di Romano Maria Levante
Visitiamo la mostra “Ovidio, amori, miti e altre storie”, alle Scuderie del Quirinale, dal 17 ottobre 2018 al 20 gennaio 2019, che conclude le celebrazioni del Bimillenario della morte del poeta esponendo 250 opere d’arte ispirate alla sua poesia dedicata all’amore e ai miti. E’ stata organizzata da Ales S.p.A., presidente e A.D. Mario De Simoni, curatrice Francesca Ghedini che, con Vincenzo Farinella, Giulia Salvo, Federica Toniolo, Federica Zagabra ha curato anche il Catalogo edito da Arte,m-L’ERMA. Un programma di manifestazioni collaterali consente di approfondire la conoscenza del grande poeta latino e diffonderla anche tra i più giovani. Per il suo valore spettacolare questa mostra che conclude le celebrazioni del Bimillenario della morte di Ovidio la associamo ai fuochi di artificio che per tradizione sono il momento terminale delle feste paesane, le 250 opere esposte ai crepitii e agli scoppiettii sempre più incalzanti fino al botto finale.
“Statua di Venere ‘Callipigia’“, metà II sec. d. C, a sin, “Affresco con pittura di giardino”, 1^metà I sec. d. C, al centro, “Statua di Eros con l’arco”, copia del I sec. d. C. da originale del IV sec. a. C., a dx
Alcuni caratteri salienti del suo messaggio poetico
Il ” poeta dell’amore” è pedagogico nell’“Ars Amatoria“, vicino alla pene d’amore del mondo femminile nelle “Heroides”, porta gli dei al livello degli uomini nelle passioni amorose nelle “Metamorfosi”, ma non si tratta di sdolcinature, tutt’altro: è il “poeta del cambiamento” rispetto ai costumi puritani dell’età augustea, ma nel contempo della trasgressione rispetto alle severe regole che l’imperatore applicava anche nella propria famiglia, punendo duramente le due Giulie, figlia e nipote.
Trasgressore e dissacrante anche degli dei, perfino di Apollo protettore dell’imperatore sin dalla sua vittoria sugli uccisori di Cesare e rimasto tale per tutta la durata dell’impero, che viene ridicolizzato per i suoi insuccessi amorosi; di Venere, progenitrice della sua stirpe, la “gens Iulia”, e di Marte, padre di Romolo fondatore di Roma, ridicolizzati al cospetto degli altri dei; e perfino di Giove onnipotente, descritto insaziabile predatore sessuale privandolo di autorità e del valore divino.
Era una sfida all’imperatore e all’intero establishment augusteo, che veniva da chi apparteneva allo stesso ambiente altolocato, ma aveva lasciato una promettente carriera retorica e legale per il richiamo irresistibile della poesia; fu una sfida che pagò con l’esilio sul Mar Nero, mai revocato dall’imperatore, durato dieci anni fino alla morte del poeta nel 18 d. C..
Tutto questo va ricordato per meglio apprezzare la mostra, incentrata sui tre temi salienti del suo itinerario di poeta e “civis romanus”: l’amore, il contrasto con Augusto e il mito. Perché c’è la prova esaltante della sua rivincita, anzi della sua vittoria per l’influenza imperitura sulle generazioni successive, lungo due millenni, ispirando in ogni tempo grandi opere d’arte.
“Rilievo delle Vestali”, ,fine I sec. d.C.
Le opere esposte sono il frutto di una selezione svolta collegando le “figurazioni” dei versi di Ovidio alle trasposizioni “puntuali” e non solamente generiche, con un metodo rigoroso di valutazione dei contenuti basato su soggetti, temi, schemi.
Codici miniati e “Ritratto di Ovidio”, “Venere callipigia” e oggetti di bellezza
La galleria espositiva è introdotta all’ingresso da vistose scritte in neon colorato, “Maxima Proposito”, con frasi significative di Ovidio nel testo latino e nella traduizione inglese. E’ la forma espressiva con cui l’artista concettuale Joseph Kossuth è solito valorizzare l’uso della parola, qui quanto mai appropriata riferendosi a un poeta che con la parola riesce a evocare immagini mitiche. Sono una ventina, si va dalle battaglie d’amore di “Omnis amans militat (Every lover makes war)” alla forza del desiderio di “Quod cupio mecum est (What I desire I have)”.
La parola trionfa nella 1^ sala soprattutto negli incunaboli e nei membranacei, nei codici miniati e nelle prime edizioni a stampa delle sue opere, tramandate dai copisti, prima nell’originale latino, poi anche nelle lingue “volgari”, in qualche caso purgate dalle parti ritenute troppo ardite. I miniaturisti hanno raffigurato spesso, nei frontespizi, l’immagine del poeta mentre scrive o mentre presenta le sue opere poetiche.
Dalle prime “Metamorphoses” di fine XI sec. in un miniato di fine ‘300 e in una cinquecentina, alle “Heroides” con “Ars Amatoria” e “Remedia amoris” di fine ‘400, con la cinquecentina per le sole “Heroides“; fino alle ultime opere, i “Fasti” e “Tristia, Epistolae ex Ponto“,, membranacei copiati da Bartolomeo Sanvito.
“Affresco con Satiro e Menade”, 60-79 d.C.
Ma la mostra non si limita a proporre le immagini del poeta appena delineate nei frontespizi. Il “Ritratto di Ovidio” di Giovan Battista Benvenuti detto l’Ortolano, intorno al 1500, introduce, quasi fosse il padrone di casa, alla sequenza artistica: ha una lunga barba e un abbigliamento lussuoso con un turbante, evoca l’Oriente della sede dell’esilio sul Mar Nero.
Nasce la suggestione, anzi la soggezione ammirando la spettacolare “Statua di Venere ‘Callipigia’“, II sec. d. C., ispirata alla sensualità della visione ovidiana sottolineata dalla maliziosa denominazione, l’opposto rispetto all’austera severità di quella augustea; poi altre Veneri in statuette e l'”Affresco con Venere con lo specchio”, in cui la dea si specchia abbinando nudità e vanità femminile. Dello stesso periodo l’intonaco dipinto “Donna che si pettina”, specchiandosi, anch’essa mostra la nudità del busto, dea e donna accomunate dalla comune ricerca della seduzione, che evoca un mondo gaudente e disinibito senza differenze tra la terra e l’Olimpo.
Fanno parte di questo mondo gli “Anelli con busto femminile su castone”che risalgono alla seconda metà del I sec. a. C., le “Collane con vaghi e amuleti”, lo “Specchio” ed altri oggetti del I sec. d. C., e oggetti in parte legati alla sua opera “Medicamenta faciei feminae”, come la “Scatolina per trucco con coperchio scorrevole dorato”, le “Spatoline” e la “Conocchia con Venere pudica”, tre il I e il II sec. d.C.
“Rilievo paesistico detto di Polifemo e Galatea”,fine 1° sec. a. C. – inizio II sec. d.C.
Erotismo esplicito nei reperti d’epoca
Con la 2^ sala, dopo l’iniziale espressione poetica dedicata al suo amore per una sconosciuta, Corinna, viene celebrata la disinibita indagine sulle pene d’amore ma anche sui sotterfugi e i tradimenti, le emozioni e le gioie degli amanti clandestini, che erano la normalità nella vita gaudente dei ceti altolocati a Roma, in barba alla severità imperiale, tutto esaltato nei tre libri degli “Amores”.
Il poeta non parla più delle proprie passioni, descrive i preparativi ai convegni amorosi, con l’attenta cura della persona, dai belletti alle acconciature delle chiome, da parte delle donne in attesa di incontrare amanti o corteggiatori. Ma oltre a questo, nel 3° libro dell’“Ars Amatoria” parla delle “mille posizioni dell’amore”, in una sorta di Kamasutra romano cui si sono ispirati nella sua stessa epoca in modo più o meno evidente, ma sempre eloquente.
Le opere esposte che riflettono questomondo erotico sono dunque quanto mai esplicite, introdotte dalla “Statua di Eros con l’arco”, copia del I sec. d.C. da un originale del IV sec. a. C. Il giovinetto simbolo dell’amore è rappresentato nudo ma senza implicazioni erotiche, che troviamo invece negli abbracci languidi e lascivi con generose nudità di un altro simbolo amoroso, nell’ “Affresco di Amore e Psiche”, e in ulteriori reperti chiaramente allusivi: nel marmo bianco del “Rilievo paesistico detto di Polifemo e Galatea”, fine I sec. – inizi II sec. d. C. e nell’intonaco dipinto dell’ “Affresco di Polifemo e Galatea”, tema pastorale molto sentito nell’antichità, come erano sentite le incursioni dei satiri sulle fanciulle, qui richiamate da due “Affreschi con Satiro e Menade”, IV sec. d. C. nei quali il biancore del corpo nudo della donna sorpresa nel bosco rispetto al corpo scuro del Satiro, anch’esso nudo, e le mani che toccano i corpi stretti nell’abbraccio, accentuano la carica sessuale; in uno dei due affreschi c’è la tenerezza del bacio con la mano di lei all’indietro che cinge la testa di lui.
“Affresco con Amore e Psiche”, 60-79 d. C.
Immagini simili in una serie di oggetti di abbigliamento, cosa alquanto sorprendente, come i “Cammei con scene erotiche” e il “Cammeo con Fauno e Menade”, e gli specchi, come lo “Specchio con scena erotica”, un vero e proprio amplesso scolpito nel bronzo e piombo del coperchio, lo “Specchio con Amore e Psiche” e la “Custodia di specchio con Amore e Psiche”.
Non mancano oggetti di uso comune, come la “Coppa con scena erotica” e la “Lucerna con scena erotica”, nella seconda addirittura si vede un “rapporto a tergo”; si va anche oltre nella “Lucerna” dell’età augustea con un grosso fallo alato, che troviamo anche nel “Tintinnabulum”, un campanello in cui il fallo alato è cavalcato da un nano che lo incorona, insidiato a sua volta dalla coda, fallica anch’essa. Una serie di “Ciondoli fallici”, forati per essere appesi al collo, completa questa carrellata di reperti più che erotici pornografici, tutti tra il I sec. a. C. e il II sec. d.C., quindi di epoca molto antica.
La severità imperiale nelle statue augustee e nella punizione delle due Giulie
La 3^ sala fa entrare nel mondo ovidiano nel quale all’audacia delle disinibite descrizioni amatorie declinate anche a titolo pedagogico si unisce – come si è ribadito in precedenza – l’aperto contrasto con la severa morale augustea, e il coinvolgimento nelle schermaglie amorose, spesso in modo irridente, delle divinità, in particolare di quelle poste a protezione dell’imperatore e di Roma.
“Statua di Livia, 38-40 d. C.
Una sfilata di sculture augustee di marmo particolarmente austere introduce questa tematica, iniziando dalla Statua di Augusto e dalla “Statua di Livia”, la moglie, entrambi con il capo velato, il primo come Pontefice massimo, la seconda come Cerere, i corpi totalmente coperti da un pesante panneggio, siamo nella prima metà del I sec. d.C., la stessa epoca della quale abbiamo riportato le raffigurazioni erotiche disinibite esposte nella sala precedente. Anche la “Statua di Antonia Minore”, figlia di Ottavia sorella di Augusto, reca il capo coperto, ma da una corona che la associa, insieme al lungo chitone, alla Venere Genitrice.
Il rigore morale e la tutela della religione tradizionale sono riassunte nelle statue appena citate, e si era tradotto nelle sanzioni della “lex Iulia” contro chi favoriva l’adulterio anche con il suo silenzio. E c’è una serie di busti ad evocare la repressione augustea di ogni trasgressione, anche di quelle da parte di propri familiari. Vediamo il raro “Ritratto di Giulia Maggiore”, 12 a. C, .la figlia di Augusto e di Scribonia che fu costretta a sposare per motivi politici Marcello, Agrippa e Tiberio, per poi finire, per ordine dell’imperatore, dopo l’accusa di adulterio, nell’isola di Pandataria, oggi Ventotene; dove fu relegata nell’8 d.C. anche la figlia che Giulia ebbe con Agrippa, di cui vediamo l’altrettanto raro “Ritratto di Giulia Minore”, , sec. a. C.-I sec. d. C., per un’analoga trasgressione al rigore morale della famiglia imperiale. La rarità di questi due busti è dovuta al fatto che si sarebbero salvati dalla distruzione operata in una sorta di “damnatio memoriae”.
Seguace giorgionesco, “Apollo e Dafne”, 1515-20
Per completezza evocativa la serie di busti comprende anche il “Ritratto di Marcello”, 25-10 a. C., il “Ritratto di Agrippa”, fine I sec. a. C., e la “Testa di Tiberio”, metà I sec. d. C., i tre consorti di Giulia Maggiore, il primo, morto prematuramente, era un altro figlio della sorella di Augusto Ottavia, il secondo compagno di battaglie di Ottaviano, il terzo figlio di Livia destinato a diventare imperatore.
Nell’alternanza di temi e tipologie di opere, sempre in linea con il “fil rouge” della mostra, seguono l'”Altare dei Lari”, 2 a. C., il “Rilievo delle Vestali”, I sec. d. C., e le “Lastre Campana”, 42-46 a. C.. I Lari e le Vestali richiamano i valori tradizionali che Augusto voleva restaurare, le lastre che prendono il nome dal collezionista dell”800 destinate alla residenza di Ottaviano recano, insieme a motivi decorativi e a divinità egizie, gli dei romani Apollo ed Ercole.
Apollo lo troviamo anche nelle 34 monete esposte, “Denario di Ottaviano” e “Denario di Augusto”, in argento, “Aureo di Ottaviano”e “Aureo di Augusto”, “Aureo di Tiberio” e “Aureo di Gaio (Caligola)” ovviamente d’oro, dal 32 a. C. al 41 d. C; e vediamo che, oltre alla testa dell’imperatore, in alcune monete ci sono le tre divinità, Venere, Marte e Apollo: la prima come progenitrice della “gens Iulia”, il secondo come dio vendicatore cui aveva fatto un voto a Filippi, il terzo suo protettore, per accentuare la solennità imperiale con la sacralità divina.
La dissacrazione mitica delle divinità protettrici di Augusto
Sono proprio Venere, Marte e Apollo, cui si aggiunge Giove e Plutone, le divinità evocate in modo garbatamente provocatorio nei versi di Ovidio e quindi nelle opere esposte in mostra che li fanno rivivere in modo spettacolare.
Per Venere, la “Statua di Afrodite pudica”, II sec. d.C:, descritta maliziosamente da Ovidio nell'”Ars Amatoria”, e la “Venere pudica” di Sandro Botticelli, 1485-1490, già danno un’immagine disinibita della ben più austera “Venere genitrice”, in particolare della “gens Iulia”.
“Statua di Antonia Minore come Venere Genitrice”, metà I sec. d. C.
Ma non è ancora nulla rispetto alle due opere intitolate “Marte e Venere sorpresi da Vulcano”: la terracotta di età ellenistica con i due amanti seminudi incatenati dal dio tradito, e Marte che cerca invano di liberarsi con la spada; e il dipinto di Giovanni Battista Carlone, dal verso 185 del III libro delle “Metamorfosi”, in cui Vulcano solleva il telo invisibile che ha imprigionato gli amanti nell’alcova, per esporli al ludibrio degli dei che assistono alla scena dall’alto quasi fossero a teatro. Invece nei due “Affreschi con Marte e Venere”, del 60-79 d. C. , di Pompei, nulla di tutto questo, gli Amorini con le carezze di Marte e l’abbandono di Venere sottolineano la passione amorosa.
Raffigurazioni imbarazzanti anche riguardo ad Apollo, per motivi diversi, sempre ispirate alle “Metamorfosi” di Ovidio: nei due intonaci dipinti a mano di Pompei, “Affresco con Apollo e Dafne: il corteggiamento” e “Affresco con Apollo e Dafne: la cattura”, i due momenti: il dio che suona la cetra per conquistare la ninfa,ma non ci riesce, lei fugge e viene rincorsa e afferrata da Apollo che supplica di lasciarla, prima di trasformarsi in alloro per sfuggirgli definitivamente; lo vediamo anche nel dipinto “Apollo e Dafne”, di un seguace di Giorgione del 1515-20.
Non occorre sottolineare come fosse umiliante per l’immagine del grande Apollo, considerato dall’imperatore, lo ripetiamo, il protettore della sua persona e della città di Roma, che una ninfa piuttosto che accettarne le profferte amorose con accompagnamento musicale preferisca diventare una pianta, invece di esserne lusingata. Quando il dio ha successo, finalmente, con la bellissima Chione, non ha conquistato una vergine, come credeva, perché è stato preceduto da Mercurio.
Leonardo da Vinci (copia da), “Leda e il cigno”, 1510-20
Giove predatore sessuale insaziabile e trasformista
Ce n’è anche e soprattutto per Giove, l’onnipotente signore dell’Olimpo, che Ovidio tratta come un insaziabile predatore sessuale con sotterfugi quali le trasformazioni. Lo vediamo nell’episodio mitico della “Leda con il cigno”, in cui Giove si trasforma,riprodotto in tante forme artistiche con la fanciulla ignara avvinta dall'”abbraccio” del cigno: nelle diverse raffigurazioni naturalmente cambiano forme e atteggiamenti, per lo più il cigno con il becco cerca di baciarla, lo vediamo nel “Gruppo statuario” del II sec. d.C., copia di un originale ellenistico del 10 a. C., e nei due “Affreschi” della prima metà del I sec. d.C., da Ercolano e Stabia, in cui la figura di Leda, sempre nuda, è impreziosita da un’acconciatura elaborata.
Anche in uno “Specchio” e in un “Cammeo” c’è la scena della “Leda con il cigno”, in modi molto diversi. Nel medaglione centrale dello specchio l’immagine di lei che, seduta su una roccia, offre da bere al cigno, mentre nel cammeo, a differenza delle raffigurazioni precedenti che la mostrano ignara, appare consenziente, semisdraiata sembra offrirsi all’amplesso con il volatile, è del III sec. d.C., periodo ellenistico, l’altra è del I sec,
L’ultima opera esposta che raffigura la “Leda con il cigno” è un quadro, copia da Leonardo da Vinci, del 1510-20, ma con delle incertezze, perché non si è sicuri che Leonardo lo abbia effettivamente dipinto mentre sono certi i numerosi disegni del Codice Atlantico in cui la Leda viene proposta sia inginocchiata che in piedi con diverse acconciature, prova che, comunque, studiò il tema. Il dipinto esposto la mostra in piedi, nuda, che stringe con le mani il collo del cigno il quale protende il becco verso il volto di lei, la testa è reclinata in modo vezzoso, seduti ai suoi piedi due bimbi, se avessero le ali sembrerebbero amorini, vengono identificati come i figli dell’unione, Castore e Polluce, e nell’uovo vicino si prefigura la nascita di Elena e Clitennestra.
Giovanni Antonio Figino, “Giove, Giunone e Io”, 1599
Un’altra trasformazione per possedere l’oggetto dei suoi desideri è quella nel toro, lo fa Giove per rapire Europa. Anche qui una serie di raffigurazioni su diversi supporti, le più antiche sono del 360 a. C., a figure rosse, in un “Cratere a campana apulo”, un‘”Anfora apula” e un “Cratere a calice pestano”, quasi in sequenza: nel primo il toro si avvicina alla fanciulla seduta all’aperto, nel secondo lei adorna le corna dell’animale, nel terzo è seduta sulla sua groppa, alcuni dei assistono al rapimento. Europa è seduta sul toro anche in un “Rilievo” del I sec. a. C.-I sec. d.C. e in due dipinti, il “Ratto di Europa” del Tintoretto, 1541-42 e di Antonio Carracci, 1602-05, che dimostrano come il fascino dei versi di Ovidio attraversa il tempo, lungo un arco di 1500 anni.
E poi vediamo trasformarsi di nuovo, questa volta in un’aquila, Giove per rapire Ganimede, di cui si è invaghito, non più una fanciulla ma un giovinetto che diventerà coppiere degli dei. E’ riprodotto in marmo in età coeva, I-II sec. d.C., nel “Gruppo scultoreo di Ganimede con l’aquila” e nel “Rilievo con Ganimede”; nel 1550 nel bronzo “Giove e Ganimede”, in pittura nel “Ratto di Ganimede” di Damiano Mazza, 1575, e di Carlo Saraceni, 1605-08.
Trasformazione da parte di Giove anche nel mito di Io, ma questa volta non è il dio ad assumere sembianze animali ma la ninfa di cui si è invaghito che lui trasforma in giovenca per nasconderla alla gelosa e vendicativa Giunone. Sono varie le opere esposte, anche del I sec. a. C., il busto marmoreo “Testa di Io”, l’“Anello smaltato con testa di Io” del grande incisore Dioscuride, e i due affreschi, “Io, Argo e Mercurio” e “Io a Canopo”.
Tintoretto (Jacopo Robusti), “Ratto di Europa”, 1541-42
Nella testa di Io dei ritratti, due piccole corna per evocare la giovenca, negli affreschi vari momenti di una odissea che si conclude a Canopo, in Egitto, dalla dea Iside, dopo che la giovenca imprigionata da Giunone e tormentata da Argo che la sorvegliava, fu liberata da Ermes, ma la dea continuò a tormentarla con un tafano e lei per liberarsi percorse il Mediterraneo dando il suo nome al Mar Ionio, fino all’Egitto dove riprese le sembianze umane e diede alla luce il figlio di Giove, Efeso, progenitore della Danaidi, diventando dea egizia. Nel dipinto di Giovanni Antonio Figino, “Giove, Giunone e Io”, 1599, la fase iniziale del mito, Giunone che scende dall’alto mentre Giove seduto in basso ha appena trasformato Io in giovenca.
L’apoteosi nella “Spalliera di letto con gli amori di Giove”, di Alessandro Allori, 1572, un grande dipinto su tavola con al centro “Ganimede rapito da Giove”, ai lati “Leda con il cigno” e il “Ratto di Europa”, con le trasformazioni di Giove, e, nelle grottesche, “Apollo e Dafne” e “Venere dormiente”, “Nettuno sul cocchio” e “Pan e Siringa”.
Proseguono le “Metamorfosi” ovidiane con tanti altri miti, le ulteriori opere d’arte ad essa ispirate occupano l’intero piano superiore della mostra. Osservano in proposito Antonella Colpo e Giulia Salvo: “Nelle ‘Metamorfosi’ il fuoco della passione non risparmia nessuno: si desiderano mortali ed eroi, ma anche dèi maggiori, panisci e ninfe, dando così vita a un intricato sistema di relazioni affettive, inganni, tradimenti, ossessioni, possessioni”. L’esito è quasi sempre sfortunato, spesso addirittura tragico con la frequente presenza degli dei che, se non sono protagonisti delle vicende, intervengono in aiuto di chi si è sentito offeso, molte volte vendicandolo in modo anche crudele.
Ne parleremo prossimamente nell’articolo conclusivo sulla mostra, descrivendo le opere esposte, ispirate alle altre immagini mitiche evocate dai versi immortali di Ovidio.
Damiano Mazza, “Ratto di Ganimede”, 1575
Info
Scuderie del Quirinale,via XXIV Maggio 16, Roma. Da domenica a giovedì, ore 10,00-20,00, venerdì e sabato ore 10,00-22,30, ingresso consentito fino a un’ora dalla chiusura. Ingresso e audioguida inclusa: intero euro 15, ridotto euro 13 per under 26, insegnanti, gruppi, forze dell’ordine, invalidi parziali, euro 2 per under 18, guide, tessera ICOM, dipendenti MiBAC, gratuito per under 6, invalidi totali. Tel. 06.81100256. www.scuderie.it. Catalogo “Ovidio. Amori, miti e altre storie”, a cura di Francesca Ghedini con Vincenzo Farinella, Giulia Salvo, Federica Toniolo, Federica Zalabra, Editore arte,m – L’ERMA di Bretschnider 2018, pp. 310, formato 24 x 30; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Il primo articolo sulla mostra è uscito, in questo sito, il 1° gennaio 2019, il terzo e ultimo uscirà l’11 gennaio, con altre 13 immagini ciascuno. Cfr. inoltre i nostri articoli, in questo sito, per la mostra “Augusto”, 9 gennaio 2014; in abruzzo.cultura.it per “Villa Giulia a Ventotene” (tale sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).
Foto
Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra nelle Scuderie del Quirinale, si ringrazia Ales S.p.A., con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta; è riportato un campionario di quelle citate in questa prima parte di commento ai miti evocati nell’opera di Ovidio. In apertura, “Statua di Venere ‘Callipigia’“, metà II sec. d. C, a sin, “Affresco con pittura di giardino”, 1^metà I sec. d. C, al centro, “Statua di Eros con l’arco”, copia del I sec. d. C. da originale del IV sec. a. C., a dx; seguono, “Rilievo delle Vestali”, ,fine I sec. d.C., e “Affresco con Satiro e Menade”, 60-79 d.C.; poi, “Rilievo paesistico detto di Polifemo e Galatea”,fine 1° sec. a. C., inizio II sec. d.C., e”Affresco con Amore e Psiche”, 60-79 d. C,; quindi, “Statua di Livia, 38-40 d. C., e Seguace giorgionesco, “Apollo e Dafne”, 1515-20; inoltre, “Statua di Antonia Minore come Venere Genitrice”, metà I sec. d. C., e Leonardo da Vinci (copia da), “Leda e il cigno”, 1510-20; ancora, Giovanni Antonio Figino, “Giove, Giunone e Io”, 1599, e Tintoretto (Iacopo Robusti), “Ratto di Europa”, 1541-42; infine, Damiano Mazza, “Ratto di Ganimede”, 1575 e, in chiusura, Pietro da Barga, “Plutone e Proserpina”,1587.
Pietro da Barga, “Plutone e Proserpina”,1587