di Romano Maria Levante
A 9 anni dalla mostra del Natale 2009 nei sotterranei della basilica romana dei Santi Ambrogio e Carlo a Piazza San Carlo al Corso, pubblichiamo di nuovo il nostro servizio uscito in cultura.inabruzzo.it il 5 gennaio 2010, senza alcuna modifica, con i commenti che furono “postati” dai lettori nel sito citato che non è più raggiungibile. Gli unici “aggiornamenti” sono le tre immagini finali di presepi nel Natale 2018: le due a chiusura dell’articolo con i presepi di quest’anno nella stessa basilica, l’ultima immagine dopo i “post” di commento del 2010, con il presepio nella nostra abitazione. Aggiungiamo, come premessa all’immersione nel mondo dei presepi, le conclusioni cui nell’antivigilia di Natale del 2014 – quindi a metà del nostro itinerario ideale che inizia nel Natale 2009 e approda al Natale 2018 – giunse la Redazione consulenza linguistica dell’Accademia della Crusca pubblicando nel proprio sito la dotta nota di Matilde Paoli in merito alla denominazione “presepio” o “presepe”. Conclude che sono equivalenti. ormai entrati nell’uso comune indifferentemente, e si sofferma sull’origine, sull’evoluzione di tali termini e sulla prevalenza nell’uso.
Le origini sono nella definizione latina del recinto, della stalla e relativa mangiatoia, in senso laico, “praesaepe” e “praesaepium”, con delle particolari declinazioni: la 3^ per Virgilio, al maschile “praesaepe-is”, per Plauto al femminile “praesaepes-is”, mentre per Plinio, I sec. d. C. entra in campo con la 2^ declinazione, il neutro “Praesaepium-i”. In senso religioso troviamo “praesaepium” nella versione latina della Bibbia adottata dalla chiesa, la “Vulgata”, e nelle versioni precedenti incomplete, l'”Itala”.
Nel ‘300 Petrarca utilizza sia “presepio” che “presepe”, poi nel nel 400-500, in Tasso, Vasari e l’Aretino troviamo “presepio”, nel ‘600 Giovambattista Marino utilizza “presepio” in senso religioso sia in poesia che in prosa, e “presepe” in senso laico nell'”Adone”. Il Dizionario italiano dell’Accademia della Crusca riporta solo “presepio” nelle prime 3 edizioni del 1612, 1623 e 1691, mentre nella 4^ edizione, del 1729-38, la voce diventa “presepe o presepio”. Nel ‘700 “presepio” è più usato nella simbologia religiosa, “presepe” in senso laico. Del resto, santa Caterina da Siena, aggiungiamo noi, parla di “presepio” e non di “presepe”.
E questa sarà la tendenza prevalente, anche se l’equivalenza dei due termini trova conferme quanto mai autorevoli: Manzoni, nella poesia “Il Natale” utilizza, nello stesso componimento, i due termini, ai versi 66-67 “e nell’umil presepio/ soavemente il pose”, trenta versi dopo, ai 96-97 si lkegge “videro in panni avvolto/ in un presepe accolto”. E nerl 2014, il titolo del libro di E. S. Storace, “Filosofia del presepe” è seguito dal sottotitolo “Manuale laico per costruire un presepio perfetto”, chissà se in Manzoni e in Storace la compresenza è stata voluta oppure casuale….
L’accurata ricerca linguistica di Matilde Paoli arriva ai tempi recenti, conclude che l’uso di “presepio” sembra prevalere in ambito familiare, l’uso di “presepe” in campo letterario; lo deduce dai risultati delle frequenze misurate da “RIDIRE” secondo cui, al verbo “visitare” segue indifferentemente “presepio” o “presepe”, mentre ad “ammirare” solo “il presepe”, e così ad “allestire”, mentre a “fare” segue soprattutto “il presepio”. Sono rilevazioni del 2014, ma non crediamo che il quadro sia mutato, ontinueremo a “fare” il nostro “presepio”, quello da noi “fatto” quest’anno è riportato in chiusura, dopo i presepi “allestiti” e “ammirati” nella mostra e nella basilica che illustrano il testo.
Ed ora, dopo questa digressione speriamo non pedante, il testo integrale dell’articolo sulla mostra del Natale 2009.
Una Stella cometa a Piazza San Carlo al Corso di Roma guida verso la cripta della basilica dei santi Ambrogio e Carlo a una galleria di presepi artistici delle scuole napoletana, romana, siciliana e altre, per un’immersione nell’arte del presepio che ne fa apprezzare stili e contenuti, simboli e motivazioni facendo compiere un viaggio emozionante nel tempo, nel costume e nella memoria. Segui la Stella cometa…” è l’invito discreto e allettante a lato della Basilica dei santi Ambrogio e Carlo dove il Corso di Roma si allarga in una piazzetta, “enclave” di tranquillità nell’incessante passeggio. Nelle festività è assediata, c’è la statua vivente di un Babbo Natale argentato, un gruppo di acrobati saltimbanchi fa volteggi su un tappeto. Appena svoltato l’angolo un’insolita orchestrina di strada con fisarmonica, violino e contrabbasso suona “O sole mio”: in effetti il sole c’è, ma così pallido da far pensare a quello di Odessa, che per questo aveva dato l’improvvisa ispirazione.
Ma non seguiamo il sole, bensì la stella, abbiamo detto. E non ci fa guardare in alto bensì ci porta nella cripta sottostante la basilica, lungo una stretta scalinata, fino a raggiungere una galleria semicircolare, poi una vasta aula centrale dov’è il sarcofago con i resti di San Carlo Borromeo.
Ci immergiamo subito nel mondo dei presepi artistici, che esprimono talento e passione, devozione e memoria. Sono un messaggio d’amore in un caleidoscopio di immagini dove ogni elemento ha il suo preciso significato, legato alla tradizione e al costume. Cominciamo dall’evidenza visiva, scopriremo volta per volta stili e contenuti, simboli e motivazioni. Entriamo subito nel vivo.
Il presepio siciliano che ferma il tempo come la nascita di Cristo
E lo facciamo cominciando dal presepio che ci è stato mostrato al termine del lungo giro dalla gentile Valentina Aloisio: a lei si devono le notizie che abbiamo appreso, le riporteremo nel racconto filtrandole con lo stupore e l’emozione che i presepi, e soprattutto questi presepi, sanno suscitare in noi, alla ricerca di una chiave di lettura personale da poter verificare e condividere.
Perché mettiamo al primo posto questo presepio di scuola siciliana? Non per lo stile sfavillante di materiali preziosi, dalla madreperla al corallo, con una scala cromatica dal bianco al rosso passando per i colori dell’argento e dell’oro di questa scuola; abbiamo visto mesi fa nella mostra “Antichi telai” gli artistici tessuti dei paliotti d’altare siciliani intessuti di corallo, anche nei presepi c’è stata queste tendenza.
Ma non è lo stile di questo presepio, che rientra nei canoni più austeri e severi, pur nella plasticità e teatralità delle figure, con le sue tinte delicate e discrete, perfettamente intonate. E neppure per il realismo della creta con particolari resi nella lava dell’Etna come fa Giusy Toscano.
Lo abbiamo scelto per il suo valore simbolico che sentiamo sovrastare gli altri simboli rappresentati nei presepi. Valentina ci spiega che in Sicilia c’è un detto: “Quando nacque Gesù si fermò il mondo e quindi anche il tempo”. Le figure di Giulietta Cavallo, l’autrice figlia d’arte, sono statiche e ferme, l’assenza di moto negli atteggiamenti e nelle posizioni dà loro una fissità che incarna il detto siciliano, lo rende visibile.
E se si ferma il tempo anche lo spazio perde la sua identità, svanisce: quindi nessuna collocazione in un determinato ambiente, né paesaggio né ruderi o grotte, neppure presenze umane diverse da quelle canoniche: la Sacra famiglia e lo zampognaro, la levatrice e la lavandaia, i tre Re Magi sono inseriti in una dimensione aspaziale oltre che atemporale, resa da una coltre bianca che non è neve, è mossa come una nuvola.
Vista così l’opera, si spiegano anche i particolari tecnici: terracotta e sughero dipinti a olio, abiti in tela bianca indurita con colla, colori assimilati a quelli dell’epoca, Giulietta è una delle poche creatrici di queste figure ad usare le tecniche settecentesche con assoluto rigore; il panneggio ci colpisce, esprime lo stesso rigore della tecnica nell’ispirazione artistica, l’autrice è certo di buone letture, d’altra parte doveva esprimere la fissità del tempo, e solo l’arte riesce ad arrestarne il moto incessante, quindi ci si ispira all’arte dei sommi, che sa essere eternatrice, come la poesia.
Un valore universale è in un presepio concepito da un autore sconosciuto come una cupola celeste dove si svolge la vita quotidiana, con al centro la natività, dietro un piccolo cancello, quasi arrivasse in punta di piedi. Mentre esprime l’universalità della nascita di Cristo, la curvatura e il colore ce lo fanno sentire.
Il viaggio nello spazio dei presepi
Il presepio vicino a quello della fissità del tempo ci riporta nel tempo e nello spazio come non mai. Michele Carpano rappresenta un borgo di Caserta vecchia, con la meticolosità di riprodurre le rugosità della pietra. E se è così curata la costruzione, lo è anche il resto! Una scala dà profondità, fa sentire dell’altro dietro l’edificio. Poi si vedono i piccioni sul tetto e la piccionaia, dei grappoli d’uva e le tendine a uncinetto; addirittura l’arredamento della casa. Non è solo un ritratto in un interno, sembra un profilo interiore di una normale famiglia che vive nella casa scelta dalla Sacra famiglia.
I contrasti proseguono nel presepio successivo. Non solo siamo rientrati nel tempo e nello spazio ma ci spostiamo sulle loro ali: le ali del tempo perché la grande capanna che sovrasta la grotta ha un telo a rappresentare il nuovo testamento sostituirsi all’antico testamento con la nascita di Gesù; altro contrasto tra la parte destra, un ambiente brullo e misero e la parte sinistra, illuminata e arricchita dalla venuta di Cristo; il viaggio nello spazio è reso dalla tipica casa a cubo palestinese sulla destra. Ed è palestinese lo stile con cui Dario Facchini ha realizzato questo presepio carico di simboli.
In stile palestinese orientale anche il presepio di Gianpiero Marino, in una terra arida e rocciosa, l’abitazione incastrata nel terreno ci fa pensare ai “sassi” di Matera, con la casa nella roccia.
Dalla Palestina all’Olanda il passo è breve nella galleria di presepi di San Carlo. Ce lo fa fare Ettore Formosa con il suo colorato borgo olandese, un largo arco di ingresso, finestre caratteristiche, l’ambiente ridente da spensierata olandesina; tanto spensierata che c’è totale indifferenza per la nascita del Bambin Gesù, le persone continuano a spettegolare, il pittore porta il suo quadro, l’oste reca due boccali, di birra non di vino, siamo in Olanda! A chi? Non per festeggiare il parto, a una persona qualsiasi che li avrà richiesti. Soltanto due bambini sono tutti presi dall’evento, l’innocenza ha la vista più lunga, come nella favola del bambino, il solo a vedere il re nudo com’era realmente.
Rientriamo in Italia, passando dal confine. Un paesaggio trentino incorpora il presepio di Ernesto Mancuso. Realizzato nella roccia sovrastata da due capanne fatte di radici di abete di quella terra; gli scalini sono scavati nella roccia. Compattezza e solidità nella semplicità ridotta all’essenziale.
L’indifferenza olandese per la natività la ritroviamo in un presepio del romano Fabio Santilli, al centro la nascita e intorno tutto continua come se nulla fosse avvenuto, eppure è un borgo molto animato: sono impegnati nelle proprie faccende, inutilmente gli angeli cercano di attirare l’attenzione sull’evento miracoloso. E’ in stile napoletano, chissà se l’autore ha scelto questo stile per non identificarsi totalmente nell’indifferenza per il Salvatore affidandola a una scuola non sua?
Il presepio romano
Guardiamo allora un presepio “romano de’ Roma” in tutti i sensi. Riproduce un casale antico sulla Via Appia che esiste realmente, le sue pareti rosso mattone, le tettoie, e soprattutto i gatti che sono tipici dello stile romano; è facile capire perché, sbucano da ogni parte soprattutto nel centro storico vicino e sopra ai monumenti. Il casale è appoggiato a una cisterna, la tipica fusione tra nuovo e antico. Patrizio Turosani ha reso con estremo realismo questo angolo di Roma dove l’ambiente si identifica nel grande casale, una sorta di scena teatrale presa dal vero e riprodotta con molta cura.
D’altra parte, è proprio questa la caratteristica dello stile romano, nobilitato da un illustre precursore, Arnolfo di Cambio che realizzò delle figure di presepio nel 1289, sono nella cripta di Santa Maria Maggiore. Ma è con il ‘600 che la nobiltà scopre il presepio, commissiona opere in stile barocco, addirittura a Bernini, che lo realizzò per i principi Barberini. Dai nobili al clero, nel ‘700 si estende a chiese e monasteri, spiccano le natività di San Lorenzo e Santa Maria in Trastevere.
Roma è la campagna romana, paesaggio agreste con la povera gente al lavoro, la grotta di sughero e gli angeli in volo in cerchi concentrici nel cielo. Soltanto di recente c’è stata “Roma sparita”, ormai visibile soltanto negli acquerelli di Roescher Franz, perché la modernità ha lasciato soltanto i ruderi, sui quali si costruiscono le scene, come sulle immagini degli acquerelli, con impronta popolare.
Si ha anche l’inserimento spettacolare nei borghi piuttosto che nell’ambiente naturale. Come nel presepio di un esordiente, Giuseppe Liberati, che rappresenta la Tuscia medievale, il piccolo borgo è riprodotto in cartongesso, la Natività è sotto un arco, c’è anche un pastorello dormiente.
E siamo ad Alessandro Martinis, che presenta un presepio in stile romano, con il passaggio del vino dall’interno all’esterno delle osterie per la liberalizzazione che si dice fosse opera di Pio VII, laddove Leone XII aveva invece imposto di “chiudere i cancelli” per bere soltanto all’interno.
Questa immagine di festa del vino è inserita in una natività soltanto simbolica, perché non c’è la Sacra famiglia, addirittura si vede uno scriba che scrive una lettera di raccomandazione per l’ammissione di un bambino in seminario, fantasia tutta napoletana. C’è invece una famiglia normale che la impersona, simbolismo rafforzato da un’immagine sacra e dall’osteria.
Ed è il simbolo più importante congiunto a quello del vino, che richiama al sacrificio dell’ultima cena e del sangue di Cristo. Un simbolo non solo dei presepi romani, ma anche di quelli napoletani. In quest’ultimo stile lo stesso Martinis crea delle figure singole molto espressive: la prima è un oste con i contenuti simbolici di cui si è detto, reca delle fiasche di vino rosso, vicino ha un tacchino.
Poi c’è la zingara, figura che può essere o vecchia oppure giovane e prosperosa; può portare la buona fortuna come in questo caso con un melograno in mano oppure la cattiva sorte con il ferro, ricordo infausto dei chiodi della croce di Cristo. Segue la lavandaia, presente alla Natività, a stare ai Vangeli apocrifi, fu lei che lavò i primi panni del bambino e le acque restarono limpide e chiare. In primo piano anche la levatrice, altro simbolo di purezza riferito alla Vergine.
Dopo questi simboli eccone uno molto diverso, il simbolo della napoletanità: è Pulcinella che fa visita a un neonato particolare, completamente solo, sotto un arco di tempio che sta davanti a una grotta. Resta il dubbio sul bambino, troppo solo per essere Gesù, forse è il piccolo San Gennaro.
Ci sono anche i Re Magi, il loro simbolismo è molteplice: possono essere le tre fasi solari del mattino, giorno sera, date dai colori bianco, rosso, nero. Oppure le tre stirpe terrene nate dalla discendenza di Noè, Gasparre Re armeno figlio di Cam, Baldassarre giovane re arabo di colore scuro figlio di Jafet, Melchiorre, il maraja indiano di nome Ram, vecchio figlio di Sem, chiamato così perché “ha visto Dio” (Cham El Chior).
Quello che colpisce in modo particolare è la fattura di queste opere, viste singolarmente nei loro particolari: terracotta vestita con stoffe, soprattutto sete, pregiate, occhi di vetro: immagini preziose.
Il presepio napoletano
Siamo in pieno stile napoletano, e qui occorre soffermarsi in modo particolare, non foss’altro in omaggio ai maestri di San Gregorio Armeno, la strada dei presepi, una pittoresca fabbrica diffusa e insieme l’esposizione di quanto sa produrre la fertile fantasia e inventiva partenopea unita al talento e alla tradizione nonché alla vitalità e alla passione. Ma qui non ci troviamo a Napoli, è la cripta di San Carlo al Corso. Raccontiamo quello che vediamo, non ciò che ricordiamo perché ci ha colpito.
Abbiamo già descritto la preziosa fattura in stile napoletano da parte di un maestro romano. Un presepio napoletano verace ci mostra una scena stile ‘700: una comune famiglia che però simboleggia la Sacra famiglia con la madre, il padre somigliante a S. Giuseppe, il bambino in una culletta che sembra la mangiatoia.
Non manca l’acqua come simbolo del fonte battesimale e il cibo sparso per l’ambiente, ricorda le offerte a Cristo; ci sono anche le mele, a ricordo del peccato originale. La madre tende la mano verso quella del bambino, quasi per giocare, un contatto raro quando è nella culla, ovvero nella mangiatoia della Natività; ma questo bambino è solo terreno. Non si conosce l’autore, si avverte l’estrema cura nel mettere in scena simbologie molto particolari.
Il presepio napoletano, va sottolineato, è fatto di particolari, si sofferma sulla vita quotidiana, non indulge alle rappresentazioni teatrali e ambientali come quello romano. Inoltre unisce sacro a profano, nello spirito devoto e insieme moderatamente dissacratore dello sua gente. In questa impostazione assumono un’importanza particolare le figure, preminenti sull’ambiente. Di qui l’evoluzione della tecnica per realizzarle, che ha puntato sullo snodo e sulle articolazioni in legno. Siamo nel 1600, nasce l’idea che ha dato flessibilità e varietà alle figure: l’applicazione delle teste e degli arti in legno a manichini fatti con stoffa e filo di ferro.
Non si pensi alle iniziali forme di Calder, lo scultore dell’aria che iniziò con il fil di ferro, ma a qualcosa di ingegnoso ed estremamente funzionale allo scopo: l’adattabilità consentiva di creare molteplici atteggiamenti e posizioni, quindi figure senza dover fare l’intero pezzo “ex novo” ma utilizzando un corpo standard.
L’utilizzazione successiva della terracotta invece del legno per le teste consentiva maggiore duttilità nella materia, rendendo più veloce la fattura, e nell’espressione, rendendola più morbida. Coerenti con l’impostazione legata al particolare e alla realtà della vita quotidiana, i maestri dei presepi napoletani mobilitavano artigiani di una grande varietà di settori, dai vasai agli orafi e agli argentieri; per le brocche e i vasi soprattutto da Cerreto d’Abruzzo oltre che da Vietri.
Una variante tutta speciale nei materiali la troviamo nel presepio pugliese, la cui storia vede l’inizio a metà del ‘400-500, un declino nel ‘600, la scomparsa nel ‘700 e il rilancio nell’800 con la cartapesta e in parte la creta. Questo si deve soprattutto al Salento e a Lecce, dove nel tempo libero i barbieri ci davano con le mani a premere sulla cartapesta e si aiutavano col bulino a lavorare la creta. Però il presepio non fu ritenuto né arte né arredamento, bensì tradizione popolare; per questo si sono conservate poche testimonianze e le opere riconducibili alla scuola pugliese sono assai rare.
Chiudiamo la parentesi pugliese, è così ricca la storia presepiale che ci risucchia nel didascalico invece di proseguire nel descrittivo; anzi nel narrativo, perché stiamo raccontando un viaggio in un mondo affascinante e favoloso che con la sua naturalezza e il suo simbolismo tocca nel profondo.
Un viaggio che a questo punto ci fa incontrare due diverse espressioni: le campane di vetro di Romolo Di Donato e Angelo Fracassi e i coppi spezzati di Felice Marotta, esordiente salernitano.
Le campane di vetro sono una peculiarità napoletana sin dal 1700, soprammobili con dentro normalmente una sola grande figura. Qui c’è il presepio con tante piccole figure, addirittura quello della campana di Fracassi è su tre piani.
Ai coppi spezzati di Marotta sono associati diversi elementi. O paesaggi salernitani oppure dei simboli: l’elefante per la solidità del Cristianesimo e la colonna spezzata per la caduta dell’impero romano dopo Cristo interpretabile anche come caduta del paganesimo dopo il Cristianesimo.
Simboli e particolari, particolari e simboli, ecco il presepio napoletano. Una riprova eloquente nelle opere di Antonio Esposito: il falegname e il focolaio. Nella bottega di falegname troviamo gli attrezzi, una sega particolarmente curata, non solo perfettamente riprodotti ma anche funzionanti; c’è un cancelletto di ferro battuto istoriato e addirittura una mensola con degli oggetti tra i quali una minuscola campana di vetro del tipo di quelle appena descritte di Fracassi e Di Donato.
Abbiamo conosciuto il quadro nel quadro e il teatro nel teatro, ora il presepio nel presepio per così dire. Nel focolaio c’è anche il simbolismo, oltre al particolare, ed è il calore familiare. Gli utensili da cucina in rame appesi con la velatura che sa di antico accrescono il calore, si sentono i lari e i penati della famiglia che vi si raccoglie intorno. E ci sono le bucce d’arancio a rendere l’ambiente odoroso. Valentina ci tiene a sottolinearlo.
Il grande presepio
Ci avviamo all’uscita, ma Valentina ci dice con gentile fermezza: “C’è il grande presepio nell’aula centrale della cripta, vicino al sepolcro con le ossa di San Carlo Borromeo!” La seguiamo, e veramente ne vale la pena. L’emozione viene nel vedere inginocchiate le grandi figure che riuniscono i simboli della Natività, compresi il pastore che rappresenta i popoli della terra e il pescatore i popoli sul mare o anche le pesca delle anime.
I quattro offerenti riuniti evocano a loro volta altri simboli: i quattro punti cardinali o i quattro continenti allora conosciuti; come se fossero accorsi tutti a Betlemme per adorare Gesù; mentre Giuseppe e Maria con le braccia formano un triangolo, simbolo delle divinità rivolto verso il bambino. Un’ultima preziosa indicazione di Valentina: hanno tutti carnagione scura e occhi castani, non azzurri come di norma rappresentati, perché sono della Palestina.
Sono nel nudo pavimento, appena qualche filo di paglia, non si vuole sopperire all’ambientazione. Figure singole senza collegamenti ambientali, soltanto ideali, il far parte di quella sacra rappresentazione che è la Natività. Che ferma il tempo. E lo fermano anche queste figure che descriviamo alla fine come lo fermavano quelle descritte all’inizio di Giulietta Cavallo.
Ci accommiatiamo da Valentina che ci ha pilotati con perizia sulla macchina del tempo di questa mostra. E’ stata la nostra Beatrice, perché qui si respira aria di Paradiso.
Un Paradiso sotterraneo, ci dice che sotto di noi c’è un accumulo d’acqua, come una grande cisterna, che genera un particolare microclima e viene monitorato, i milanesi padroni di casa sono particolarmente attenti a seguire la situazione. Non siamo nell’empireo, possiamo risalire le scale e infine “uscimmo a riveder le stelle”. Due angeli musicanti ci salutano all’uscita come ci avevano accolti all’entrata con un tondo azzurro su cui ne spiccano altri in volo con atteggiamenti birichini.
Ora entriamo nella basilica dalla porta interna. C’è un grande presepio con le “scarabattole” settecentesche e la Natività, parte delle figure sono di scuola napoletana e parte di scuola romana, un’altra bella commistione per trarre il meglio da entrambe; intorno ruderi e muri diroccati, sullo sfondo il Tevere, Roma sparita e il Cupolone.
Usciamo subito, quest’evocazione romana ci porta risalendo via del Corso alla chiesa di San Marcello: l’apoteosi, la natività si appoggia al rudere, dietro si distende nella sua maestosità il Colosseo, di fronte il tempio di Antonino e Faustina, in mezzo un colonnato. Sono illuminati e spiccano nella loro magnificenza.
E’ bello concludere così le festività, con quest’immagine della Roma monumentale all’interno del presepio, che si aggiunge a quella consueta della “Roma sparita” e della campagna romana.
Foto
Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante, meno l’ultima da Alberto Levante. Le prime 27 nella basilica romana dei Santi Ambrogio e Carlo al Corso, ia Piazza San Carlo, di cui 25 nel Natale 2009 nella mostra nei sotterranei, le 2 successive nel Natale 2018 nell’abside e nella navata destra; l’ultima, ancora del Natale 2018, è nella propria abitazione.