Ci siamo sentiti di onorare la memoria del grande artista Botero, scomparso nei giorni scorsi, ripubblicando le nostre recensioni alle sue due ultime mostre romane. Dopo i 3 articoli degli ultimi tre giorni sulla mostra antologica del 2017 al Vittoriano, concludiamo la nostra partecipazione ripubblicando anche la recensione alla mostra monografica sulla “Via Crucis”, svoltasi al Palazzo delle Esposizioni nel 2016. E’ straordinario come le sue forme ridondanti, ironiche e dissacranti, applicate al tema sacro più struggente riescano a emozionare rendendo partecipi del grande dolore espresso nelle 14 Stazioni della Via Crucis. Questa è vera, grande arte.
di Romano Maria Levante
La Pasqua al Palazzo Esposizioni con la mostra “Botero. Via Crucis, la passione di Cristo”, aperta dal 13 febbraio al 1°maggio 2016. Sono esposti 27 dipinti, la maggior parte di grandi dimensioni, in numero quasi doppio rispetto alle 14 Stazioni canoniche per la reiterazione di una serie di momenti del dramma cristiano con qualche aggiunta,.e 34 disegni a matita ed acquerello, tutti del 2010-2011 in una eloquente immersione dell’artista nel mistero della Passione e Crocifisisone. La mostra è promossa dall’Ambasciata della Colombia in Italia, organizzata dall’Azienda Speciale Palaexpo in collaborazione con il Museo d’Antioquia di Medellin e Glocal Project Consulting, Catalogo bilingue italiano-inglese della “Silvana Editoriale” con un saggio introduttivo di Conrado Uribe Pereira.
Una Via Crucis come quella di Botero sarebbe un evento straordinario anche per un pittore dedito alle celebrazioni dei momenti della fede, perché non si tratta dei temi consueti della religione trionfante, con la glorificazione della Madonna e il Bambino, Cristo e i Santi, e neppure del solo Crocifisso, ma viene ripercorsa interamente la Passione con tutte le 14 stazioni della Via Crucis, e alcuni momenti reiterati con grande efficacia, in 27 dipinti, la maggior parte di grandi dimensioni, con 34 disegni e acquerelli preparatori, anch’essi di elevato livello artistico.
Ma oltre a questo aspetto pur illuminante, ne va considerato un altro: l’artista che si è cimentato in un’opera così eccezionale per sua natura e scelta stilistica non è rivolto al dramma e alla sofferenza, tutt’altro. La sua peculiare caratteristica è rappresentare, con figure ridondanti e tranquille, una condizione umana ben diversa nella quale è del tutto assente il dramma e inoltre vi è uno spiccato senso di ironia, anche questo non si addice di certo al tema della Passione.
La formazione e il percorso artistico di Botero
E allora la prima cosa che viene da chiedersi riguarda il motivo che ha portato l’artista a una prova così lontana dal suo orientamento tradizionale, la seconda se abbia mantenuto la sua cifra stilistica delle forme abbondanti, la terza se abbia conservato la sua tendenza all’ironia e alla dissacrazione.
Per l’interrogativo di fondo seguiamo le riflessioni di Conrado Uribe Pereira che nascono da un’accurata analisi dell’opera del maestro dal primo periodo ad oggi; le altre due risposte vengono dalla visione dei suoi dipinti e dei disegni preparatori, una galleria fortemente espressiva.
Sull’ispirazione non vi è dubbio che la sua terra, la Colombia, abbia rappresentato il primo influsso con la solarità e il clima sudamericano nel quale sono immerse le sue figure corpose e indolenti; ma su questo motivo si è innestata la cultura occidentale della quale è stato imbevuto avendo diviso le sue residenze tra Colombia, la sua Medellin e Bogotà, Italia e Francia, Stati Uniti a New York.
In Italia è stato fondamentale il suo contatto con le opere dei grandi maestri dal 400 e Rinascimento in poi, tra quelli che più lo hanno interessato, osserva Uribe Pereira, “nella sua pittura attraverso omaggi e reinvenzioni. Botero si riappropria così di alcuni artisti che hanno lasciato il segno nella storia dell’arte”. Non solo mediante citazioni, ma “nel far proprie molte, se non tutte, le tematiche di questi artisti”. La chiama addirittura “ossessione per i i soggetti tradizionali dell’arte”.
Come citazione diretta indica il suo dipinto del 1972 “Cena con Ingres y Piero della Francesca”, in cui si rappresenta a tavola con i due artisti, comunque la sua attenzione va anche a Paolo Uccello, Rubens e Velasquez, Cezanne e Picasso. Nelle opere religiose dei grandi maestri ritrova gli stimoli che gli provenivano dalla religiosità della sua terra, espressa negli ambienti pubblici e privati. Si realizza, così, un incrocio virtuoso tra i ricordi del passato del pittoresco mondo sudamericano, e le sollecitazioni del presente di un’arte di livello alto nei temi e nelle forme espressive.
Pur con questi forti influssi, però, la sua opera non è mai imitativa, perché li traduce nel suo stile personalissimo e inconfondibile. Abbiamo così anche sue opere religiose, ma si sbaglierebbe se da queste si facesse discendere la “Via Cruicis” sia per la sua specificità, anzi unicità nella forma seriale della rappresentazione – un ciclo completo sullo stesso tema – sia per la sua netta diversità.
Infatti anche i temi drammatici sono resi abitualmente dall’artista in modo sereno e tranquillo, il suo è sempre, osserva Uribe Pereira, “un mondo sensuale, popolato da esseri dilatati di un piacere turgido e felice, generalmente immuni dal degrado del tempo e della miseria morale. Tutto in intima relazione con questo modo così particolare di ricomporre le proporzioni ed esaltare i volumi”.
Perciò gli viene attribuita “la capacità di evocare quella domenica felice della vita in cui ogni essere vivente, ogni pianta, ogni mobile ed ogni casa trovano tranquillamente e pigramente il posto più adeguato, lontano dal male e dalla meschinità, in un’uguaglianza felice e antigerarchica”.
Anche nel “Trittico della Via Crucis” del 1969, realizzato quarant’anni prima dei 27 dipinti del 2010-11, prosegue Uribe Pereira, “l’elaborazione di questi temi si effettua attraverso l’abbondanza tranquilla e voluttuosa di tutte quelle forme che raggiungono la maturità alla fine degli anni settanta”; di anticipatorio ci sono le “distorsioni spazio-temporali”, come l’ambientazione moderna e certe inversioni nella sequenza, ma non si sente il dramma: “Questo è un Cristo morto già sceso dalla croce, come testimoniano le ferite sul costato e sulla mano destra; anche gli occhi chiusi sembrano suggerire l’idea della morte, ma il Cristo non giace accanto alla croce né all’interno del sepolcro: in posizione eretta sembra benedirci con un gesto che conosciamo dalle immagini del sacro Cuore di Gesù e il cui sangue continua a scorrere, come se fosse ancora vivo”.
Nelle stazioni della nuova “Via Crucis”, in numero quasi doppio delle 14 canoniche, aleggia invece il dramma, anche se le forme sono sempre opulente, i colori delicati, le linee arrotondate, nell’assoluto rispetto del suo stile personalissimo. Si può dire che queste forme turgide, altrimenti segno di abbandono felice all’opulenza, nella drammaticità della Passione rendono Cristo ancora più indifeso e vulnerabile, suscitando una pena indicibile nel vederlo vilipeso e oltraggiato, ferito e crocifisso.
Abbiamo così dato una risposta alle altre due domande poste all’inizio: mantiene il suo stile personalissimo delle forme ridondanti ma ne fa un elemento drammatico; assente ogni ironia o attenuazione del pathos della “Passione”.
I precedenti della “Via Crucis”, “Violencia in Colombia” e “Abu Ghraib”
Dobbiamo, però, trovare ancora risposta all’interrogativo di fondo su come sia stato spinto ad esprimere in modo così drammatico un tema in passato affrontato con la leggerezza che abbiamo ricordato. Uribe Pereira collega la “Via Crucis” ai due precedenti cicli pittorici sulla violenza in Colombia e sulle torture nel carcere di Abu Ghraib: “Trasformazioni. La presenza del dramma nell’opera di Botero”; con l’interrogativo: “Un nuovo capitolo nell’opera dell’artista?”
La sua risposta è nettamente affermativa. In passato, anche quando ha affrontato temi politici e sociali, nonché temi religiosi – compresa la stessa Via Crucis, come abbiamo ricordato – la sua cifra artistica è stata sempre la sensibilità umana con una tendenza verso l’aspetto esistenziale nella sua espressione più serena e tranquilla con inclinazione all’ironia e alla satira. Ciò vale anche per il tema della morte, come in “La corrida”, 1984, dipinto nel quale mancano toni drammatici: i tori pur nella loro imponenza sono inoffensivi, il sangue sembra un ornamento, l’insieme una festa collettiva.
Nei due cicli più recenti anteriori alla “Via Crucis”, invece, il dramma è insito nella violenza delle scene rappresentate. Il ciclo ispirato dal suo paese, “Violencia in Colombia”, è esplicito: in “Un consuelo” nel 2000 il grande scheletro che avvinghia dal di dietro una figura bendata, raffigura la morte con la pietà verso il prigioniero torturato, le mani legate e insanguinato come Cristo.
Appare evidente la partecipazione dell’artista al dramma del suo paese, sconvolto da decenni da un conflitto aspro come una guerra civile, da lui attribuito alla mancanza di giustizia sociale oltre che all’ignoranza; sembrerebbe che non si è sentito di restare estraneo a una vicenda che sconvolge da troppo tempo il suo paese, la sua sensibilità umana si ribella in un soprassalto di patriottismo.
Ma non è solo patriottico, la sua è una reazione appassionata alla violenza e all’ingiustizia in ogni latitudine. Lo dimostra la drammaticità che troviamo anche nelle opere del ciclo “Abu Ghraib”, il carcere nel quale l’esercito americano ha sottoposto i prigionieri a inenarrabili violenze e torture.
Botero si è impegnato in tali cicli contro la violenza per 14 mesi nel 2000, quasi una missione contro le violazioni dei diritti umani ovunque si verificano, nel suo paese o in altre parti del mondo. tanto più se perpetrate da una nazione come gli Stati Uniti che si presentano come modello di democrazia mentre si sono macchiati di “cose che sfuggono a qualsiasi norma di civiltà”. Commenta Uribe Pereira: “Perfettamente consapevole che l’arte non ha il potere di cambiare lo stato delle cose, Botero sa anche che l’arte ha però la capacità sociale di mettere in evidenza, e la potenza storica di promuovere, il ricordo e la memoria”.
L’arte come testimonianza per non dimenticare
Nel 2004 veniva definito “Testimonio de la barbarie” da Santiago Londono, riferendosi alle sue nuove donazioni al Museo Nazionale della Colombia; nel 2005 due interviste dai titoli eloquenti, in aprile a “Revista Diners” è in prima persona, “Fernando Botero. “Botero pinta el hottor de Abu Ghraib: la injustitia me hace hervir la sangre”, in giugno a “El Tiempo” è intitolata “Botero: el arte es en accusaciòn permanente”.
In una nuova intervista del febbraio 2007 al periodico “Revolution” intitolata “Fernando Botero y Abu Ghraib: No me pude quedar callando” ribadisce: “Quando i giornali smettono di parlare e la gente smette di parlare, l’arte rimane. Ci sono tanti avvenimenti storici conosciuti attraverso l’arte. I dipinti di Goya e ‘Guernica’ sono fatti che potrebbero essere dimenticati se non fosse per le immagini che li raccontano . Spero che questi dipinti fungano da testimonianza per tanto tempo”.
Sono parole eloquenti che Botero ha accompagnato con i fatti. Le due serie di opere che hanno precorso la “Via Crucis” le ha donate con l’intento di diffonderne la visione perché la sua testimonianza svolgesse un ruolo attivo nel muovere le coscienze. “Violencia in Colombia” la donò al Museo Nacional de Colombia, addirittura con la condizione che fosse presentata in una mostra itinerante nel paese e all’estero. “Abu Ghraib” fu donata all’Università californiana di Berkley.
Entrambe suscitarono polemiche, segno che l’iniziativa dell’artista aveva raggiunto il suo scopo: una testimonianza quanto più viene discussa tanto più si diffonde e si imprime nelle coscienze.
Le reazioni alla denuncia dell’artista
Rispetto a “Violencia in Colombia” le discussioni vertevano soprattutto sul piano artistico. Secondo alcuni critici il suo stile pittorico non era idoneo ai temi drammatici, le sue caratteristiche figure ridondanti non avrebbero potuto esprimere il ripudio della violenza, in particolare Andrés Hoyos ha espresso questa sua convinzione in “El Malpensante” del giugno-luglio 2004, in un articolo intitolato significativamente “Monotonia”. Mentre per Santiago Londono nel già citato “Testinonio de la barbarie” proprio la staticità e imponenza delle figure dava al dolore una rappresentazione toccante,giudizio su cui concordiamo; Elkin Robiano nella rottura con la sua pittura tradizionale placida e beata ha visto una “irradiazione della verità accompagnata da commozione”.
Le reazioni alla donazione di “Abu Ghraib” all’Università californiana furono invece soprattutto di tipo politico; fu vista, soprattutto da una parte del pubblico, come una provocazione agli Stati Uniti, come lamenta Botero in un’intervista a Milena Fernandez in “Arcadia” del novembre-dicembre 2009 osservando che nel registro dei visitatori ha trovato espressioni di odio e accuse di ingerenza negli affari interni degli americani. Lo stesso artista ne ha ridimensionato la portata dicendo che venivano da gruppi reazionari pericolosi ma ristretti, perché la maggioranza degli americani è contraria alla tortura. Un critico a lui favorevole, Arthur C. Danto in “Body in Pain”, su “La Nation” del novembre 2006, attribuisce alla serie una forza drammatica addirittura superiore a “Guernica” che appare decorativo a chi non ne conosce il significato; mentre in Botero “il suo tanto denigrato manierismo rende più intenso il nostro coinvolgimento rispetto alle immagini”. E ancora: “Raramente il dolore si è avvertito così da vicino o è stato così umiliante per chi lo ha perpetrato”.
Botero, nel già citato discorso con il quale nel 2007 presentò la serie negli Stati Uniti disse: “Ovviamente è più gradevole dipingere soggetti gradevoli. Durante tutta la vita ho scelto, con convinzione, di dipingere soggetti piacevoli. Nella storia dell’arte la maggior parte dei soggetti sono gradevoli ma, naturalmente, ci sono pittori che riescono a dare piacere attraverso temi drammatici”. E, con riferimento alle immagini “orribili” della Crocifissione dipinte dal pittore tedesco Grunewald, aggiunse: “Niente potrebbe essere più orribile, Lo spettatore vive prima il piacere estetico della bellezza e poi, con il tempo, avverte il dolore”.
Uribe Pereira , nel rievocare questi precedenti, collega la presentazione in America della “Via Crucis” a quella del ciclo “Abu Ghraib”. Non per la donazione, avendola donata al Museo della sua città natale Medellin dopo averla realizzata per il proprio 80° compleamnno; ma per la prima esposizione dato che scelse New York – dov’era peraltro una delle sedi del suo gallerista – e suscitò polemiche il fatto che la “Crocifissione”, una delle stazioni più spettacolari della “Via Crucis”, aveva come sfondo i grattacieli come se Cristo fosse stato crocifisso in quella città; per di più si vedono persone che passeggiano con carrozzine o fanno jogging, minuscole ma abbastanza nitide per coglierne l’indifferenza rispetto alla sua gigantesca figura che sovrasta il parco con i filari di alberi, sembra guardare in alto solo una madre con bambino..
Secondo il critico “l’artista esprime una nuova dichiarazione d’intenti in una duplice ottica: l’una artistica continuando ad andare contro corrente,come già aveva fatto da giovane, scegliendo con convinzione una proposta figurativa, e l’altra in favore della pittura, minacciate di morte l’una dall’astrazione e l’altra da un presunto storico conseguimento degli obiettivi”. E lo fa proprio nella terra dell’espressionismo astratto e del minimalismo, dell’arte concettuale e della Pop Art per citare solo alcune delle avanguardie trasgressive statunitensi, “collocando una crocifissione, un’opera che si oppone al flusso, che va contro le tendenze dominanti, giusto al centro della Grande Mela”.
Il retroterra culturale e il percorso nei due mondi
C’è un vasto retroterra nelle scelte artistiche di Botero considerando la sua costante presenza nei due mondi. In quello americano è vissuto al Sud, tra la Colombia – dal paese natale Medellin alla capitale Bogotà – e il Messico, in cui si stabilisce nel 1956 dopo il matrimonio, mentre nel 1958, a 26 anni, è nominato professore alla Scuola delle Belle Arti dell’Università nazionale della Colombia di Bogotà dove nel 1971 apre uno studio; ed è stato anche al Nord, nel 1967 si è trasferito a New York al Greenwich Village e nel 1971 ha spostato lo studio alla 30ma strada.
Nel mondo europeo lo troviamo ventunenne a Firenze nel 1953, nell’Accademia San Marco dove vive un’importante esperienza formativa, ammira maestri come Giotto e Tiziano,Masaccio, Piero della Francesca e Paolo Uccello, nel 1973 va a vivere a Parigi, conservando le altre sedi, nel 1983 si stabilisce in Toscana per due anni. Mantiene contemporaneamente diversi studi sparsi per il mondo, attualmente si divide tra Medellin, New York e Pietrasanta in continuo movimento da una parte all’altra, anche per seguire le sue mostre, l’elenco negli anni è fittissimo.
Da questa esperienza così vasta e articolata ha tratto la conclusione che “la storia dell’arte è la storia di coloro i quali hanno assunto posizioni forti” e non solo per le tematiche affrontate. Lo ha scritto nel 1990 aggiungendo che “il soggetto è, nello stesso tempo, molto e poco importante”, ciò che conta è che l’artista crei un proprio mondo riconoscibile.
Uribe Pereira concorda dicendo che “non si può identificare l’artista nell’adesione ad alcune tematiche o nel perdurare delle stesse, bisogna riferirsi, piuttosto, al linguaggio con cui le affronta e le interpreta”. E il linguaggio, nel caso di Botero, è così importante da rappresentare il suo sigillo inconfondibile, più che nella gran parte degli artisti, quale che sia il tema trattato, sacro o profano.
Pur in questa coerenza e costanza nel tempo, qualcosa è cambiato. “Il mondo boteriano – conclude il critico – è rimasto relativamente immutabile per quasi quattro decenni. Più che un tradimento, come qualcuno ha osservato, questa svolta, in cui fa incursione il dramma, dovrebbe essere considerata come un nuovo sviluppo, nel quale la continuità si accompagna alle trasformazioni che arricchiscono e potenziano l’opera e, di conseguenza, le interpretazioni che ne derivano”.
Guardando i dipinti del ciclo della “Via Crucis” ci si sente immersi nel grande mistero della svolta di un artista nel quale, comunque, prevale sempre la misura e la fedeltà al suo personalissimo modo di rappresentare l’umanità, con forme esuberanti che generalmente portano al sorriso anche per l’ironia che le anima, ma nella Passione accentuano fortemente il senso di pietà e di tenerezza.
Le 27 stazioni della “Via Crucis” di Botero
Sono 27 e non le 14 canoniche, le “stazioni” della “Via Crucis” di Botero, e 34 i disegni preparatori su carta – di 40 x 30 cm, 20 in matita e colori e 14 in matita e acquerello – che consentono di ripercorrere l’itinerario figurativo dei 27 dipinti, tutti del 2010-2011: per alcuni, come l’aiuto a Gesù di Simone il cireneo ci sono tre disegni, mentre i due disegni con Ponzio Pilato e quello nel Giardino degli ulivi non sono stati tradotti in un dipinto; nel Giardino degli ulivi la distanza siderale tra il Cristo orante in ginocchio e i discepoli addormentati nell’indifferenza è accentuata dalla sproporzione tra la sua gigantesca figura svettante e i loro piccoli corpi distesi. Quattro disegni sono sulle cadute di Cristo sotto la croce, due riferiti espressamente alla prima e seconda caduta, gli altri due genericamente intitolati “Gesù cade” non tradotti in dipinti.
I disegni a matita fanno risaltare ancora di più le forme ridondanti delle sue figure, mentre quelli ad acquerello creano delicati effetti cromatici. La sequenza grafica è un complemento alla visione dei dipinti, in quanto rende partecipi della tensione creativa del Maestro nel suo primo manifestarsi.
Dei 27 dipinti 8 superano i 2 metri di altezza e 13 il metro, 6 si svolgono in orizzontale, solo 4 sono della dimensione dei disegni. In 4 dipinti Gesù è a terra con la croce, 2 sono intitolati “Gesù cade per la prima volta” e “Gesù cade per la seconda volta”, gli altri due “Simome aiuta Gesù” e “Gesù e Veronica”, non c’è il dipinto “Gesù cade per la terza volta”.
La figura di Cristo è al centro della composizione nel “Bacio di Giuda” e in “Gesù e la moltitudine”, in “Gesù consola le donne” è sulla sinistra rispetto al gruppo di pie donne con le braccia tese parallele e le teste coperte dal velo che si confondono fino a formare un’unica immagine. In “Gesù incontra sua madre” la moltitudine è in secondo piano, fatta di teste sbiadite che non contano, Cristo guarda solo la genitrice in tunica bianca con un lungo velo nero.
Tre persone intorno a lui, sono quelle evangeliche, nella “Deposizione dalla croce” e nella “Sepoltura di Cristo”, a loro nel secondo dipinto si aggiunge un angelo che evidentemente prepara la Resurrezione, è l’unico segno perché quella che è considerata la 15^ stazione non viene espressa né nei disegni né nei dipinti.
C’è vicino a lui il soldato romano suo aguzzino in “Il flagello”e“Il cammino della sofferenza”, in “Gesù cade per la prima volta” e “Gesù spogliato delle vesti”: negli ultimi due è presente un’altra persona in atteggiamento diverso. poi il dipinto “Simone aiuta Gesù” mostra il cireneo caritatevole in primo piano; in “Gesù e la Veronica” si vede la Sacra sindone, il lenzuolo con il volto di Gesù è in primo piano in “Veronica”.
Dalla carità si passa all’amore materno nei tre dipinti in cui Cristo è solo con la madre, dopo quello in cui c’era anche la moltitudine ma sbiadita e lontana dai suoi pensieri. In “Maria e Gesù morto” lei lo sorregge amorevolmente quasi volesse rimetterlo in piedi per farlo tornare in vita, in “Pietà” è preso in braccio dalla madre in piedi monumentale, lui piccolo con la tenerezza di un bambino; mentre in “Cristo è morto” la Madonna si copre il volto in lacrime vegliando il figlio disteso in una camera ardente. Due dipinti più piccoli la mostrano in raccoglimento a mani giunte, “Madre di Cristo” a occhi chiusi, “Madre afflitta” con gli occhi aperti e il viso implorante rivolto al cielo. Di dimensioni maggiori “Testa di Cristo”, con la corona di spine e le gocce di sangue che gli scendono sul corpo. C’è sempre misura, l’opposto della “Passion” cinematografica di Mel Gibson, cruenta fino all’orrore. Botero non suscita repulsione da grand guignol, ma tanta tenerezza.
In 8 dipinti Cristo sembra da solo, non ci sono altre figure come la sua, a differenza delle altre stazioni della Via Crucis che abbiamo citato; ma a ben vedere non è mai solo. In “Cristo alla colonna” e in “Flagellazione di Cristo” c’è una piccola figura di donna alla finestra e una al balcone della propria casa con le braccia aperte quasi volesse abbracciarlo, in “Gesù cade per la seconda volta” si protende una mano verso di lui; invece le minuscole figure di passanti nel parco sono indifferenti rispetto alla “Crocifissione” tra i grattacieli che abbiamo già commentato. Sono piccole le figure dei soldati romani, rispetto a quelle dei dipinti con la flagellazione e le sofferenze, in “Gesù inchiodato alla croce” e “Crocifissione con il soldato”: la figura di Cristo giganteggia, sono i momenti culminanti della Passione, nel secondo si vede la lancia levata in alto verso il costato.
Andrebbero descritti i colori, che creano un’atmosfera raccolta, e gli ambienti, tipicamente domestici e sudamericani, a parte i grattacieli nella “Crocifissione”, come i volti della gente nei dipinti in cui è presente. Ma a questo punto soltanto la visione diretta delle immagini può rendere il clima drammatico e insieme sereno e consapevole della “Passione ” di Botero: la Passione di epoca antica di Cristo nel ciclo della “Via Crucis” che viene dopo le Passioni della nostra epoca nei cicli della violenza in Colombia e delle torture ad Abu Ghraib. Una trilogia di cicli della Passione che mostra come questi drammi si ripetono e l’arte ha il dovere e il merito di far rivivere per non dimenticare.
Info
Palazzo delle Esposizioni, via Nazionale 194, Roma. Da domenica a giovedì, tranne lunedì chiuso, ore 10,00-20,00, venerdì e sabato ore 10,00-22,30. Ingresso intero euro 10, ridotto euro 8. Catalogo “Botero. Via Crucis. La passione di Cristo”, introduzione di Conrado Uribe Pereira, Silvana Editoriale, febbraio 2016, pp. 92, bilingue italiano-inglese, formato 24 x 30, dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Per gli artisti e le correnti richiamati nel testo cfr.i nostri articoli; in questo sito per le mostre su Cezanne 24 e 31 dicembre 2013, Tiziano 10 e 15 maggio 2013, Cubisti e Picasso 16 maggio 2013, le correnti d’avanguardia americane nelle mostre su Guggenheim 22, 29 novembre e 11 dicembre 2012, ed Empire 31 maggio 2013; in “cultura.inabruzzo.it” per la mostra su Giotto 7 marzo 2009 (tale sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su questo sito)..
Foto
Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nel Vittoriano alla presentazione della mostra , si ringrazia “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia con i titolari dei diritti, in particolare il Museo di Medellin con l’artista, per l’opportunità offerta. Tra i 27 dipinti, tutti del 2010-2011, ne presentiamo 14 con i quali abbiamo riunito le 14 Stazioni di una “Via Crucis” canonica; manca “Gesù cade per la terza volta” che non figura tra i suoi dipinti, le altre immagini in cui è a terra con la croce, oltre alla prima e seconda caduta, sono con Simone il cireneo e la Veronica; le 14 Stazioni da noi individuate sono precedute dall’immagine di “Cristo tra la moltitudine” e sono seguite da “Christo ha muerto”, “La Pietà” e “Madre afflitta”. In apertura, “Gesù e la moltitudine”, 106 x 81 cm; seguono “Il flagello”, 123 x 94, e “Il cammino delle sofferenze”, 188 x 146; poi, “Gesù cade per la prima volta”, 139 x 158, e “Gesù cade per la seconda volta”, 27 x 31; quindi, “Gesù incontra sua madre”, 145 x 160, e “Simone aiuta Gesù”, 29 x 33; inoltre, “Gesù e Veronica”, 114 x 58, e “Altra caduta di Gesu“, 139 x 158; ancora, “Gesù consola le donne”, 138 x 195, e “Gesù spogliato delle vesti”, 168 x 130; continua, “Gesù inchiodato alla croce”, 180 x 129, e “Crocifissione”, 206 x 150; infine, “Deposizione dalla croce”, 229 x 127, e “Sepoltura di Cristo”, 150 x 303; in chiusura, “Cristo è morto”, 134 x 191, “La Pietà“, 238 x 147 e ““Madre afflitta”, 71 x 58.
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