Sei anni fa, il 23 ottobre 2015, usciva il secondo dei due articoli che abbiamo pubblicato nel sito web www.arteculturaoggi.com, sulla mostra fotografica nella chiesa della parrocchia romana “Santissimi Martiri dell’Uganda” nella quale ogni anno vengono presentate le immagini riprese nella missione religiosa, che diventa anche “reportage” fotografico, al villaggio in Uganda dov’è il santuario in memoria dei Martiri ugandesi collegato alla parocchia. Lo ripubblicheremo domani, non si tratta di celebrare tale insignificante anniversario, quanto di mantenere anche quest’anno, nel quale per la pandemia non c’è stata la missione e neppure la mostra, il richiamo dei religiosi alle speciali condizioni di vita africane e a quanto si fa per alleviarle. Riteniamo che questo sia un momento particolarmente significativo perchè l’Africa viene citata soprattutto come possibile fonte di nuovi contagi anche per i paesi ricchi data la bassissima poercentuale di vaccinati nonostante il programma di condivisione dei vaccini e i tanti proclami di assistenza che restano però quasi sempre sulla carta. Ci torneremo nella presentazioen del secondo articolo. L’articolo che segue ricorda la prima mostra nella stessa chiesa, è stato pubblicato sul sito sopra citato il 20 luglio 2013, domani l’articolo del 2015.
di Romano Maria Levante
Nella chiesa romana dei “Santi Martiri dell’Uganda” , a Poggio ameno nell’XI Municipio, una speciale mostra fotografica, aperta dal 30 giugno 2013 per alcune settimane, con le immagini della visita organizzata dalla sezione missionaria nel paese africano dove a fine ‘800 si sono immolati i giovani ugandesi elevati alla santità per il loro sacrificio e ai quali è stata intitolata la chiesa. Le fotografie ci fanno vivere momenti della vita semplice di un popolo giovane che viene aiutato dalla fede a trovare la sua strada tra la tradizione legata ai costumi primitivi e i bisogni indifferibili di istruzione e assistenza da soddisfare per una migliore e più umana qualità della vita.
Una mostra in una chiesa è sempre un fatto straordinario, soprattutto quando il luogo è qualcosa che va oltre una pur prestigiosa sede espositiva per un significato più profondo. E’ stato così per le mostre pittoriche “Arché”, con i dipinti di quattro grandi artisti contemporanei in un ritorno all’archetipo nell’abbraccio ai terremotati dell’Aquila, nella basilica di Santa Maria di Collemaggio, dall’abside scoperchiato dal sisma cui era stata data una copertura provvisoria; e “13 artisti oltre la notte” alla Madonna del Divino Amore, in una sala del nuovo santuario; è così per la mostra nella chiesa dei Santi Martiri dell’Uganda. Mentre la fotografia è un modo consueto di esprimere testimonianze e rivivere storie religiose, lo abbiamo visto nelle mostre fotografiche romane su Giovanni Paolo II, a Piazza Esedra, Palazzo Valentini e “Spazio 5”. Nel ricordare le mostre religiose non possiamo non citare le grandi esposizioni d’arte a Illegio sugli “Apocrifi”, ad Ancona nel Congresso eucaristico sull’Ultima cena “Alla mensa del Signore”; e, ancora prima, a Roma, Palazzo Venezia, su “Il Potere e la Grazia” dove sono stati esposti dipinti di artisti celebri sui grandi protagonisti della Chiesa, dagli eremiti ai martiri ai missionari. La mostra della chiesa dedicata ai Santi Martiri dell’Uganda nasce dalla sua consacrazione al loro martirio e dai frutti dell’azione dei missionari su un terreno ricettivo a un’evangelizzazione che ha avuto i suoi eroi.
I Santi martiri dell’Uganda, l’omaggio di due Pontefici
Attraverso la documentazione fotografica, la mostra racconta una storia in 22 capitoli sul popolo giovane e vitale dell’Uganda che costruisce il futuro con l’alimento della fede cristiana. E’ intitolata “Uganda, alle radici della nostra storia”, perché lì nasce la chiesa romana e la parrocchia.
In Uganda la fede fu portata dalla predicazione anglicana del 1877 cui seguì l’evangelizzazione del sud con i missionari, i Padri bianchi giunti dal lago Vittoria; nel nord i Comboniani dal 1911, lungo il Nilo nei grandi laghi.
Dopo meno di dieci anni i fedeli hanno versato il sangue del martirio: nel 1885-87 nel sud sono stati massacrati arsi vivi Carlo Lwanga e 21 compagni ; nel 1918 nel nord uccisi i giovanissimi catechisti Daudi Okelo e Jildo Jrwa. E’ una storia che ci limitiamo ad evocare, prima di seguire l’itinerario della mostra con i frutti sorprendenti di un’evangelizzazione eroica.
Carlo Lwanga era un’assistente del re, come lui tanti altri giovani di famiglie nobili avevano delle funzioni a corte; l’incontro con la fede lo portò a non accettare più il ruolo di efebo disponibile per i piaceri del sovrano, e così i suoi compagni, di qui il tremendo massacro. I giovani catechisti del nord avevano scelto la fede superando i dubbi dei genitori, furono uccisi con protestanti e islamici.
Nel 1964 la canonizzazione dei primi martiri da parte di Paolo VI che cinque anni dopo si reca in Uganda sul luogo del martirio. Ne riceve un’impressione così forte da desiderare che la prima chiesa costruita a Roma fosse dedicata a loro, e così è stato: il 20 giugno 1970 viene posta la prima pietra della chiesa di Poggio ameno nell’XI Municipio, nella zona dov’è il santuario delle Tre Fontane, non lontana da piazza Caduti della Montagnola, dove 42 civili e 11 militari morirono nella resistenza ai tedeschi e sono ricordati in un sacrario; coincidenza simbolica voluta dal caso o da qualcosa di indefinibile. Il 7 dicembre 1970 la parrocchia, nell’attesa della chiesa, celebra la prima messa in un locale di fortuna: “sotto il Portico”.
Bisognerà attendere dieci anni, e il 26 aprile 1980 un altro papa, Giovanni Paolo II, consacra la chiesa, la prima del suo pontificato, ai Santi Martiri dell’Uganda, le cui reliquie sono poste sotto l’altare. L’edificio religioso sorge ai margini di un piccolo parco, la costruzione fu tormentata da persistenti contestazioni di difesa ambientale, ne fu ridotta l’altezza rispetto al progetto originario; e fu concepita, nella struttura e nelle tinte, come una prosecuzione del parco, nel tempio si vede e si sente l’essenza di alberi e piante in una compenetrazione tra esterno e interno. Tutt’intorno l’area è una palestra di giochi e attività ricreative e sociali per adunate di ragazzi festosi con i loro sacerdoti, è come se lo spirito del parco aleggiasse nel vasto cortile attrezzato.
La mostra testimonia il ritorno all’Uganda dopo 30 anni, organizzato dal gruppo missionario della parrocchia, in testa il parroco don Luigi D’Errico, con don Davide Lees che si è impegnato molto nell’iniziativa e nella mostra: è un sacerdote giovane e ispirato, che infonde fiducia e serenità nella dedizione attiva alla chiesa e ai fedeli, lo abbiamo visto all’opera, oltre che nelle funzioni religiose, tra quasi duecento ragazzi scatenati e festanti in una sorta di campo estivo nell’area ricreativa della parrocchia. Prima le fotografie sono state collocate in quest’area in una sorta di anteprima, poi con la visita del Vescovo domenica 30 giugno sono state portate all’interno della chiesa: sono 22 ingrandimenti tra una stazione della via Crucis e l’altra, un percorso istruttivo ed edificante che si sviluppa in almeno 60 foto più piccole che declinano in dettaglio i vari “capitoli”.
Ci inoltriamo in quest’itinerario aiutati dalle ampie didascalie che sono una guida ragionata della storia, e da quanto ci dice don Davide: le fotografie sono state scattate dai quattro partecipanti alla visita in Uganda, nella diocesi di Lira, tra cui lui stesso, e le didascalie sono frutto di riflessioni comuni. Insiste nel sottolineare la partecipazione dell’intero gruppo a ciò che attiene alla mostra.
La fede in un percorso fotografico illuminante
Il percorso inizia dal santuario costruito in Uganda dopo la visita di Paolo VI nel luogo dell’uccisione di Carlo Lwanga a fine ‘800. All’inaugurazione del 1975 presenziò mons. Giuseppe Matarrese, ora vescovo, il primo parroco della chiesa romana dei Santi Martiri dell’Uganda, nella cui costruzione si batté con tutte le sue energie e capacità per superare gli ostacoli dei contestatori.
L’immagine del santuario ugandese, “Namugongo”, è suggestiva, ci sentiamo subito proiettati in un mondo diverso dal nostro dalla forma di capanna del tempio; si può vedere una continuità ideale con la chiesa romana che si ispira all’ambiente silvestre. A lato, davanti all’altare c’è un’altra fotografia celebrativa, “Il martirio”, riprende il sacrario che evoca il rogo con le eroiche vittime.
Vicino è esposta l’immagine delle capanne a forma conica di fango e paglia, nella loro concezione semplice e primitiva le forme più antiche di abitazione nella storia dell’uomo dopo le grotte preistoriche, sono tuttora le loro case; la dispensa è in una capanna più piccola e alta.
E’ questo il centro di un sistema composto da 80 parrocchie ciascuna delle quali comprende diecine di “Cappelle”, nuclei sparsi nel territorio dove l’attività viene svolta soprattutto da catechisti laici appositamente formati: è l’insegnamento che viene dall’esperienza ugandese, è possibile sopperire all’insufficiente numero di religiosi con il supporto di laici ai quali vengono affidate le attività che è possibile delegare.
In queste circostanze l’arrivo dei parroci e soprattutto la visita del vescovo sono momenti di liturgia e di raccoglimento cui si aggiunge la confessione: ne danno testimonianza le immagini singole e collettive, che rendono l’atmosfera di partecipazione popolare e di festa. Spesso vengono donate al presule delle pecore e delle capre,nel rendere concreta l’immagine del “Buon Pastore”, impersonato nelle foto dal vescovo Giuseppe Franzelli che ha accolto i confratelli venuti da Roma; altra assonanza, al Buon Pastore è dedicata la chiesa romana nel piazzale intitolato ai Caduti della Montagnola, prima ricordato. Tornando all’Uganda, “Il Vangelo” viene portato in processione e conservato in una capanna riservata insieme ai semi della semina successiva, a sottolineare il legame tra le due semine, entrambe necessarie alla vita e alla costruzione del futuro.
Abbiamo poi fotografie del “Battesimo” e della “Cresima”: moltissimi i battezzati, non solo piccoli ma anche adulti, non manca nulla, l’acqua e l’unzione, le candele e il vestito bianco; ci sono belle istantanee di gruppo e primi piani di una etnia dai tratti somatici molto regolari. Per la cresima vi sono immagini singole e d’insieme, che documentano la cerimonia svoltasi in presenza dei visitatori italiani, nella quale ben 460 hanno preso il sacramento dalle mani del Vescovo.
Dopo la parte strettamente religiosa del racconto fotografico ecco la parte nella quale emergono i costumi e il legame alle tradizioni; e insieme, le iniziative di assistenza e cura della popolazione che sono promosse dai missionari e vengono realizzate rispettando scrupolosamente le radici locali.
Le fotografie sui costumi e sulla vita ugandese
Il racconto fotografico si dipana con “Il villaggio”: abbiamo già visto le capanne a forma conica, di fango e mattoni con la copertura di frasche, il focolare è all’aperto, qualche animale domestico e intorno la terra da coltivare. Di lì vengono le risorse per la vita, quello che viene definito “Il pane quotidiano”: si vive con i frutti del suolo favoriti dall’acqua che il cielo manda. Le immagini rendono “Il clima” propizio, ci sono piogge improvvise, poi torna repentinamente il sereno, le precipitazioni sono tali da dare una natura rigogliosa e due raccolti l’anno. Però spesso per l’acqua potabile si deve andare lontano dove sono i pozzi, lo fanno tutti, adulti e ragazzi, lo vediamo nelle fotografie piccole con otri e recipienti. “La musica” è una componente delle cerimonie liturgiche, gli strumenti sono arpe e tamburi molto semplici, producono ritmi definiti “caldi e avvolgenti”.
E le provvidenze sociali e assistenziali? Sono necessarie in un territorio vastissimo dove il 50% della popolazione ha meno di 6 anni e le donne hanno in media 6 figli a testa. “L’infanzia” è resa dagli splendidi primi piani dei visi di bimbi e dalle foto collettive dei loro giochi, molto eloquenti.
Allora ecco la “La scuola”, anche qui una sorpresa: sono fotografate lunghe teorie di bambini che all’alba si incamminano, in tenuta scolastica, verso i luoghi lontani di insegnamento; le aule, che vediamo nelle immagini piccole, contengono 70-80 e anche più di 100 scolari, dinanzi a questi dati illustrati dalle immagini viene da sorridere pensando ai nostri parametri. Pur così la partecipazione è attenta e l’insegnamento efficace.
Poi i “Dispensari”, “a metà strada tra ambulatorio e ospedale”, in terre dalle grandi distanze è il primo presidio per la maternità e altre emergenze sanitarie, di lì se necessario vengono indirizzati all’ospedale più vicino; è possibile questa forma di assistenza per il personale esperto che con dedizione sopperisce ai pochi mezzi.
Mentre per la “Disabilità”, i malati di Aids e i rifugiati, le difficoltà nell’assistenza sono notevoli, ma non mancano iniziative caritatevoli, come quella dell’anziana suora missionaria che parlando dei suoi primi 35 assistiti diceva di aver fatto alzare in piedi e, se ciò non era stato possibile, messo in carrozzina, i bimbi che prima “erano a terra come bisce”. Sono “i poveri tra i poveri”, ma hanno “La forza dei deboli”, su cui fa leva la cooperativa benemerita Wawoto Cacel di Gulu, sorta per loro, impegnata nel toglierli dall’isolamento inserendoli nel lavoro tra conoscenze, esperienze e ambiente creativo. Altrettanto benemerito l'”Orfanotrofio” “Babies’ Home” dove trovano un clima sereno e familiare orfani e bimbi abbandonati o con genitori in situazioni difficili fino a tre anni di età senza distinzione di etnia o religione, provenienti da tutti i distretti del nord del paese; stupenda l’immagine del bimbo seduto a terra davanti alla parete celeste mentre gli si prepara il latte.
Le immagini-simbolo, un podio ideale
Tutto questo è illustrato da immagini che rappresentano un vero documentario. Ma c’è di più, ci sono tre immagini-simbolo dal contenuto profondo, un podio ideale con la foto festosa al culmine.
L’obiettivo fotografico è riuscito a rendere evidente il significato di “Cercare”, che don Davide ha fissato in un’immagine intensa con una didascalia altrettanto significativa: “Incontro di sguardi. Siamo di fronte, ma riusciamo a vederci veramente, a comprenderci? Quante barriere dobbiamo far cadere per superare le nostre categorie e capire l’altro, il valore del suo vivere e vederne veramente i bisogni, così da poterci accogliere ed amare per quello che siamo”. L’immagine ha colto gli occhi penetranti del bambino ugandese dietro un muretto-staccionata che rappresenterebbe la barriera da superare. In fondo, in questo “cercare” c’è il contenuto e il significato dell’azione missionaria, che è feconda quando ad essa si unisce un’accoglienza ricettiva. Del resto, l’attività dei catechisti laici è fondamentale per superare le difficoltà delle distanze e la dispersione sul territorio nella penuria di ecclesiastici. Un problema che non è escluso si possa presentare anche nel nostro paese con la crisi delle vocazioni e potrebbe trovare una risposta in questo modello di coinvolgimento attivo dei laici.
Oltre ai due occhi dietro la barriera di “cercare” ci ha colpito il viso dell’adulto ugandese in primo piano con dietro il religioso e altri visi assorti nell’immagine del “Battesimo”, esprime qualcosa di altrettanto intenso.
La terza immagine-simbolo di questa visita speciale del gruppo missionario nella lontana Uganda è festosa, una selva di braccia di bambini protese verso la mano di don Davide che svetta con la sua altezza; sono “Caramelle”, ma evocano qualcosa, anzi molto di più, fortemente voluto: il futuro. E’ quanto abbiamo cercato di raccontare seguendo la Fotostory della mostra nella parrocchia, per questo nel podio delle prime tre foto per noi è sul gradino più alto e l’abbiamo messa in apertura.
Così potrebbe terminare il nostro resoconto, non prima di aver sottolineato una notazione degli autori: “Lo scatto di una foto è stato anche un modo per avvicinarci e comunicare al di là della parola, a volte motivo di sorpresa per i più piccoli, rivedendosi nella foto appena scattata”; e l’immagine intitolata “Fotografie” documenta questi momenti di stupore e di gioia. Ma l’interesse giornalistico e soprattutto l’approfondimento culturale ci ha portati a voler andare oltre, a “cercare” anche noi: don Davide ci ha fatto incontrare padre Torquato Paolucci, già missionario in Uganda.
La testimonianza di padre Torquato, oltre 30 anni in Uganda
E’ stato un incontro rivelatore, oltre che coinvolgente per la carica umana di padre Torquato, che ha collaborato attivamente alla visita in Uganda del gruppo missionario. Un sorriso leggero illumina il suo sguardo sereno, la sua parola è chiara e ispirata. Dal 1972, poco più che trentenne, al 2010, missionario comboniano vissuto 32 anni in Uganda, zona di Logongu, ai confini con Sudan e Congo, 300 chilometri a nord ovest dalla zona dove sono state scattate le foto della mostra; una lunghissima permanenza con un’interruzione di sette anni in cui è tornato in Italia.
Oggi la diocesi di Lira nel Nord del paese, in cui ha operato, con un vescovo comboniano ha 18 parrocchie, un totale di 1200 “cappelle” disperse nel territorio e solo 50 sacerdoti: le “cappelle” sono affidate ai catechisti laici che guidano anche la liturgia della parola e il Vangelo, la pastorale e il catechismo. Quando vi andò missionario, in che situazione si trovava il paese? gli chiediamo.
Fu un inizio difficile nel villaggio di origine di Amin Dada, il dittatore che ha dominato l’Uganda dal 1971 al 1979 con la sua ferocia sanguinaria: ruppe subito i rapporti con l’India, espellendo gli indiani, e con l’Occidente, isolando il paese e condannandolo all’impoverimento, esaurite tutte le risorse disponibili; scatenò persecuzioni razziali e guerre tribali con centinaia di migliaia di vittime.
Sul piano religioso e soprattutto umano, il racconto del missionario ci ha consentito di comprendere meglio la realtà documentata dalle immagini. Dell’importanza dei catechisti abbiamo detto, e padre Torquato ce l’ha documentata, ora apprendiamo da lui che hanno una formazione molto solida, lo sa bene perché negli ultimi sette anni ha diretto in Uganda il centro per catechisti. Ce ne descrive la rigorosa formazione: un anno di preparazione, poi quattro anni a svolgere attività in comunità, quindi due anni di formazione finale, che si svolge nel centro lontano dalle famiglie dove possono tornare solo ogni tre mesi per trenta giorni. Il sacrificio per le famiglie, spesso con diversi figli, è notevole, considerando che viene a mancare il sostegno e la protezione dell’uomo su moglie e figli, per questo si chiede l’approvazione della moglie prima di accogliere la domanda; poche le catechiste donne perché per lo più la presenza dei figli piccoli lo impedisce. La scelta definitiva del catechista locale spetta comunque alla comunità che decide se accettarlo.
Sacerdoti africani e catechisti locali sono sempre più i protagonisti della chiesa ugandese, padre Torquato ci parla dell’impressione avuta nel dicembre 2012 quando, dopo due anni, è tornato nella diocesi per il centenario dell’arrivo dei comboniani nel 1912, con la partecipazione del cardinale Filoni prefetto della Congregazione per l’evangelizzazione, e del presidente della Repubblica d’Uganda: c’erano oltre 50.000 persone, venute anche dopo giorni di cammino dormendo sotto gli alberi. Ebbene, tanti sacerdoti africani, solo 7-8 missionari: il passaggio di testimone è ormai in atto.
Il 60% sono cattolici, meno del 30% protestanti, il 10% mussulmani, pochissimi i pagani, seguaci delle credenze animiste che i missionari trovarono in quella terra. Chiediamo quale è stata la spinta che ha portato alle conversioni di massa, padre Torquato ha le idee chiare: “Il loro dio lo identificavano nella natura, dal fiume agli alberi, ne avevano una percezione alquanto vaga; sentivano invece molto gli spiriti ai quali facevano risalire i fatti della vita. Il cristianesimo li ha affascinati perché vi hanno trovato un riferimento sicuro, la spinta della speranza”. Quando nell’imperversare di una delle tante guerre che hanno insanguinato il paese per vent’anni furono uccisi 13 missionari, temevano che gli altri, tra cui padre Torquato, lasciassero quella terra, cosa che non avvenne. “Se ve ne foste andati, dissero, per la nostra vita sarebbe finito tutto, perché avremmo perduto la speranza”.
Una speranza di fede e una speranza di vita, dato che “la vita cristiana è una vita concreta, espressa anche nelle celebrazioni rituali che durano un’eternità. Non potevo fare una rapida visita per proseguire il giro in altre comunità, dovevo restare con loro l’intera giornata, pranzare insieme, condividerne tutti i momenti”. Padre Torquato ci ha fatto capire anche come nascono i progetti e le iniziative assistenziali di cui abbiamo visto eloquenti immagini nella mostra fotografica. Alla base c’è il Cristianesimo concreto, che manifesta nelle opere il profondo credo interiore. Le scuole e i pozzi per l’acqua, i dispensari e gli ospedali sono “espressione dell’amore di Cristo perché i suoi figli possano avere una vita migliore”, è come se le iniziative avessero un’ispirazione superiore.
A volte l’idea di un progetto nasce addirittura dai gruppi di 10-15 componenti che si riuniscono per meditare sulla Bibbia – ci dice tra l’altro che è riuscito a farla tradurre nella lingua locale, il logbara, lingua nilotica, una delle 27 lingue del paese, altre sono bantu, si studia e si parla l’inglese – iniziando con la preghiera, poi leggendo due volte il brano prescelto, quindi meditazione e interpretazione di ciascuno su ciò che significa per la propria vita e per la comunità; di qui la riflessione si può allargare nella concretezza del Cristianesimo vissuto con iniziative e progetti.
Chiediamo a padre Torquato, al termine dell’incontro, il suo sentimento da missionario rientrato in Italia dopo trent’anni trascorsi in Uganda. “Il mal d’Africa per me è sentire la mancanza di questa gente, che mi ha dato molto di più di quanto io ho potuto dare loro”, risponde.
La prova la troviamo in tre episodi toccanti che ci ha raccontato nella conversazione, non li ha rievocati riferendoli a questa conclusione, ma ci sembra ne siano la logica edificante premessa.
Il primo è all’inizio della missione, nel 1972, mentre si recava in auto in una località lontana per svolgere l’attività pastorale, su una strada fangosa, nell’ambiente inospitale, difficile e ostile che lo spingeva a voler chiedere di essere spostato in una sede più consona alle sue aspettative. Ebbene, vede una giovane donna con le stampelle che si muove a fatica nel fango, mancano 6-7 chilometri alla meta, li avrebbe percorsi a piedi con una gamba irrigidita dalla paralisi. “Perché non si limita a pregare a casa?” le chiede padre Torquato. La risposta: “Ho 18 anni, in queste condizioni nessuno mi sposerà, non avrò una famiglia, non vedo prospettive, ma quando prendo Cristo dentro di me con la comunione la mia vita si illumina, acquista un senso, un valore”. Una lezione di vita e di fede per il missionario che stava per arrendersi alle prime difficoltà, di qui la sua ferma decisione di restare.
Un altro episodio al termine dei trent’anni vissuti da missionario in Uganda, nel 2010, allorché i superiori gli hanno chiesto di tornare in Italia. Questa volta non vorrebbe farlo, è lo stato d’animo opposto a quello dell’episodio all’inizio del mandato missionario. La lezione di vita e di fede viene da un’altra ugandese, sposata a un aspirante catechista con 6 o 8 figli, padre Torquato prima di accettarlo ha voluto verificare di persona che la moglie fosse consenziente, gli sembrava difficile dato il peso familiare. La donna, confermandogli l’assenso, lo motiva così: “Se Dio ha chiamato a sé mio marito con questa vocazione, chi sono io per andare contro il suo volere?” E padre Torquato collega la chiamata dei superiori al volere di Dio con lo stesso interrogativo dalla risposta scontata: “Chi sono io per andare contro il suo volere?”. Di qui la pronta accettazione superando ogni esitazione.
Ma l’episodio ancora più toccante, se è possibile una graduatoria in questo diapason di sentimenti, si trova tra i due ora evocati, nel corso di una delle guerre sanguinose che hanno sconvolto il paese. Padre Torquato stava tornando indietro nella tipografia dove si era recato con un altro missionario la cui scelta di vita era stata eroica essendo figlio unico di madre vedova. Ebbene, la loro auto viene affiancata da un veicolo da cui spuntano due fucili spianati, il confratello al volante non si ferma all’intimazione degli uomini armati, l’auto è delle suore e non vuole perderla; partono i colpi, padre Torquato si china e sente sibilare i proiettili sopra la testa, il suo compagno viene colpito dietro il collo, muore sul colpo. L’auto si infila fra i cespugli e si ferma, gli assassini depredano ciò che possono sui corpi, il suo è così insanguinato che non si accorgono che è vivo. Quando viene soccorso e portato in ospedale è livido di rabbia, sente salire una violenta reazione contro chi ha commesso il barbaro assassinio di un missionario a lui così vicino. Le due infermiere che lo curano, a un certo punto gli chiedono di unirsi a loro nella preghiera: intendono rivolgerla alla vittima ma anche ai suoi assassini. Tutto il suo essere si ribella, non gli si può chiedere di perdonare, tale è stato l’orrore, finché sente il groppo salire alla gola irresistibile e poi sciogliersi in un pianto irrefrenabile. Allora la sua preghiera si leva anche per gli assassini, ha perdonato.
Il missionario ci dice che nella sua attività pastorale, nella predicazione, invitava sempre al perdono, unico modo per essere in pace con se stessi oltre che con gli altri; ma quella volta proprio lui non riusciva a metterlo in pratica, fino all’invito delle ugandesi: “L’Africa mi ha dato il dono del perdono!”, esclama. E aggiunge: “Pensavo di portare Cristo io, l’ho trovato là, era con loro”.
Salutiamo padre Torquato con qualcosa di nuovo nel cuore, ce lo hanno dato i suoi racconti e i suoi occhi con un sorriso speciale, quello della perfetta letizia. Rivediamo gli occhi del bimbo ugandese dietro il muretto-staccionata, il titolo della foto era “cercare”: la barriera è caduta, la ricerca si è conclusa.
Ci accompagnano le sue parole, dopo una trentennale attività missionaria: “La mia vita è bella” è il suo saluto. Ripensiamo al suo “mal d’Africa”, sente che gli manca quanto di edificante gli ha dato un paese nella vita semplice alimentata dalla fede e dalle opere, anche se lo serba nel cuore.
Le fotografie della mostra ci sembra ne ricevano una nuova luce, le scorriamo un’ultima volta con emozione, presi ancora di più dalla suggestione di un qualcosa di molto profondo, di superiore.
Info
Chiesa dei Santissimi Martiri dell’Uganda, nel Largo con tale nome, Roma, Poggio ameno, ‘XI Municipio. Cfr. su questa mostra il nostro articolo in “fotografia.guidaconsumatore.it” il 18 luglio 2013. Per le mostre citate cfr. i nostri servizi: in “cultura.inabruzzo.it” su “Arché” il 9 dicembre 2011, in questo sito su “Divino Amore, 13 artisti oltre la notte” 12 maggio 2013, in “cultura.abruzzoworld.com” sulla mostra “Apocrifi nell’arte ” il 29 settembre e 3 ottobre 2009, e su “Il Potere e la Grazia” il 28 e 29 gennaio 2010; in questo sito sul “Congresso eucaristico e la mostra ‘Alla mensa del Signore'” il 29 giugno 2013.Per altri temi religiosi, in “cultura.abruzzoworld.com” i nostri servizi “Perdonanza 2009” il 3 settembre 2009, e in questo sito “Preghiere per l’Italia” il 9 luglio 2013. In materia di archeologia cristiana i nostri servizi in “notizie.antika.it”: sulla mostra di Assisi “L’archeologia del colore” il 23, 30 aprile e 7 maggio 2010, sui resti dell’antica basilica di “Santa Maria Aprutiensis a Teramo” il 29 ottobre 2010, sulla “Cripta della Cattedrale di Palermo” il 10 dicembre 2010; su ipogei cristiani romani, i “Sotterranei di Santa Maria Maggiore” il 5 marzo 2010, la “Cripta di santa Maria in Lata” con la cella di san Paolo il 22 ottobre 2012; sull’archeologia umana, le “Catacombe dei Cappuccini di Palermo” il 20 novembre e 4 dicembre 2010, e il “Nuovo museo dei Cappuccini di Roma” il16 luglio 2012. Per l’arte africana in “cultura.abruzzoworld.com” il nostro servizio “Africa? Una nuova storia”, il 15 e 17 gennaio 2010.
Foto
Le immagini sono state fornite da don Davide Lees per il gruppo missionario della parrocchia dei Santi Martiri dell’Uganda, che si ringrazia con i titolari dei diritti. In apertura, “Caramelle”, don Davide le distribuisce ai piccoli ugandesi, seguono “Namugongo” il Santuario, e “Il villaggio”, “Orfanotrofio” e “La forza dei deboli” con “i poveri tra i poveri” al lavoro, poi“Battesimo” e “Cercare”; in chiusura l’altare della chiesa romana dei Santissimi Martiri dell’Uganda con don Davide, davanti le foto del santuario ugandese “Namugongo” (a sinistra.) e del sacrario “Il Martirio” (a destra), altre foto piccole sulla parete di fondo.