di Romano Maria Levante
All’inizio dell’anno che vede Matera Capitale europea della cultura, nella Casina delle Civette a Villa Torlonia, dal 9 febbraio al 20 aprile 2019, la mostra “Il mito rivisitato. Le maschere arcaiche della Basilicata di Nicola Toce” presenta uno spaccato molto particolare del patrimonio culturale della regione: 38 opere tra maschere e sculture, figure favolistiche che nascono da antiche leggende portate da una tradizione molto viva nella civiltà contadina. La mostra, organizzata dall’Agenzia di Promozione Territoriale della Basilicata, con l’assessore Mariano Luigi Schiavone, che l’ha presentata, insieme a Nicola Toce, è stata progettata da Maria Grazia Massafra, Nicola Toce e Francesca Romana Uccella che l’ha curata con il catalogo De Luca Editori d’Arte, Servizi Museali di Zétema. Fa parte delle manifestazione sul Carnevale lucano, nei suoi miti, riti e valori, espressa alla presentazione della mostra attraverso figure e momenti di intenso folclore.
“Il mito rivisitato” ha confermato una peculiarità altamente positiva delle mostre ospitate nella splendida cornice della “Casina delle Civette”, tra il verde dei giardini di Villa Torlonia e le vetrine liberty della caratteristica residenza: il gusto della scoperta di opere ed artisti fuori del comune, su tematiche poco note o dimenticate. Per questo si ha il supporto dei preziosi cataloghi nei quali sono contenuti gli approfondimenti colti di Maria Grazia Massafra, responsabile del coordinamento museale e delle mostre temporanee. E’ stato così nel 2017 per la mostra collettiva sulle “Civette“, le personali di Walsulle “Sculture ludiche di putti”, e di Annalia Amedeosulle “Sinestesie ceramiche”, nel 2018 per le personali di Piero Gentili sulle “Soglie di luce”, di Paolo Martellotti sul “Bosco incantato” e di Vittorio Favasui “Libri d’artista”, il 2019 inizia con le “Maschere arcaiche” di Nicola Toce.
Le maschere arcaiche e la cartapesta
Questa volta si tratta delle maschere arcaiche che la Massafra presenta così: “La maschera e il suo concetto rappresenta un elemento imprescindibile della nostra cultura. La maschera rappresenta un mero travestimento dell’uomo, necessario per celare la dissonanza tra forma e contenuto e necessario a contrastare la paura e la debolezza dell’individuo di fronte agli eventi di trasformazione o di ‘passaggio’ della propria esistenza”.
Ed ecco come definisce quelle presentate nella mostra: “Le maschere create da Nicola Toce vivono una vita espressiva ed estetica anche al di fuori del loro uso funzionale: incarnano immagini di spiriti e di entità sovrumane, un ‘altro’ volto, diverso e inusuale, talvolta mostruoso e inquietante. Le sue maschere vivono in una zona intermedia della realtà, i cui confini non sono definiti, e permettono la transizione dal mondo umano a un ‘altrove’ non umano”. Così sono evocati i riferimenti primari: “Le maschere rinviano a un’epoca originaria, a un tempo primordiale in cui la terra era abitata da antenati mitici, che possedevano qualità e poteri sconosciuti agli uomini odierni”.
Una combinazione tra realtà deformata e “forma contaminata e fantastica”, espressione di miti e leggende che vengono da molto lontano nel tempo ma fanno parte del vissuto collettivo radicato nell’immaginario popolare, e per questo “favoriscono la rappresentazione simbolica, la riflessione metafisica e l’esegesi esoterica di un sapere tradizionale che viene consegnato alle nuove generazioni”.
Nel teatro greco – decorato da grandi maschere – e in quello romano, avevano una funzione ben precisa, quella di potenziare la visione degli spettatori enfatizzando, con la deformazione espressive, il carattere dei personaggi, e spesso anche l’ascolto amplificandone la voce. Mentre nella commedia dell’arte italiana le maschere nascondevano il volto dell’attore per meglio identificarlo nel personaggio; e non si possono dimenticare le maschere, per lo più a carattere regionale, non limitate al volto ma estese all’intera figura, che hanno impersonato caratteri inconfondibili, si pensi ad Arlecchimo e Pulcinella, Gianduia e il dottor Balanzone. Tuttavia sono altro rispetto al “mito rivisitato”, che ha un’eco intensa, arcaica e favolistica.
La Massafra collega alle maschere mitiche il materiale usato e la tecnica adottata, ricordando che la loro realizzazione richiede qualità artigianali e insieme artistiche, e una particolare ispirazione, dato che nell’epoca antica erano associate alla divinità e rappresentavano la traduzione di quanto era apparso allo “sciamano” nei suoi “viaggi” nel mondo degli spiriti. Toce, tuttavia, non si limita a riprodurre immagini tradizionali, ma nel passaggio tra divinità pagane e religione cristiana le reinterpreta sotto il profilo estetico con creazioni originali pur se aderenti alle leggende popolari più diffuse.
Ma andiamo al materiale, che condiziona la tecnica di lavorazione e viceversa, in una correlazione molto stretta, altra peculiarità di queste realizzazioni. Si tratta di materiale povero, con l’argilla per le forme e i volumi, ma soprattutto la cartapesta, su cui vengono applicate polveri e colorazioni sempre con elementi naturali, e in proposito va considerato che la cartapesta ha una lunga storia. Sempre la Massafra la ricostruisce a partire dal ‘400 quando era utilizzata per modelli preparatori, come i bozzetti; ma poi fu usata addirittura per uno spettacolare monumento semovente dedicato a Carlo V da Beccalumi, e venne sperimentata anche da artisti del calibro di Jacopo della Quercia e Donatello, oltre che dalle botteghe fiorentine, secondo le notizie fornite dal Vasari.
Da Firenze a Roma, la cartapesta fu impiegata dal Bernini per i suoi modelli tradotti in opere scultoree e decorative, e si diffuse anche per il suo costo molto contenuto; la usò pure Algardi per i modelli delle sue sculture. Nel ‘700 e nell’800 l’uso si estese alle suppellettili di uso comune, alle decorazioni architettoniche e alle scenografie teatrali, finché nel ‘900 il suo impiego si è ridotto, riservato essenzialmente agli allestimenti teatrali e cinematografici; infine l’avvento della plastica ha fatto sì che la cartapesta venga utilizzata essenzialmente per le feste legate alle tradizioni popolari, come nel nostro caso.
Il processo creativo nelle confidenze dell’autore delle maschere
Come l’autore delle maschere del “mito rivisitato” si inserisca in questo processo artistico e artigianale insieme, che impatta nella tradizione più antica e radicata nell’immaginario popolare, lo dice Antonio Calbi: “Lo immaginiamo al lavoro, Nicola Toce, in un laboratorio alchemico di visioni prima che laboratorio di tecniche e materie al servizio di invenzioni formali; quasi un artista ‘sciamano’ all’opera posseduto da un flusso visionario, con le mani che impastano, modellano, colorano, seguendo un fluire interiore che mescola paure ancestrali, proprie e di tutti, biografia primigenia e insieme collettiva, il proprio magma interiore condiviso come in certi eventi ‘fluxus’ – qui in versione privata, però – e suggestioni spinte e ispirate da fonti diverse. C’è un mondo, un universo semantico, insomma, assai articolato in questa creatività”.
Addentriamoci in quel mondo mediante le confidenze dello stesso Toce nel lungo dialogo con Vincenzo Postiglione, che ne ha approfondito motivazioni e forme espressive.L’autore si apre ai ricordi, partendo dai racconti ascoltati da piccolo, intorno al focolare, sugli animali parlanti a Natale, quando si doveva esorcizzare il demone che li possedeva con dei salti scaramantici; le maschere, espressioni di questo ambiente di favola, lo affascinavano e la disponibilità “in loco” dell’argilla con cui si potevano modellare, come avveniva per pipe, fischietti e altro, faceva il resto: “Ognuno modellava la propria maschera, ogni anno. Ogni persona che si vestiva, si travestiva, diciamo. Solo i maschi avevano quest’impegno.
Durante l’inverno, prima di Carnevale, ognuno preparava la propria maschera in segreto. Era bello, ecco come avveniva: “Si realizzavano tante forme particolari. Non c’era una sola mano artistica, ma c’erano più forme”. La festa più importante dell’anno dopo il Natale era il Carnevale, e muoveva tante energie perché si usciva dall’inverno e si scatenava la fantasia con qualche trasgressione non ammessa in altri periodi. Con lo studio della scultura alla Scuola d’arte nasce il desiderio di portare tutto questo fuori dal ristretto ambito del carnevale locale, “rimanendo sempre però legato al racconto della maschera, a quello che dicevano gli antichi, i vecchi”. E lo ha fatto approfondendo il tema al Museo archeologico dove, in una coppa del VII sec. a. C. rinvenuta proprio nel suo paese, Aliano, ha trovato maschere molto simili a quelle della tradizione locale; e parlando con i vecchi i quali gli dicevano che “uscivano dai vasi” figure di satiri con le corna di stampo demoniaco.
Lo ha verificato nelle feste di carnevale, quando le maschere corrono urlando in modo aggressivo e vengono “placate” con la musica e con il vino, quasi un tributo per esorcizzare gli spiriti demoniaci da cui sono invasate. E anche dopo il periodo di carnevale, con la processione del 1° novembre le maschere restano per il passaggio nell’oltretomba, dove ci sono i demoni verso i quali si ha sempre bisogno di un esorcismo salvifico: come a Natale i demoni entrano negli animali, così nella festa dei morti entrano nelle maschere, in modo che si possa avere un contatto con loro, dialogare e, lo ripetiamo, esorcizzarli in qualche modo. Così, osserva Padiglione, “all’irruenza del diavolo si offre una qualche pacificazione”.
Forse anche per questo, ci vien fatto di pensare, sono tante le maschere con fogge animalesche, in tal modo viene favorita la mediazione con il demone che deve essere neutralizzato Le donne riescono ad eludere il divieto di partecipare alle sfilate di Carnevale, ad Aliano travestendosi da “pacchiane”, a Tricarico da mucche e tori, sempre in gran segreto.
L’artista come realizza il suo sogno di portare nel mondo questo messaggio artistico facendolo uscire dai ristretti confini locali ma restando legato alla tradizione nella sua creatività? Lo fa alimentandosi a quei racconti che ha sentito ripetere tante volte e tornando ad abbeverarsi alle fonti della sua fantasia: “Sì, continuamente, ogniqualvolta vado in Basilicata o, anche se non scendo, comunque ho una gran quantità di immagini che ogni giorno mi si presentano”. Questo legame, che è anche un legame con il passato, è dunque fondamentale. Ma non si sente relegato a una dimensione superata, mantenuta solo come un reperto da conservare: “C’è tanta gente che è interessata. E’ un modo di raccontare con la maschera. Io racconto con la maschera, attraverso la maschera si può arrivare a capire quello che succede in questo piccolo paese, ma non solo, cosa succede in Basilicata”.
Affinché ciò avvenga la maschera deve essere vista come qualcosa di vivo: “E’ dinamica, c’è l’occhio che magari è un po’ inclinato, e quindi è espressivo. Poi la maschera non deve essere statica, sennò non funziona. L’asimmetria rende il movimento e, quando la maschera viene indossata, funziona. La maschera è maschera finché viene indossata. Come uno strumento”. Altrimenti resta un oggetto senza vita, di legno o di cartapesta, non è più una vera maschera.
Nicola Toce aggiunge che le sue maschere “hanno ballato, sono state usate a teatro. Questo era il mio progetto, farle uscire dal contesto, farle vivere in un’altra dimensione”. Ne abbiamo un esempio alla “Dipendenza” della Casina delle Civette con i figuranti lucani che intorno alle maschere fissate nei pannelli espositivi fanno rivivere qualche momento carnascialesco, con le lunghissime bardature simili a capigliature impazzite che coprono i volti quasi fossero fioriture arboree, o i voluminosi copricapo, come caschi vegetali lussureggianti che rimandano ai frutti copiosi della terra; non è mancato un complesso folcloristico con una danzatrice che senza maschera nè vesti pittoresche nel suo ballo vorticoso ha messo a confronto due epoche, due mondi, in continuità ideale tra loro pur nella vistosa evoluzione di forme e contenuti.
Tutto questo si traduce nell’ispirazione creatrice che Toce esprime così: “Mi rifaccio alla fantasia che il racconto ha stimolato, e stimola tuttora. E’ una continua evoluzione, di forme e di linee, grazie a quello che mi hanno raccontato e mi raccontano tuttora. Quindi cerco di trasmettere con le forme, con i colori quello che mi è stato detto e quello che riesco a percepire e a vedere.”.
Il risultato viene così descritto da Calbi: “Queste maschere oltre ad essere opere d’arte, vivono anche e insieme una seconda dimensione, quella di essere sintesi straordinarie di tradizioni e riti che hanno attraversato i secoli, che a tratti sopravvivono tuttora, o che nel corso degli ultimi decenni sono state resuscitate, se così possiamo dire, anche se in forme diverse, che scivolano più verso il folclore che nel recupero, probabilmente impossibile, della radice rituale, tribale, originaria”.
Le maschere arcaiche di Nicola Toce
E’ il momento di passare in rassegna le maschere esposte nella Casina delle Civette collegandole a questa “radice rituale, tribale, originaria” che sopravvive in qualche misura nelle espressioni tradizionali del carnevale lucano. Le maschere sono inserite in pannelli con le rispettive denominazioni e sono collegate alla provenienza territoriale.
Notiamo qualcosa di inatteso: guardandole prima frontalmente poi di profilo l’espressione cambia, come avviene quando si conversa con qualcuno, è una prova che sono dinamiche e non statiche, sembrano vive nella loro deformata fisognomica favolistica. Ce se ne rende conto anche dalle immagini riprodotte nel catalogo nelle due posizioni citate, straordinario!
La curatrice Francesca Romana Uccella introduce la mostra affermando che “oltre a volti antropomorfi, animali fantastici, creature magiche, travestimenti, spiriti ed abitatori delle argille, filo conduttore dell’esposizione sono le narrazioni che le maschere – realizzate con tecniche tradizionali di lavorazione e decorazione della cartapesta – racconteranno ai visitatori, trasportandoli in una dimensione altra, accogliente e spaesante, propria della Basilicata antica e contemporanea”.
Sono volti umani con deformazioni che non sembrano caricaturali, ma identitarie, in quanto sottolineano aspetti fisognomici che corrispondono ai loro significati simbolici collegati alle storie e leggende alla base dei racconti di cui sono protagoniste. Dalle sopracciglia aggrottate in modo abnorme alle lingue gonfie protese non in uno sberleffo perché le espressioni sono molto dure, in qualche caso dentature digrignanti da vampiro, teste umane con le corna; vediamo teste di animali, naturalmente del maiale, di cui abbiamo ricordato le leggende sugli animali parlanti natalizi perché posseduti dal demonio, dell’ariete e anche dell’elefante con la proboscide. Colpisce la straordinaria resa cromatica, si va dall’oro all’ocra, dal verde, al rosa e all’arancio in infinite sfumature che danno mobilità a quei volti, li rendono quanto mai espressivi.
La curatrice nota al riguardo che “la tecnica utilizzata per la creazione delle maschere è antica e tradizionale, ma nella realizzazione delle forme appare rivoluzionaria e innovativa. Il trattamento della carta e dell’argilla, l’espressività ottenuta con la combinazione delle tinte, l’uso delle terre e l’incisività della focheggiatura fanno di ogni pezzo un unicum irripetibile”; i materiali, dai colori alle colle, sono naturali, di origine animale o vegetale.
Del resto, l’ispirazione che porta a realizzare la maschera senza alcun bozzetto viene dalla natura silvo-pastorale del territorio, ed è significativo che anche i suoi componenti materiali restino in questo ambito, lo stesso nel quale sono sorte le storie fantastiche di cui la maschera è la rappresentazione nei riti carnascialeschi lucani.
I riti popolari del carnevale lucano
Nella “Dipendenza” al pianterreno della Casina delle Civette vediamo grandi pannelli con le maschere, concernenti il paese natale, Aliano, poi Tricarico e Montecagnano, i gruppi di maschere hanno ciascuno un nome ed evocano i riti carnascialeschi dei rispettivi paesi, la curatrice ne fornisce immagini molto vive, sono protagoniste non solo le maschere ma l’intero “travestimento”.
Ad Aliano, gli uomini oltre alla maschera portano il “cappellone” fatto di strisce di carta colorata, mutandoni fino alle caviglie e una maglia, uno scialle o foulard sulle spalle con una serie di piccoli campanelli usati per le capre che copre il busto, poi un piccolo frustino di pelle per colpire simbolicamente gli astanti, in modo da farli partecipare alla sfilata; le mani sono guantate, si mantiene in incognito l’identità del figurante, se si può chiamare così, e per questo la preparazione della maschera avviene in segreto e si rinnova ogni anno, al massimo si scambia con un amico nella più assoluta riservatezza. Le sfilate terminano con una farsa teatrale, detta “Frase”, che porta l’attualità in una manifestazione che viene dal passato, vengono evocati in chiave comica i fatti avvenuti nell’anno trascorso. Come nella comicità circense, la farsa è accompagnata dal dolore, al termine viene processato il Carnevale che muore nel pianto sconsolato della moglie “Quaremma”.
Nel Carnevale di Tricarico, il più noto insieme a quello di Aliano, gli uomini si travestono soprattutto da animali, evocando la millenaria transumanza, in particolare da mucche con costumi bianchi, e da tori con costumi neri. Anche qui un cappello a larghe falde, che nella circostanza è adornato con nastri di stoffa che arrivano fino alle caviglie, dai colori brillanti per la mucca, neri e rossi per il toro. Il suono dei campanacci scandisce il ritmo della sfilata, nella quale viene simulato un accoppiamento simbolico dei tori con le mucche. C’è un collegamento religioso, la festa inizia il 17 gennaio, giorno di Sant’Antonio Abate, protettore degli animali, inoltre nella domenica prima del martedì grasso si celebra una messa in onore del santo e in ambedue le circostanze la sfilata in paese inizia dopo aver fatto tre giri intorno alla chiesa. Anche a Tricarico come ad Aliano e a Teana, la festa termina con il processo al Carnevale.
A Montescaglione la morte, che aleggia nel finale tragico del processo e dell’uccisione del Carnevale, viene evocata nella sfilata con la personificazione, nella figura di “U Fus”, il “Fuso”, della parca che fila il destino della vita; ma c’è anche il rinnovamento della vita nella figura del “Carnevalicchio”, in fasce, tra le braccia di “Quaremma”, moglie del vecchio “Carnevalone”, vestita di nero. In questo carnevale vi sono anche le figure più temute che spaventano i bambini minacciando di cucire loro la bocca se non sono educati, il nome è conseguente, “Cucibocca”, hanno lunghe barbe, un mantello e un grande ago. Sono per lo più giovani coloro che impersonano queste figure, e i costumi sono soprattutto di carta e cartone da materiale riciclato.
Questi sono tre importanti carnevali delle tradizioni lucane, ma vi sono anche quelli, altrettanto caratteristici, di Teana e Satriano, Cirigliano, Lavella e San Mauro Forte, gli 8 paesi che dal gennaio 2008 formano la “Rete Carnevali e Maschere della Lucania a valenza antropologica e culturale”. Ci siamo limitati a descrivere quelli che abbiamo visto evocati nella “Dipendenza” della Casina delle Civette, con alcuni figuranti in costume che hanno vivacizzato la presentazione, riportando alcuni momenti caratteristici del folklore carnascialesco per confermare quanto ha detto l’artista, che la forza delle maschere risiede nella loro presenza attiva in queste feste tuttora molto seguite e vissute.
Le sensazioni suscitate dalla mostra
Così la curatrice: “Gli esseri variopinti creati dall’artista trasmettono a chi li osserva tutte le sensazioni accumulate in anni di studio, di osservazione ed analisi della natura, di ascolto paziente, tutti elementi che gli hanno permesso di accumulare storie. Attraverso i volti umani e ferini restituisce emozioni e sensazioni, racconta di magia, d’amore, di paura, di colori e materiali antichi e semplici ma, allo stesso tempo, attualissimi nel loro riuso”.
E questo avviene in modo particolarmente suggestivo nella cornice della Casina delle Civette, dove si sentono presenze magiche nell’immersione nella natura con gli animali simbolicamente riprodotti nel giardino e nelle vetrate. Per questo la Massafra può concludere così la sua colta presentazione della mostra di Nicola Toce: “Le sue maschere abitano lo spazio del Museo e della Dipendenza come opere d’arte autonome, se pur legate a un passato lontano. Esse tracciano un percorso di misteriosi richiami formali e creativi con le decorazioni presenti fuori e dentro l’edificio, attraverso una serie di echi silenziosi carichi di potere sacrale, capaci di stimolare nello spettatore inquietudini e turbamento”.
Abbiamo provato anche noi queste sensazioni fno a quando le vorticose piroette della danzatrice accompagnata dalla musica del complesso folcloristico lucano ci hanno riportato nella dimensione ludica che è l’altra faccia del carnevale, come anche della vita.
Info
Museo di Villa Torlonia, Casina delle Civette, Via Nomentana 70, Roma. Da martedì a domenica ore 9,00-19,00, la biglietteria chiude 45 minuti prima. Ingresso alla Casina delle Civette intero euro 5,00, ridotto euro 4,00, per i residenti a Roma Capitale 1 euro in meno e ingresso gratuito la prima domenica del mese. Info 060608, 347.8285211.Catalogo “Il Mito rivisitato. Le maschere arcaiche della Basilicata di Nicola Toce”, a cura di Framcesca Romana Uccella, De Luca Editori d’Arte, gennaio 2019, pp. 124, formato 16,5 x 24; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. I nostri articoli sulle precedenti mostre alla Casina delle Civette, citati nel testo, sono usciti in questo sito: nel 2017, per la collettiva sulle “Civette” il 15 marzo, e per le personali di Wal, “Sculture ludiche di putti” il 15 luglio, di Annalia Amedeo, “Sinestesie ceramiche” il 30 novembre; nel 2018 per le personali di Piero Gentili, “Soglie di luce” l’8 marzo, di Paolo Martellotti, “Bosco magico” edi Vittorio Fava, “Libri d’artista” il 23 agosto.
Foto
Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nella Casina delle Civette alla presentazione della mostra, si ringrazia la direzione, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. Le prime 2 immagini e la terz’ultima mostrano dei figuranti in costumi caratteristici del carnevale lucano, l’ immagine di chiusura il ballo della danzatrice accomapgnata dal gruppo folcloristico; le altre 11 immagini, le Maschere arcaiche di Nicola Toce.