di Romano Maria Levante
Si conclude la nostra visita alla mostra “Cesare Tacchi. Una retrospettiva”, aperta dal 7 febbraio all’8 maggio 2018 al Palazzo Esposizioni, promossa da Roma Capitale, ideata, prodotta organizzata dall’Azienda Speciale Palaexpo in collaborazione con l’Archivio Cesare Tacchi. La mostra è a cura di Daniela Lancioni e Ilaria Bernardi che hanno curato anche il ponderoso Catalogo dell’Azienda Palaexpo nel quale si dà conto dell’accurata ricerca compiuta, e si riportano i giudici dei critici con un ampio apparato documentale e fotografico e una monumentale biografia.
Abbiamo ripercorso la prima parte dell’itinerario artistico di Cesare Tacchi, i dieci anni dall’esordio nel 1968, nei quali il clima del “boom” economico lo portò a concentrare la sua attenzione sulle automobili, riprodotte in particolari fissando su tela fogli che davano il senso della superficie metallica, e poi a prendere le distanze dall’affannosa corsa al benessere rappresentando il relax ozioso nelle poltrone con la rassicurante tappezzeria degli interni domestici.
La pubblicità dominante nella vita e nella società emerge in questi anni nelle figure che ne trae inserendole nei suoi dipinti, mentre resta convinto che faccia parte di un “meccanismo deformante che non appartiene ad un processo fisico naturale. Cioè questo elemento (vita standard, economia pubblicitaria, regole fisse, il cartellone a colori schioccanti, il fumetto, lo spider, la donna , la televisione, ecc.) ha posto su uno stesso piano i valori esistenziali, negando la plasticità e la prospettiva di un vero rapporto umano”. Gli effetti sono conseguenti: “Con questo inquinamento totale delle masse, ogni momento dell’esistenza dell’uomo è condotta per mano dai feticci moderni con allettanti promesse e col suggerimento. Voglio dire tornando all’inizio, che tale condizionamento ha ormai preso forma di meccanismo in ognuno di noi, trasformando e svuotando i contatti con la natura e con il mondo dei fenomeni in cui viviamo”.
Scrive queste parole nel maggio 1964, cerca di proteggersi con gli interni domestici rassicuranti, ma nel 1967 c’è la svolta degli oggetti casalinghi di uso impossibile, poltrone non più accoglienti ma respingenti, sedie inutilizzabili o minacciose, porte bloccate, cornici senza quadro. Poi, con il maggio 1968, allo scoppio della contestazione, la “Cancellazione d’artista”: non quella di Emilio Isgrò che annulla le parole inutili per lanciare messaggi, è la cancellazione di sé, la fine di tutto.
Lo fa per cercare un nuovo inizio su basi totalmente nuove, dando avvio alla seconda e molto più lunga fase del suo itinerario artistico, accuratamente analizzata dall’altra curatrice della mostra, Ilaria Bernardi che ci ha accompagnato nella visita alle opere successive al 1968, come Daniela Lancioni aveva fatto per quelle del primo decennio della imponente e articolata retrospettiva.
Il percorso a zig zag dopo la cancellazione d’artista
La Bernardi, nel ricordare che si tratta della parte meno nota della sua produzione, tanto che è definito “artista pop” o “artista delle tappezzerie”, ne sottolinea l’importanza ritenendo che “la Cancellazione, anziché un drammatico atto di annientamento, abbia piuttosto costituito per lui un sollevante gesto di liberazione da tutti i condizionamenti e i diktat imposti dal sistema artistico e sociale coevo, in primis quelli del produrre, dell’apparire, dell’impegnarsi politicamente, del dover esserci in un modo originale ma sempre nei limiti di una ricerca condivisa e diffusasi internazionalmente. Cancellatosi come artista, Tacchi intraprende invece un solitario, ma ben più libero percorso che lo porta a moltiplicarsi pirandellianamente in uno, nessuno, centomila, tante sono le tecniche, le modalità operative e le tematiche da lui affrontate”.
Seguiremo questo percorso non limitandoci alle opere esposte in mostra, cercando di individuarne i collegamenti, come abbiamo fatto per quelle del primo decennio, pur consapevoli delle sue parole: “Il mio percorso non è stato e non è lineare ma è un’esperienza fatta di cambiamenti, di trasformazioni e di sperimentazioni di vari linguaggi, forse volendo dire sempre la stessa cosa… e se si vuole cercare il filo che possa rendere le opere di un solo autore, basta zigzagare”.
Come fare lo spiega la curatrice Bernardi all’inizio dell’accurata ricostruzione del periodo seguente la “Cancellazione”: “L’unico modo per riconoscere i suoi connotati nel lavori successivi a quel gesto, è focalizzarsi su questi ultimi e da essi lasciarsi trasportare: o meglio, farsi guidare dalle libere associazioni di pensiero che ci inducono a collegarli l’uno all’altro, per analogia o per differenza, senza nemmeno seguire un esatto ordine cronologico né tentare di contestualizzarli nelle ricerche artistiche del periodo” . Più precisamente: “E’ solo percorrendo un itinerario a zigzag dal 1969 al 2014, attraverso quadri, sculture, performance, installazioni, ma anche attraverso il corpus dei coevi e inediti scritti , dei progetti rimasti incompiuti, dei disegni su carta, che rende possibile rintracciare il filo d’Arianna che li lega, e di conseguenza l’effettivo kunstwollen del loro autore”.
Percorreremo questo itinerario con qualche citazione di rilievo nell’interpretazione della sua arte.
La fase nichilista, l'”afasia” e l’incomunicabilità con se stesso e l’esterno
Si parte dal significato della “Cancellazione d’artista” aggiungendo, a quanto già osservato, la considerazione psicanalitica che fa la Bernardi secondo cui “l’impulso ad auto-annientarsi, con la conseguente rinuncia al rapporto con il mondo, non è necessariamente dettato da una effettiva e masochistica volontà di scomparire, ma può sovente derivare da un desiderio opposto: attirare narcisisticamente l’attenzione su di sé, sul proprio disagio nei confronti della realtà circostante”. L’artista stesso ha confermato questa interpretazione affermando in una intervista del 2005: “E’ stata un’azione radicale, fatta perché mi sentivo inadeguato al contesto sociale e politico. Gesto inevitabilmente narcisistico”.
Un’azione a cui non segue l’inattività, bensì la ripresa su nuove basi, cominciando con il progetto “Testimone”, ottobre 1968-gennaio 1969, una carta assorbente bianca e nera sul pavimento per accogliere le impronte di oggetti e persone che avrebbero firmato da testimoni per essere alla fine arrotolata e archiviata. L’impronta dei piedi sottende al desiderio di “ripartire daccapo, dallo status di uomo-animale primordiale”, conclude la curatrice.
Il progetto non fu realizzato, comunque l’incomunicabilità con il mondo e con una parte di sé è espressa dal libro “659365”, del 1969, senza testo ma su ogni pagina del lato destro la sua fotografia mentre è intento vanamente a telefonare al proprio numero, fino a riattaccare l’apparecchio nell’ultima foto. Nel 1970, “Tempocolo” e “Tempometro”, “Orologio” e “Typewriter” esprimono la stessa impossibilità all’uso normale di apparecchiature consuete come, r binocolo, orologio e macchina da scrivere. Tornano anche i “Mobili impossibili”, definiti “mobili veri che si ribellano e si rendono inutilizzabili per scuotere l’osservatore ormai reso passivo e inerte dalle comodità della vita moderna” che l’artista aveva esaltato nella serie con le poltrone e le “tappezzerie” della prima metà degli anni ’60.
Nel 1972 le copertine scure, nera in “Il segreto della vita”, marrone in “Favola”, senza testi né figure, rappresentano il vuoto, come “Lo schedario degli dei” del tutto inservibile, contiene solo poche parole scelte con cura quanto insignificanti nelle schede sui miti divini, mentre “Strumento” rappresenta un archetto che non potrà mai produrre suono, manca la cassa armonica. Da parte sua il “Libro atmosferico” secondo l’artista “può essere percosso con le nocche delle dita ottenendo un suono di involucro contenente aria. Questo suono può essere ritmato come ad esempio per inviare un messaggio”.
La curatrice Bernardi parla di “afasia” rispetto a questi “tentativi negati di comunicare; o meglio simboli di una comunicazione riportata alla strumento comunicativo primario della mano”. A questo riguardo è molto significativa la serie di 60 fotografie di Claudio Abate, “La mano che scrive” muovendosi da sinistra a destra e dall’alto in basso senza lasciare alcun segno, dunque nemmeno la mano permette di comunicare. Neanche la comunicazione verbale funziona, “Tu sei. Due basi per un colloquio” che vediamo esposte sembrano marcare la distanza nel dialogo che fu oggetto di una vera “performance” in uno spazio affollato con i due interlocutori lontani.
Il ritorno allo stato primordiale, animale o infantile
E allora il ritorno allo stato primordiale diventa una via obbligata, e questo preclude l’uso di comodità per cui già nel 1969 aveva progettato una camera da letto con i mobili inutilizzabili, dal letto con acqua, all’armadio bloccato, al giradischi con un disco silente; del resto, afferma in un francese maccheronico, le “formiche” pur senza comodità “vivono da milioni di anni”.
“Cosa logica è cercare l’istinto animale”, ha scritto l’artista nello stesso anno rispetto all’opera “Senza titolo”, e nel 1972 lo cerca con il progetto di un telo di plastica trasparente sospeso orizzontalmente a 80 cm dal suolo. Lo descrive così: “L’entrata nello spazio sottostante avverrà piegandosi carponi, con le mani e i piedi a terra. Si visiterà questo spazio assumendo una posizione animale o per lo più la posizione che assume l’uomo nei primi mesi di vita”.
La riappropriazione dello spazio avviene nello stesso anno con le due “perfomance” “Il Rito” e “Arativo. Luogo atto ad essere coltivato” in cui si sposta carponi a terra. Nel primo bacia il pavimento muovendosi in senso centrifugo e antiorario, nel secondo si muove secondo la dinamica dell’aratro. Il luogo non è più artificioso e convenzionale, ma naturale, sono i primi segni della ripresa creativa, come sottolinea la Bernardi: “L’uomo-animale esce trasformato in un uomo-neonato che, pur camminando ancora carponi ed essendo ancora incapace di esprimersi a parole, può però iniziare a (re)imparare a conoscere se stesso, gli altri e il mondo attraverso i cinque sensi”.
C’è stata in aprile a Roma la mostra “American Action Painting” , Tacchi è stato colpito dalla violenza cromatica delle campiture di forti colori su vaste superfici, collega questa azione violenta alla sua ricerca dell’istinto animale, si sente pronto a “riapparire” con una azione speculare e contraria a quella della “Cancellazione”, siamo sempre nel 1972, sono trascorsi quattro anni da allora, inquieti e tormentati.
Nel frattempo, dal 1971 ha avuto l’incarico di insegnamento all’Accademia dell’Aquila, seguiranno incarichi in licei artistici di Roma che manterrà per oltre 35 anni, fino al 2007 , la sua didattica applicata all’arte è basata sullo stimolo a conoscere e mettersi alla prova nel rapporto con gli allievi, un’altra risorsa per lui dopo il ritorno alla spontaneità dell’infanzia. Si intitolerà “Tabula rasa” una delle sue opere sugli elementi di base della pittura, si tratta di una grande superficie nella parete della Galleria La Tartaruga di Roma in cui lasciare il proprio segno con le mani, un progresso rispetto ai piedi della presenza animale di cui abbiamo già parlato. Nel “Quadro elastico” il segno da lasciare è geometrico scegliendo tra apposite forme in legno. Alla base di tutto c’è il bisogno di tornare a comunicare in modo autentico e genuino senza condizionamenti.
La riapparizione di “Painting” e il nuovo contatto con l’arte
L’azione che lo riporta alla ribalta con una presenza visibile si intitola appunto “Painting”, ma non si ispira al cromatismo violento delle opere degli artisti americani viste ad aprile: una trentina di fotografie di Elisabetta Catalano lo ritraggono mentre con un panno rimuove la vernice che rende opaca la lastra trasparente, per cui quando è eliminata completamente riappare l’artista eretto, non più carponi, con una presenza fortemente simbolica.
C’era stato in precedenza un altro gesto analogo, ma aveva tolto una pellicola con riferimento all’azione teatrale che fa da schermo, ora c’è qualcosa di più, si tratta della pittura. Seguirà, nel 1974, “Sentire… se dipingete chiudete gli occhi e cantate”, una grande tela dipinta di verde, forse nel segno dell’ “Action Painting”, e un orecchio di dimensioni normali al centro: pittorico, sì, ma con una forte impronta concettuale, lui stesso dice: “La pittura è il codice che serve di supporto ai test”, orecchio e occhio sono posti alla stessa altezza, per cui coincidono “il sentire e il guardare” , viene sottolineata così la comunicazione con l’osservatore che ha carattere biunivoco.
Prima di parlare del suo ritorno alla pittura, citiamo la personale del 1979 alla Galleria La Salita sempre di Roma, vediamo esposti diversi oggetti di quella mostra, “Il triangolo si presenta al foro in quadrato”, li descrive così in un manoscritto dello stesso anno: “Il triangolo si presenta all’occhio in vista, poniamo ad esempio un triangolo che si dispone a fronte del foro, in questo caso esso viene inquadrato e ricevuto nella sua forma, nella sua sostanza, all’interno nella camera dell’oggetto globale, l’oggetto animale… il triangolo si presenta all’occhio dell’animale ed è inquadrato, assunta la forma estranea l’oggetto elabora, rigetta oppure produce sulla propria superficie se stesso in forma di altro, oppure geometrie errate o esatte, oppure giochi e giocattoli sulla superficie globale”.
E’ una definizione criptica, è il periodo in cui c’è l’approccio al teatro con “Enigma al teatro scientifico”, 1980, pantomina a base di cinque maschere di cartapesta e personaggi, tra cui lo stesso Tacchi, imprigionati in sacchi con visibile solo la testa e al termine in calzamaglia nera che lascia scoperta una parte del corpo, insieme danno l’impressione di un individuo scomposto in pezzi. Tre anni prima il progetto “La storia – Le Maschere”, 8 maschere di materiali diversi, senza fisionomia e con un modo di allinearle per “vedere il mondo” attraverso uno strano “telescopio monoculare”.
Il ritorno all’arte pittorica nel volo simbolico dell'”Uccel di bosco”
L’arte pittorica la ritroviamo alla grande nello stesso 1980 con il dipinto a olio “Secretaire”, esposto sempre a La Salita, la cui parte superiore si apre verso l’orizzonte dietro un filare di alberi di un parco – è evidente il richiamo a una fotografia del 1973 in cui si trova con una persona non identificata a Villa Pamphili – al centro alcuni oggetti primordiali come una sfera e un osso, in primo piano un tappeto di fogli, non di foglie beninteso, sono grandi fogli di carta bianca che simboleggiano la cultura. Il titolo starebbe a significare che “la pittura è il luogo dei segreti” di cui l’artista è “segretario”, e va intesa, per la Bernardi, “come testimonianza di un profondo il cui significato non può mai essere esaurito a parole. Un profondo che quindi rinvia al concetto psicanalitico di inconscio”. Fu di tipo psicanalitico lo sviluppo, nella stessa galleria, di un “gruppo esperienziale” legato al dipinto, “che gli fornisce la possibilità, da sempre cercata, di porsi in dialogo con l’altro da sé”.
Ma le sorprese non sono finite, lo vediamo nell’adesione alla pittura con “Uccel di bosco”, che segna la ripresa di un ruolo attivo dopo una così lunga assenza dal figurativo. Nel 1982 abbiamo l’icona pittorica, un uccello dei boschi raffigurato tra le fronde verdi, anticipato nel 1980 da “Lo spirito dell’arte”, figurazione analoga resa con un montaggio di dita che tengono la tavolozza a indicano una direzione di marcia e da “Della pittura”, in cui la stessa figura è mostrata in volo.
“Lo spirito dell’arte” vola lontano, nel 1990 intitola, con la specifica # 1, 2, 3, tre grandi pannelli cromatici, da “Action Painting”, rispettivamente rosso, blu e verde, ma con l’ “Uccel di bosco” riprodotto una miriade di volte, come la fioratura nelle “tappezzerie” delle opere degli anni ’60.
Così la curatrice: “Sécrétaire, Della pittura, Uccel di bosco e Lo spirito dell’arte corrispondono dunque a quattro tappe nodali nel percorso dell’artista che dopo essersi presentato come ‘testimone’ passivo di una pittura piena di segreti, prende la tavolozza in mano e, come un ‘uccel di bosco’, dietro ad essa si nasconde dal mondo, per poi prender coraggio e mostrarsi quale ‘immagine solida dell’autore’, il quale, abbandonata la propria introversione, può finalmente dichiararsi ‘spirito d’artista’”.
Ne vediamo i riflessi in altri lavori successivi, come “Foglioline bianche” e “Foglioline nere”, 1991, su fondo verde e giallo, in cui il richiamo alle “tappezzerie” è ancora più evidente per la modularità delle sequenze che si ripetono nell’intera superficie; diversamente riproposti, ma con analoga accezione, gli strati riproposti di “Emozione (a Bernini)” e “Foglie e foglie”, 1986, mentre “Parola parola” appare una straordinaria tappezzeria di foglie verdi perfettamente riprodotte.
Oltre agli elementi naturali, dall’uccel di bosco alle foglie e fiori, troviamo composizioni geometriche assimilate all’arabesco in “I fogli”, “I segni”, “Defogliato”, 1995, con motivi grafici neri o bianchi su fondo colorato a tinta unita rispettivamente rosso, blu, rosso. Ecco il significato attribuito dalla Bernardi: “Confondendosi con tale trama d’arabesco, i segni, i simboli e le parole annullano il loro valore semantico per diventare pittura, pura immagine che induce a pensare. Si verifica uno scambio tra il leggere e il vedere, tra il nominare e il rappresentare, o meglio, una riformulazione dei consueti apparati linguistici”.
La riformulazione è così concepita: ” Ogni elemento tralascia il proprio ambito di origine (la geometria, il linguaggio verbale o simbolico) per trasformarsi in postulato segnico. Tornare al ‘linguaggio neonato’, significa svincolare l’immagine dal messaggio, renderla aperta a qualsivoglia interpretazione, trasformarla in strumento di sollecitazione dell’immaginario”. Anche per questo negli anni ‘2000 si cimenta nella riformulazione delle opere più celebri degli anni ’60 con diverso titolo in modo da “mostrare il suo operato, riproporlo variato, e chiedere a noi spettatori di rintracciarvi, attraverso la comparazione, i segnali più significativi del suo procedere”. Lui stesso ne dà l’interpretazione autentica: “L’itinerario da percorrere è soprattutto quello di essere fedeli a se stessi, perché la via è solitaria al fine e porta lì dove sei nato nella materia”.
“Pensare a rovescio” per fare arte e comunicare con se stesso e gli altri
Ma “essere fedeli” a se stessi in che direzione, viene da chiedersi: “Per fare arte bisogna pensare a rovescio”, ha scritto dietro un’opera su carta intitolata P.I.E.T. (Pensiero, Interiore, Estatico, Traslato), la Bernardi ne trae questa conclusione: “E’ nell’esigenza di ‘pensare a rovescio’ per fare arte, ovvero per esprimersi, per comunicare, per porsi in dialogo con gli altri, che risiede l’attualità del suo lavoro” . Si è posto con grande anticipo il problema della comunicazione, che deve essere “liberata da qualsiasi condizionamento, soprattutto se concepita come dialettica con l’altro da sé, con il diverso, con la varietà dell’essere nel mondo”.
Questo non è soltanto il “fil rouge” che collega la sua opera così multiforme e apparentemente eterogenea, è anche “il più prezioso insegnamento lasciatoci in eredità”.
Guardiamo i tre autoritratti del 2003 che concludono la mostra, in tutti è rivolto a sinistra, appoggia il mento sulla stessa mano, ha la medesima cravatta, sono puntinati con una fitta griglia grafica che nell’ultimo tende al rosso: i titoli,“Com’ero”, “Come sono”, “Come sarò”. Sono definiti ed evanescenti nel contempo, com’è stata e resta la sua figura di artista tormentato e indomito.
Info
Palazzo delle Esposizioni, via Nazionale 194, Roma. Tel. 06.39967500, www.palazzoesposizioni.it. Orari. da domenica a giovedì, tranne il lunedì chiuso, dalle 10,00 alle 20,00, venerdì e sabato dalle 10,00 alle 22,30. Ingresso intero euro 13,50, ridotto euro 10,00. Catalogo “Cesare Tacchi. Una retrospettiva”, a cura di Daniela Lancioni e Ilaria Berardi, Azienda Speciale Palaexpo, gennaio 2018, pp.480, formato 16,5 x 23, dal Catalogo sono state tratte le citazioni del testo. Il primo articolo è uscito in questo sito il 12 marzo u. s. con altre 13 immagini. Per gli artisti citati, cfr., in questo sito, i nostri articoli sulle mostre su Isgrò 16 settembre 2013, Claudio Abate le foto a Carmelo Bene 2 gennaio 2013, il Guggenheim con le correnti artistiche americane tra cui l'”Action Painting” citata, 22, 29 novembre, 11 dicembre 2012.
Foto
Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione nel Palazzo Esposizioni, si ringrazia l’Azienda Speciale Palaexpo, con i titolari dei diritti, in particolare l’Archivio Cesare Tacchi, per l’opportunità offerta. A parte l’immagine di apertura, le successive 5 immagini sono commentate nel primo articolo, le prime 3 anteriori alle “tappezzerie”, le altre 2 posteriori. In apertura, “Secretaire” 1980; seguono, del 1962, “Super n. 6″ e “Struttura bianca su nero”; poi, “Circolare rossa” 1963, e “Poltrona inutile” 1967; quindi, “Cornice” 1968, e, del 1972, “Schedario degli dei”; inoltre, “Strumento” e “Painting”; infine, “Lo spirito dell’arte # 1, 2, 3” 1990, da sin., “Foglioline nere”, “Foglioline bianche” 1991, e, da sin., “I Fogli”, “I Segni”, “Il Defogliato” 1995; in chiusura, “Come sarò” 2003.
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