sono, nell’ordine di inserimento delle immagini nel testo: perdonanza-celestiniana.i, ilcapoluogo.it, abruzzoweb.it, ilcapoluogo.it, ilcentro.it, raicultura.it, rete8.it, turimoitalianonews.it, unesco.beniculturali.it, unesco.beniculturali.it, virtuquotidiane.it, ilcapoluogo.it, comunelaquila.it, ilcentro.it, radiolaquila.it, abruzzonews.eu, ilcentro.it, newstown.it, unesco.beniculturali.it, laquilablog.it, ilmessaggero.it, templarioggi.it, voxmilitiae.it, rete8.it, gds.it, turismoitalianonews.it, laquilablog.it, laquilablog.it, virtuquotidiane.it, laquilablog.it, arteculturaoggi.it.

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3 commenti

  1. Romano Levante, con la maestria che gli è propria e ben nota ai suoi affezionati lettori, coglie l’occasione della festa della, “Perdonanza” per aprirci gli occhi su due personaggi storici, l’eremita Pietro da Morrone, noto come papa Celestino V, e il cardinal Caetani, noto come Bonifacio VIII; personaggi che conosciamo superficialmente per come ce li ha descritti Dante nella Divina Commedia.
    Siamo sinceri: alla gran parte di noi, prima di leggere il saggio di Romano Levante, era noto il nome di Papa Celestino V solo per la ingenerosa invettiva dantesca: colui che “fece per viltade il gran rifiuto” abdicando dal soglio pontificio dopo meno di 4 mesi, dall’incoronazione del 28 agosto 1294 nella basilica di Santa Maria di Collemaggio all’Aquila, alle dimissioni del 13 dicembre dello stesso anno.
    Io stesso quando vidi la umida cella, priva di aria e luce nel Palazzo Caetani a Fumone, nel frusinate, provai un sentimento di pietà per l’uomo anziano di anni 80, che morì dopo un anno di crudele segregazione, attenuato però dal giudizio negativo di Dante sull’uomo già Papa. Romano ha il merito di averci chiarito come in realtà non si trattò di “viltà” ma di cedimento alle pressioni, lusinghe e maneggi del cardinal Caetani, subito dopo eletto Papa con il nome di Bonifacio VIII. Di quest’ultimo Dante ci da un quadro fosco, come simoniaco atteso all’inferno, ancora in vita, ma trascura il suo delitto più torbido e grave: la segregazione e le torture fisiche e morali che portarono alla morte di Pietro da Morrone. Il quale, nei 100 giorni di pontificato fece una cosa straordinaria: istituì il primo Giubileo nella storia della Chiesa, la “Perdonanza”, che Bonifacio VIII non osò annullare ma anzi imitare, con intento ben poco spirituale ma “simoniaco” con il proprio Giubileo del 1300.
    Fino a qui la storia. Ma l’acume di Romano Levante va oltre e ci prospetta un paragone tra le vicende storiche di Celestino V e quelle attuali nostre, accomunate nella “Perdonanza”, il primo Giubileo della storia, che si svolge nella Cattedrale dell’Aquila il 29 e 30 Agosto, con l’apertura per 24 ore della Porta Santa per ottenere l’indulgenza plenaria a tutti coloro che la varcano in grazia di Dio.
    La Chiesa ha rimediato al torto perpetrato da Bonifacio VIII: nel 1313, dopo soli 17 anni dalla morte (1296) Celestino V viene canonizzato e venerato il 19 maggio come san Pietro Celestino, patrono di Isernia, terra natale, e compatrono dell’Aquila.
    E proprio all’Aquila ed ai giorni nostri ci riconduce la maestria di Romano Levante, nella ricorrenza della “Perdonanza” per una riflessione di fondo.
    L’Aquila, come ben ricordiamo, ha subito un devastante terremoto le cui ferite sono ancora presenti nella parte storica. Ma nella sventura ha avuto un forte impulso alla ricostruzione da parte del Presidente del Consiglio di allora, il cui impegno immediato e deciso ha consentito alla popolazione di riprendere in tempi brevi una vita regolare in abitazioni civili, dignitose e realizzate con standard antisismici elevati. Lo stesso Presidente al quale fu impedito di attraversare con gli altri fedeli la Porta Santa nei giorni della “Perdonanza” per il suo status di “divorziato”.
    La riflessione che viene spontanea dall’accostamento di Romano Levante dei fatti storici del trecento alla realtà del presente: il nostro Paese ha subito negli ultimi trent’anni le conseguenze di un tentativo di “damnatio” nei confronti di un personaggio che la maggioranza degli italiani ha voluto alla guida del Paese in un momento storico devastante che tutti noi ricordiamo. E’ l’ora della riconciliazione nazionale, in vista delle sfide cruciali che ci attendono e che richiedono la massima coesione di tutti.
    Sono convinto che la maggioranza degli italiani attende dalla nostra massima Autorità istituzionale un atto di riabilitazione che ponga fine alla stagione delle divisioni in una sorta di “Perdonanza” nazionale che il lungimirante scritto di Romano Levante ci fa intravedere.

    1. La mia risposta all’appassionato quanto colto commento di Giuseppe, anzi Peppino per me e gli altri amici, non può limitarsi a ringraziarlo del generoso apprezzamento per la mia modesta rievocazione; sento di dover esprimere anche e soprattutto quanto le sue parole mi ispirano, in un “ieri e oggi” che mi emoziona.
      “Ieri”: parcheggiavamo entrambi l’auto in via Caetani, una traversa di via delle Botteghe Oscure dov’era il nostro ufficio, non nella sede del PCI ma nell’Ufficio studi della Confindustria, ricordo che dalla nostra finestra all’ultimo piano del palazzo quasi prospiciente quello “rosso” vedemmo sfilare nella strada sottostante i funerali di Togliatti, poi in quella strada – situata tra le sedi del PCI e della DC – fu ritrovata la Renault R4 con il corpo di Aldo Moro. Non pensavamo allora che Caetani fosse la casata di Bonifacio VIII né che tale papa avesse compiuto l’ignominia di segregare e portare a morte Celestino V dimessosi, anche per i suoi raggiri, per tornare nella “tranquillità del suo eremo”, invece fu sbattuto nell’”umida cella, priva di aria e luce” che Peppino, dopo averla visitata, descrive con parole che fanno rabbrividire.
      Ebbene, l’indignazione mi porta a considerare oltremodo indegno che l’intitolazione di una strada divenuta simbolo di un martirio contemporaneo resti intestata a una casata che con un “oltraggio ingiusto e mortale” ha condannato a una “sorte crudele” portando a martirio “questo uomo buono, mite, saggio, innocente” per usare le parole di papa Paolo VI nella preghiera per Aldo Moro che ben si attagliano all’eremita Pietro da Morrone. Non c’è stato l’obbrobrio – da me in un primo tempo temuto – dell’intitolazione a Benedetto Caetani, il futuro Bonifacio VIII che tutto fu fuorchè… benedetto, lo è a Michelangelo Caetani, vissuto mezzo millennio dopo, nell’800, e se le colpe dei padri non si riversano sui figli, figurarsi se sui lontani discendenti della casata…. Però, come c’è l’intitolazione “Via dei martiri di Cefalonia” e ad altri martiri civili, perché non pensare a intitolarla “Via del martirio di Aldo Moro”?
      Si dovrebbe cambiare nome spodestando quello attuale, e che problema sarebbe? Hanno spodestato San Paolo per intestare a Diego Armando Maradona lo stadio di Napoli, venendo meno persino all’adagio popolare “scherza coi fanti e lascia stare i santi”, lo si potrebbe fare a maggior ragione per Michelangelo Caetani, magari intestandogli un’altra strada, e attendendo la fine del 2021 se si ritenesse inopportuno farlo nel settimo centenario dantesco, trattandosi di un dantista affermato.
      “Oggi”: Peppino ci porta all’evocazione del terremoto dell’Aquila del 6 aprile 2009 e delle “casette di Berlusconi”, così sono chiamate nel mio paese natìo, Pietracamela, nel versante del Gran Sasso opposto a quello aquilano, che il sisma ferì gravemente. Ebbene, i pochi abitanti del borgo – che dal 2005 è nel club dell’Anci dei “Borghi più belli d’Italia” e nel 2006 è stato “Borgo dell’anno” – le cui case divennero inagibili, si trovano ancora nelle “casette di Berlusconi”, dopo 12 anni i lavori per rendere agibili le loro abitazioni danneggiate, ma non distrutte dal sisma, non sono neppure iniziati, e sono seguiti tanti governi: come fu fulmineo l’intervento di allora così è stata paralizzante l’ignavia successiva.
      L’ostracismo che fu opposto all’autore delle “casette” nella “Perdonanza” – quattro mesi dopo il terremoto ai cui effetti sulle popolazioni aveva posto i rimedi possibili con interventi immediati quanto mai efficaci – nonostante questi meriti che Peppino ricorda, andava ben oltre la motivazione pretestuosa, peraltro superata dalla grazia divina che va al di là delle debolezze umane se ce ne sono; si inseriva nella “damnatio” giustamente evocata, che si riassume nelle cifre aggiornate a ieri: 90 processi, 3.800 udienze, 130 avvocati, 50 consulenti e non sappiamo quanti magistrati e forze dell’ordine impegnati in una “caccia” che, “mutatis mutandis”, ci ricorda quella del film con Robert Redford e Marlon Brando. Risultato, una condanna taroccata come dimostrato non solo dalle precedenti assoluzioni da accuse identiche per anni diversi, ma dal fatto che fu comminata in una “sezione estiva” oltretutto ingiustificata di cui un membro del collegio giudicante ha rivelato la genesi inqualificabile, ribadita più in generale dalle intercettazioni di Palamara che hanno aperto il vaso di Pandora delle nequizie contro di lui e – è notizia di ieri – dalle stesse carte di Davigo.
      Ne seguì l’esclusione dal Senato, per la quale ci furono altre irregolari forzature, quindi una ferita istituzionale da sanare. E allora si può chiedere al nostro presidente Mattarella, così sensibile a gesti simbolici quanto concreti – e non mi riferisco solo al meritorio Senato a vita a Liliana Segre – di compiere il gesto, che Peppino evoca nel suo appassionato commento, divenuto doveroso per far tornare la giustizia che certa magistratura non sembra più in grado di assicurare, continuando una indegna persecuzione.
      Gli stessi partiti di sinistra sembrano finalmente riconoscergli meriti prima negati, e anche Mattarella potrebbe fare lo stesso, considerato che si dimise da ministro nel 1990 contro il presunto favoritismo per le Tv di Berlusconi della leggè Mammì, che fotografava la situazione determinatasi dopo che nel 1984-85 Craxi, con un decreto molto contestato, legittimava le sue televisioni; peraltro il decreto era stata la difesa da parte della politica dai “pretori d’assalto” che fin da allora volevano conculcare la vera giustizia usando il loro potere in modo persecutorio quanto improprio e arbitrario. Per chi non lo ricorda, la Corte Costituzionale aveva liberalizzato l’uso della TV solo in sede locale, ma non perché a livello nazionale avrebbe infranto i suoi principi, tutt’altro, c’erano solo limitazioni tecniche a inibire la diffusione nazionale per non occupare frequenze necessarie ad usi prioritari, per polizia, emergenze sanitarie, ecc.; ma le “Tv di Berlusconi” pur trasmettendo programmi uguali nell’intero territorio nazionale, non ne occupavano le frequenze, operando in sede locale con cassette preregistrate trasmesse quasi in sincronia, abilità imprenditoriale in piena legalità, realizzando “in toto” il dettato liberatorio della Corte.
      Il presidente Matterella con l’atto di doveroso riconoscimento che gli si chiede, alla riconciliazione nazionale unirebbe anche una riconciliazione personale, con il risarcimento di passate ingiustizie. La “Perdonanza” è anche questo, nell’annuale riconoscimento e risarcimento dell’ingiustizia subita da Celestino V, l’eremita Pietro da Morrone divenuto santo.

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