di Romano Maria Levante
Si è svolta, alle Scuderie del Quirinale, la mostra “Tota Italia. Alle origini di una nazione”, celebrativa del 160° anniversario dell’Unità d’Italia dei tempi moderni attraverso la ricostruzione, documentata da un’accurata ricerca storica, di un itinerario epocale evocato mediante più di 400 reperti dell’antichità che ne segnano lo diverse tappe. Ricorre anche il 150° di Roma capitale, legata alla composizione dell’identità italica dai tempi più antichi, e il 75° anniversario della Repubblica, un tris d’assi che viene calato, per così dire, nella sede espositiva assurta a un livello istituzionale da quando, da pochi anni, è stata affidata ad Ales S.p.A. del Ministero della Cultura con presidente e A.D. Mario De Simoni. La mostra, aperta il 14 maggio, si è chiusa il 25 luglio 2021, ma la sua importanza va ben oltre il troppo breve periodo espositivo per la permanente validità della ricostruzione storica e artistica effettuata. Alla realizzazione, con Ales S.p.A. hanno concorso oltre 30 Musei e Soprintendenze di Stato con il contributo dei Musei civici. E stata curata, come anche il Catalogo edito da “arte,m”, da Massimo Osanna, direttore generale Musei del Ministero della Cultura, e da Stéphane Verger, direttore del Museo Nazionale Romano
“Iuravit in mea verba tota Italia sponte sua”, è la citazione che rappresenta la prova della compiuta unità nazionale nell’antichità e da il titolo alla mostra, con essa si apre la presentazione del Ministro della Cultura Dario Franceschini che osserva: “Così nelle sue ‘Res Gestae’ Ottaviano Augusto, che con le sue parole attribuiva alla nazione italica la libera scelta di combattere al suo fianco nella guerra civile che lo contrapponeva a Marco Antonio, esprimeva l’idea della totalità dell’Italia”.
Un’unità sostanziale che precede di almeno 3 secoli l’impero augusteo, ma conclamata soltanto dal divo Augusto “anche ai fini dell’autorappresentazione del Princeps”, osserva il curatore Massimo Osanna. S ricomponeva, nelle forme e con i protagonisti più diversi, in occasione delle guerre, con e contro Roma, con la quale pure veniva vantata una contiguità di fronte alla quale la Città Eterna aveva un atteggiamento mutevole a seconda delle situazioni e convenienze; i “barbari”, invece, erano i popoli insediati all’esterno, ben diversi dalla “gens italica”.
Ma l’identità italica non si manifesta solo nell’alleanza in guerra, come quella che sottostava all’espressione augustea. “Il nome Italia – nota il presidente di Ales Mario De Simoni – cessò di essere un’espressione geografica ma indicò invece una unità politica, amministrativa, giuridica, la penisola chiamata Italia che, pur nel potere centrale riconosciuto nella figura del reggitore, ricomponeva e saldava il caleidoscopio etnico della Penisola”. E cita il programma imperiale per i bambini bisognosi, “alimenta Italiae”, come un antesignano del moderno “welfare”, in nome di una condivisione anche a livello sociale estesa all’intera Penisola considerata Italia a tutti gli effetti. Ma sebbene l’unificazione augustea avvenisse nel segno di Roma, veniva mantenuta la divisione regionale con le sue diversità unite nella consapevolezza di un destino comune.
E’ proprio il “caleidoscopio etnico” evocato da De Simoni, ricomposto unitariamente, ad essere presentato nella mostra con una accurata ricognizione basata sui fattori identitari che sono strettamente legati alle culture radicate nel tempo.
Il curatore Osanna sottolinea le difficoltà incontrate per la carenza e tendenziosità delle fonti letterarie, spesso celebrative della funzione civilizzatrice di Roma, quindi tendenti ad oscurare le civiltà autoctone, che spiccano con chiarezza negli antichi reperti risultati rivelatori, pur con le mancanze dovute al “naufragio” di parte della documentazione archeologica più antica.
Su questi reperti è costruita la mostra, una suggestiva immersione nell’antico resa possibile dalla mobilitazione dei nostri musei che – afferma con legittima soddisfazione De Simoni – “hanno fatto ‘rete’ per poter raccontare, in un momento tanto difficile, un così significativo periodo della storia del nostro Paese” mostrando “una storia e un patrimonio culturale unico al mondo”.
Le premesse più antiche dell’integrazione di Augusto
E’ una storia delle quale ci sembra necessario o comunque utile dare le principali coordinate in modo da collocarvi poi i reperti delle varie epoche che la documentano.
Partendo dall’Italia meridionale, viene individuato l’inizio di un progressivo accorpamento – che da interessato e spesso forzato diventa naturale e condiviso – nella “deditio” di Capua, che si consegnò a Roma e fu inclusa nel suo territorio allorché era assediata dai Sanniti: siamo nel 343 a. C. Seguono le colonie latine di Luceria e Venusia, fondate nel 314 e 291 a. C., con i coloni laziali spostati in zone non abitate portandovi costumi e tradizioni, e ulteriori interventi di Roma nel 285 a. C. in aiuto di Thurii assediata dai Lucani, fino alla resa, nel 206 a. C., di Taranto che si opponeva alle incursioni romane nel suo territorio, cui seguì la fondazione della colonia latina di Paestum.
In termini punitivi, si verificava l’ampliamento dell’”ager publicus” romano con le confische pur restando molto territorio agli Italici con i quali fu stretto un “foedus”. In altre aree sorgono colonie romane e latine. Benevento e Crotone tra le prime, Thurii e Hipponium tra le seconde, è l’inizio del II sec. a. C., nel 123 a. C. è la volta di Taranto e Scolatium.
Ma è con la “guerra sociale” del 90 a. C. che si ha una prima definizione dell’assetto territoriale, questa volta con gli Italici non “socii” di Roma, ma insorti contro la sua egemonia, in nome della libertà chiamarono “Italica” la loro precaria capitale e coniarono monete con la scritta “Italia” rivendicando la “consanguineità” con Roma, come aveva fatto essa stessa: “Del resto – ricorda Osanna – già dal III secolo a. C. Roma nei rapporti con territori esterni alla Penisola aveva utilizzato il concetto di Italia in senso etnico-culturale, come forma efficace di autorappresentazione”.
E precisa: “Si trattava non di una identità sostitutiva che annullava quella delle genti italiche ma di una sorta di veste identitaria aggiuntiva che si affiancava a quella delle varie genti che componevano la Penisola”. Non era mera promozione, ma autodifesa per scoraggiare gli Italici ad unirsi ai nemici, come nella 2^ guerra punica quando tendevano a passare con Annibale perché lo immaginavano vincitore o temevano il dominio di Roma.
Alla conclusione della “guerra sociale” fu concessa la cittadinanza romana agli “Italici” per cui l’intero territorio divenne “romano”, aggiungendo alla naturale integrazione sotto l’aspetto geografico quella politica e quella istituzionale. Nacquero i municipi omologando le diverse origini e radici, romane-latine, italiche e anche greche, in particolare al Sud, terra della Magna Grecia.
Quando “l’Italia nella sua interezza prestò giuramento per me di sua spontanea volontà” – sono le parole di Augusto della “Res Gestae” che abbiamo riportato all’inizio nella citazione testuale del ministro Franceschini – è andato a compimento un processo in atto da tre secoli con fasi alterne: era il 32 a. C. e non fu soltanto la conclusione formale di un fatto sostanziale, bensì un evento destinato ad avere effetti concreti molto rilevanti.
Solo con l’età di Augusto, spiega Osanna, “questo processo di unificazione potrà dirsi pienamente concluso anche da un punto di vista culturale e il concetto diventerà un formidabile strumento di consenso”. Ed ecco come: “Invocando la diversità degli altri si cementava così l’identità interna di una nazione nata da un mosaico di popoli e la cultura diventava uno strumento essenziale nella presentazione di questa unità, riconoscibile in tutti i tratti della vita quotidiana… e della religione”, anche nella “materialità degli oggetti, la monumentalità delle architetture, le decorazioni scultoree e pittoriche degli spazi di vita”. Unità voleva dire appartenenza e anche riconoscibilità di un tessuto comune, partendo da differenze identitarie, in un arricchimento a vantaggio di tutti.
De Simoni ha parlato di “caleidoscopio”, Osanna di “mosaico di realtà” e definisce “il panorama etnico e sociale” che si presenta a Roma nella sua progressiva espansione “estremamente disomogeneo”: perciò Roma lo affronta “con strumenti duttili” e “soluzioni diversificate”, per procedere all’integrazione.
Nei territori meridionali, con la sconfitta di Taranto, la penetrazione latina va via via scalzando la “grecità autonoma” con un ridimensionamento del ruolo delle città e il declino nelle necropoli del modello “democratico” dell’uniformità delle tombe della classe media per tombe anche monumentali con ricchi corredi pervenuti a noi come preziosa testimonianza.
Nella colonia “Neptunia” e in “Heracleia” , nelle sue vicinanze, si hanno esempi significativi dell’inserimento di una nuova comunità a fianco di quella greca con diverse tradizioni e modelli culturali. L’edilizia, con la spinta delle guerre che vi portavano il mondo romano, si evolve dal peristilio greco e dal cortile a grandi ambienti decorati e pavimenti a mosaico, con ampi porticati. Questo avviene per chi si sa adattare alle nuove condizioni, mentre i ceti medi decadono e lo si vede nella riduzione del “municipium” con larghe zone disabitate.
L’antica colonia greca di Poseidonia diventa colonia latina nel 273 a. C. dopo la trasformazione in centro lucano molto dinamico, anche a Paestum viene affiancata “una nuova città nella città” con la trasformazione dell’impianto viario e dell’assetto urbanistico, creando spazi per le funzioni pubbliche e i negozi per le attività commerciali. Ai santuari greci ooriginari si aggiungono quelli per le divinità romane, ad Athena – a Roma Minerva – si affiancano Giove, Giunone e Apollo.
Lontano dalle radici nella Magna Grecia, nel territorio appenninico poco urbanizzato si tende a concentrare gli insediamenti, prima sparsi, in strutture di tipo cittadino sui modelli coloniali latini. Nei monti della Lucania, invece, gli insediamenti abitativi già nel IV sec. a C. erano andati evolvendo verso strutture accentrate, anche circondate da mura, con la forma delle città, e i luoghi sacri venivano separati dagli altri, nel territorio coltivato sorgevano fattorie con colture anche specializzate.
Questo accadeva fino a quando con le guerre di Annibale e le guerre sociali il territorio si spopola anche per effetto delle confische che estendevano l’”ager publicus” destinato spesso a pascolo, ponendo fine a molti insediamenti preesistenti, anche se venivano mantenute le culture specializzate per i ceti più elevati.
Ne è derivato un impoverimento non solo del territorio, ma dell’intero tessuto sociale tanto che Strabone, riguardo ai Lucani, ha scritto parole inequivocabili all’epoca di Augusto: “Non sussiste più alcuna organizzazione politica comune a ciascuno di questi popoli, e i loro costumi particolari, di lingua, di armamento, di vestiario e di altre cose del genere, sono scomparsi”.
Con la precisazione: “E d’altronde, considerati singolarmente e a parte, questi insediamenti sono praticamente trascurabili”. Commenta Osanna al termine dell’accurata ricostruzione: “Del resto anche negli altri territori, all’epoca di Augusto, si doveva conservare assai poco degli antichi mores. Un mondo nuovo era cominciato”.
Lingua, armamenti, corredi funerari, dell’ibridazione italica più antica
Sugli antichi “mores” e sul processo evolutivo si soffermano altri studiosi nella loro rievocazione storica affiancata a quella del curatore Osanna. L’altra curatrice Stéphane Verger punta la sua attenzione su un evento, la battaglia di Sentino, che fece da catalizzatore, per così dire, negli equilibri instabili dei popoli italici rispetto a Roma. I Sanniti sconfitti crearono una coalizione con Etruschi, Umbri e Galli, ma era così precaria che i primi due popoli ne uscirono su pressione dei contingenti romani prima che l’alleanza si concretizzasse. La presenza, in diverse collocazioni, del “mosaico variegato dei popoli insediato intorno a Roma”, fornisce l’occasione per passare in rassegna le differenze negli aspetti più evidenti della loro presenza nel territorio.
Si confrontavano le più diverse organizzazioni politico-sociali dell’Italia, con le più diverse forme di organizzazione cittadina, accentrata o decentrata di tipo tribale nel territorio; e le diversità più evidenti pur con i segni della contaminazione e dell’omologazione.
In primo luogo la lingua: “a Sentino, i vari eserciti presenti parlavano una moltitudine di lingue”, ma sembra non fosse una Torre di Babele perché la più diffusa lingua “osca”, e le lingue dei Lucani e dei Bretti erano affini, e anche la lingua latina non era molto diversa, come non lo era quella degli Umbri. Invece nell’Italia centrale, particolarmente nel versante adriatico, alla locale lingua italica, affine alle “osche” e umbre, si aggiunge la “lingua indoeuropea allogena” dei Senoni, del tutto diversa, proveniente dai Galli dell’Europa centrale di cui tale popolo faceva parte come gli altri gallici insediatisi al Nord d’Italia — in particolare Lombardia e Piemonte dove si parlava un dialetto gallico sin dal VII sec. a. C.- e scesi fino alla zona adriatica.
Nella città di Felsina, i Galli sopraggiunti si fusero con la popolazione locale parlando l’etrusco, la lingua in uso nella futura Bologna da cinque secoli, che risultava molto diffusa oltre che nell’antica Etruria, nei centri etruschi campani, italici e perfino a Roma. Anche i Celti nel IV sec. a. C., con le unioni e i contatti di ogni tipo con quelle autoctone, parlavano l’”osco” e l’umbro, il piceno e il venetico. nei rispettivi territori, come risultato della convivenza tra popolazioni galliche e italiche.
Sul piano militare, tale contaminazione e ibridazione è confermata dalle tattiche dei tanti contingenti schierati a Stettino: diventavano assimilabili nel comportamento dei soldati che si conoscevano e avevano combattuto come alleati e anche come nemici, sebbene in astratto si differenziassero tra “quella romana, ordinata e misurata, e quella sannitica e gallica, confusa e precipitata”. Gli armamenti italici spesso si ispiravano a forme allogene, come l’elmo etrusco dalla forma dei primi elmi celtici, diffuso largamente in Italia dal Nord al Sud tra la gran parte dei popoli, dai Liguri e i Galli ai Piceni, Sanniti e Lucani, fino ai Romani; così per lo scudo e la lancia.
Nei corredi funerari del Nord e del centro Italia nel IV e III sec. a. C. lo stesso fenomeno di “ibridazione culturale”: in una tomba nella Felsina una spada celtica di ferro insieme a un elmo etrusco di bronzo, vasellame etrusco e oggetti delle popolazioni guerriere italiche di allora.
Nel corredo della tomba detta “Nerka Trostaia” ad Este, gli oggetti rappresentano “tutta la storia e la topografia culturale dell’Italia pre-romana, dal momento preciso in cui, nell’Italia centrale e meridionale, Roma comincia a prendere il sopravvento sui suoi vari avversari”: con elementi di vario tipo greci ed etruschi insieme ad altri introdotti dai Galli, in particolare nell’abbigliamento.
L’ibridazione era indotta dai “collegamenti culturali e diplomatici da una parte all’altra dell’Adriatico”, anche tra Taranto e la Magna Grecia fino alla Pianura Padana attraverso il Piceno, evitando così i territori controllati da Roma; fino a quando, con la presa di Taranto nel 272 a. C. e l’assoggettamento di Sanniti, Piceni e Umbri, fondata nel 268 la colonia latina di Amminium, Roma controllava lo sbocco sull’Adriatico cui era collegata dalla via Flaminia. “A partire dal 220 a. C. – conclude la Verger – si potevano impostare le tappe dell’ultimo conflitto con i Galli della Cisalpina, con il quale si sarebbe conclusa la totale presa di possesso della Penisola”.
Siamo nella fase più antica del processo che culminerà nella piena omologazione augustea la quale sarà florida nello sviluppo economico, nella trasformazione urbana nel segno dell’opulenza, e nelle virtù civili oltre che militari, come nell’auto-rappresentazione del Princeps collegata agli antichi valori della più nobile discendenza dal fondatore di Roma. Ma prima ci sarà la fase intermedia, tra il II e il I sec. a. C. nella quale dalle alleanze e condivisioni con Roma si passa alle repressioni per una “pax romana” fondata sull’assoggettamento di popoli peraltro accomunati ormai alla Città eterna nel processo di “ibridizzazione” di cui abbiamo ricordato gli inizi.
Di queste due ulteriori fasi – romanizzazione forzata del I e II sec. a C. e consacrazione di Augusto – parleremo prossimamente iniziando anche la rassegna dei reperti esposti in mostra che ne danno la documentazione visiva e l’emozione per un contatto così stretto e diretto con l’antico; rassegna che concluderemo successivamente.
Info
Scuderie del Quirinale, Roma, Via XXIV maggio n. 16. info@scuderiequirinale.it, tel. 02.92897722. Nel periodo di apertura della mostra visita da lunedì a domenica ore 10-20 (ingresso fino alle 19), entrate contingentate con obbligo di “Green Pass”, e protocollo di sicurezza, su mascherine, distanza di 2 metri, igienizzazione, biglietto euro 17,50, ridotti over 65, giovani e altre categorie. Catalogo “Tota Italia. Alle origini di una nazione”, con sottotitolo IV secolo a. C. – I secolo d. C., a cura di Massimo Osanna, Stéphane Verger, pp. 168, formato 16 x 24; dal Catalogo sono tratte le citazioni e le notizie del testo, nonchè le immagini dei reperti esposti in mostra.
Photo
Le immagini sono tratte dal Catalogo, si ringrazia l’Editore e la Presidenza delle Scuderie del Quirinale, che lo ha messo a disposizione, e i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. E’ inserita la sequenza di una immagine per ciascuna delle 10 sezioni, poi un’altra sequenza con qualche eccezione. In apertura, inizia la sequenza completa delle 10 sezioni, “Monumento funerario con fanciulle danzanti” metà I sec. a. C; seguono, “Lastra dipinta con scena di ritorno del guerriero” prima metà IV sec. a. C., e “Testo giuridico in lingua eterusca” II sec. a. C.; poi, “Statua di offerente in trono con porcellino” IV-III sec. a. C., e “Statua di pugile in riposo” I sec. a. C.; quindi, “Piatto votivo con raffigiurazione di elefante da guerra” III sec. a. C., e “Tabula con una legge latina, riutilizzata per una legge in lingua osca” II-I sec. a. C; inoltre, “Rappresentazione di Iside-Fortuna e di un giovane nudo con iscrizione graffita” I sec. d. C.; ancora, “Ritratto di filosofo su erma iscritta, Parmenide” I metà I sec. d.C., e “Ritratto di Livia” fine I sec. a. C.; continua con una nuova sequenza, mancano la 1^ e 10^ sezione, “Lastra dipinta con scena di accoglienza del defunto” primi decenni III sec. d. C. e “Modello di fegato per pratiche divinatorie con iscrizioni in etrusco” 100 a.C. circa; prosegue, “Stipe votiva dlla dea Reita – Statuetta di guerriero a cavallo” IV sec. a. C., e “Terracotte architettoniche di un edificio templare– Lastra di rivestimento (antepagmentum) con motivo a palmette alternate”, II sec. a. C.; poi, “Rilievo con navi da guerra” terzo quarto del I sec. a. C., e “Iscrizione in lingua osca con riferimento alla viabilità di Pompei” II sec. a. C.; infine, “Triade capitolina” II sec. d. C. e, in chiusura,“Ritratto femminile” seconda metà I sec. a. C.