di Romano Maria Levante
Due mostre, dal 17 novembre 2017 al 18 febbraio 2018,a Palazzo Barberini,: “Alto Rinascimento. Il giovane Lippi e la Madonna di Tarquinia” , a cura di Enrico Parlato, per il centenario della riscoperta dell’opera, raffrontata ad altre 11 opere esposte, 5 dello stesso Lippi, 1 di Masaccio e Donatello, 3 di altri artisti, sempre del ‘400; “Giovanni da Rimini. Passato e presente di un’opera”, a cura di Alessandro Cosma, 2 tavole dell’artista e 1 dl Baronzio, del ‘300.
Il nuovo percorso delle Gallerie Nazionali d’Arte Antica con la direzione di Flaminia Gennari Sartori, imperniato su mostre con poche opere accuratamente selezionate sulla base di una ricerca storico-artistica che ne mette in luce significati reconditi, pone questa volta la “Madonna di Tarquinia” di Filippo Lippi del 1437 nel cono dei riflettori, contornata da una preziosa documentazione di tavole e tomi e soprattutto da opere che rispondono ad artisti come il grande Donatello. In aggiunta, un confronto la tavola con le “Storie dei Santi” di Giovanni da Rimini, degli inizi del ‘300, delle Gallerie Nazionali e quella parallela della National Gallery di Londra.
La Madonna di Tarquinia e il suo valore nell’arte di Filippo Lippi
Per la “Madonna i Tarquinia” si celebra il centenario della riscoperta e attribuzione a Filippo Lippi, padre del più celebrato Filippino Lippi ma egli stesso di notevole valore artistico. Soltanto il fatto che fu maestro del figlio Filippino e del grande Sandro Botticelli ne qualificherebbe la caratura e l’importanza nella storia del ‘400 fiorentino, ma è soprattutto la sua personalità di artista definito “fuori del coro” a dare alla sua figura uno spicca particolare.
Lo storico dell’arte Pietro Toesca, protagonista della riscoperta e attribuzione di tale opera, come vedremo, lo definisce “creatore di modi nuovi per la pittura fiorentina, più che per solito non si stimi”, perché su di lui c’era l’ombra del figlio. Filippo Lippi era frate carmelitano, ma le sue Madonne non hanno la freddezza ieratica e iconica da pittura religiosa, bensì una grazia sensuale che è stata una sua peculiarità rimarchevole.
Il quadro al centro della mostra ha un rilievo particolare nella sua produzione perché segna il passaggio alla maturità artistica dopo la sua formazione nello stile severo di Masaccio; diventa Donatello il suo ispiratore, in un confronto incrociato pittura-scultura di particolare interesse, che lo portò anche ad ispirarsi, per degli angeli, alle formelle di Luca della Robbia.
Partendo dalle innovazioni introdotte da Donatello, Lippi orienta il suo stile verso toni eleganti e raffinati, dai colori cangianti e dolci, una pittura che definita “ornata e graziosa” dall’umanista Cristoforo Landino nel 1481, quasi mezzo secolo dopo la “Madonna di Tarquinia”.
Un’accurata ricerca è stata condotta sulle vicende della tavola nell’800, e oltre all’attribuzione del dipinto si è potuta accertare anche la provenienza e l’originalità della cornice. La mostra dà conto dei risultati evidenziandoli nelle tre sezioni poste in sequenza logica e progressione spettacolare.
Filippo Lippi da Masaccio a Donatello
Ma prima di considerare le opere esposte, cerchiamo di conoscere meglio Filippo Lippi, “pittore carmelitano”, come lo definisa Donatelloe Keith Christiansen. Entrò nell’ordine, sembra per le ristrettezze familiari, e subito manifestò predilezione per la pittura, come scrive il Vasari rivelando che da piccolo “in cambio di studiare non faceva mai altro che imbrattare con fantocci i libri suoi e degl’altri; onde il priore si risolvete a dargli ogni commodità ed agio d’imparare a dipignere”; e lo faceva nella cappella dipinta dal Masaccio “che bellissima era, piaceva molto a fra’ Filippo; laonde ogni giorno per suo diporto l frequentava, e quivi esercitandosi del continovo in compagnia di moli giovani che sempre vi disegnavano, di gran lunga d’altri avanzava di destrezza e di sapere”. . Ed ecco il risultato, sempre nelle parole di vasari: “”E così ogni giorno facendo meglio aveva preso la mano di masaccio sì che le cose sue in modo simili a quelle che faceva che molti dicevano lo spirito di masaccio essere entrato nel corpo di fra’ Filippo”. Ben più che se fosse stato nella sua bottega.
Poi, dalla copia delle opere di Masaccio alla conoscenza personale, il maestro aveva soltanto cinque anni più di lui. Di lui doveva affascinarlo, oltre alla solidità delle figure, il senso prospettico dello spazio in cui collocare la composizione in termini emotivi e non razionali, così per i forti contrasti tra luci ed ombre .
Lippi cominciò ad utilizzare le ombre “per il loro potere simbolico piuttosto che per definire una posizione”, osserva la Christensen, e aggiunge una considerazione che dà una spiegazione al confronto con la scultura cui abbiamo accennato. Sembra sia nato dai modelli scolpiti in creta o cera utilizzati da Masaccio per studiare gli effetti di luce era un pittore che sentiva come maestro ad utilizzare mezzi scultorei; di qui a trarre dalle sculture di Donatello l’ispirazione decisiva per la svolta pittorica della “Madonna di Tarquinia” il passo è breve. “In maniera crescente – viene ribadito dalla studiosa – la scultura agiva come catalizzatore per le sue idee”, e lo troviamo intento a combinare gli influssi di Donatello con quelli di Luca della Robbia.; anche da Brunelleschi prese ispirazione per le architetture di sue composizioni pittoriche.
Ma l’influsso di Masaccio? C’è stata una diretta incidenza sulla sua formazione attraverso i dipinti della cappella di cui parla Vasari, così ne parla Carl Brandon Strrehle: “Negli anni in cui Lippi stava imparando a dipingere, sembra aver lavorato seguendo passo passo Masaccio. Di seguito si propone una cronologia per questa relazione”. E lo studioso dice che delle opere furono realizzate in stretto collegamento con lui, “dopo un primo contatto con Masolino nella tavola di Enpoli”, addirittura “Il giovane santo carmelitano”, esposto, di cui parleremo più avanti, lo avrebbe dipinto a Pisa, dove era andato come frate carmelitano, per volere di Masaccio; nella tavola della collezione Cini “è pienamente visibile il peso della lezione di Masaccio, evidente anche nella resa dell’architettura…”. Poi il cambiamento, ma intanto “sebbene non fosse più il pittore del Carmine, certamente gli anni della gioventù trascorsi lì, accanto a Masaccio. Gli avevano dato le basi per decenni di innovazioni che caratterizzeranno il resto della sua carriera”. Quando irrompe Donatello.
Diremo più avanti, parlando delle opere esposte, dell’influsso diretto sulla “Madonna di Tarquinia”. Intanto, più in generale , Laura Cavazzini afferma che dalle carte di archivio si trae la conclusione che durante i lavori per il polittico del Carmine di Pisa, nei quali fu collaboratore di Masaccio, come si è appena ricordato, avrebbe incontrato anche Donatello. Lo scultore, infatti, si trovava a Pisa per lavorare al sepolcro Brancaccio e aveva rapporti con Masaccio documentati da una rata dei pagamenti per il polittico del Carmine di Pisa dovuti al pittore, versata allo scultore a saldo di un proprio credito verso il primo. Ma sarebbe soltanto un indizio, non una prova assoluta perché il contatto Masaccio-Donatello nella persistenza del contatto Masaccio-Lippi non comporta necessariamente il contatto Lippi-Donatello, la proprietà transitiva può essere applicata solo in modo ipotetico, come probabilità, non come certezza. C’è, però, una prova documentale diretta, basata su analogo pagamento ricevuto diversi anni dopo da Donatello, una rata dovuta a Lippi per “L’incoronazione della Vergine” della chiesa di Sant’Ambrogio a Firenze, data allo scultore per lo stesso motivo, un debito del pittore verso di lui così compensato, che implica rapporti stretti e non occasionali
Dopo la svolta stilistica degli anni ’40 del ‘400 il dialogo artistico tra i due continua, afferma la Cavazzini, e conclude: “Nel decennio in cui Donatello lavora a Padova e una nuova generazione di scultori, cresciuti nel suo entourage, propone al pubblico fiorentino un nuovo ideale figurativo, fatto di eleganze lineari, di una tecnica ipersofisticata, di un’espressività più posata rispetto alle accensioni donatelliane, ecco che Filippo Lippi trova con loro – e in particolare con Desiderio da Settignano – una imprevista sintonia, contribuendo a dar vita, questa volta da pari a pari, a una stagione dell’arte fiorentina pronta ad assecondare le istanze mecenatistiche della città ormai medicea”.
Siamo oltre la “Madonna di Tarquinia”, ma negli anni in cui Lippi ha realizzato altre opere esposte, di cui diremo di seguito, in particolare riguardo alla 3^ sezione della mostra.
Le 3 sezioni della mostra, sei opere di Lippi, una di Donatello e una di Masaccio
La documentazione esposta nella 1^ sezione ricostruisce l’evento dell’identificazione della tavola nel 1917 a Santa Maria di Valverde a Tarquinia (allora si chiamava Corneto) e della sua attribuzione a Filippo Lippi da parte del rinomato storico e critico, che abbiamo citato all’inizio, Pietro Toesca, che nel 1914 aveva ottenuto la cattedra di Storia dell’Arte a Firenze, con tutte le ripercussione che ne seguirono. A tal fine sono esposti documenti dell’Archivio di Stato.
Identificata l’opera si passa, nella 2^ sezione, ad identificare il committente: si tratta di Giovanni Vitelleschi, arcivescovo di Firenze; lo vediamo in una xilografia di Tobias Stimmer, contenuta nel volume di Paolo Giovio, “Elogia virorum bellica virtute illustrium”, perché era un “cardinale guerriero”; tornò nella città natale nel 1437, data iscritta nel cartiglio posto ai piedi della Vergine nella tavola che portò con sé nel proprio palazzo dove si trova oggi il Museo Nazionale Etrusco.
Una tavola di Bartolomeo di Tommaso da Foligno, “San Francesco rinuncia ai beni paterni”, 1420-30, con il corpo nudo spogliato degli abiti, e un prezioso reliquario di un Argentiere fiorentino della 1^ metà del XV sec., “Pace”, con la figura di Cristo che emerge dal sepolcro, la testa reclinata e le braccia abbassate – che ricorda un “Crocifisso” di Donatello del 1408 – commissionati da lui, avvicinano ancora di più il visitatore al committente della “Madonna di Tarquinia”.
L’importanza di questo reliquiario appare evidente dal fatto che il cardinale, a differenza degli altri oggetti liturgici tenuti nella cattedrale di Corneto, l’odierna Tarquinia, lo conservava, insieme ad un calice, messale e paramenti liturgici, nella cappella del palazzo Vitelleschi, dove risiedeva, che aveva voluto dedicare ai “Diecimila Martiri”, i soldati romani crocifissi dall’imperatore Adriano sul monte ASrarat per essersi convertiti al cristianesimo.
Ma è la 3^ sezione quella che consente di apprezzare il livello artistico dell’opera al centro della mostra, e il suo valore dell’autore sia in generale sia nella sua svolta stilistica:
Vediamo la “Madonna di Tarquinia” di Filippo Lippi , nella sua cornice dorata monumentale, come una nicchia d’altare, nella tenera dolcezza del suo viso le mani delicatamente inanellate stringono con un’affettuosità che è stata definita “quasi aggressiva” il bambino, il quale si stringe a sua volta a lei con pari energia. E’ su un trono, ma il piedistallo è così vicino al piano del dipinto che la fa sentire vicina all’osservatore, non distante nella sua sacralità; accentua questa sensazione l’interno domestico che si apre dietro di lei, si intravede un letto e dalla finestra un paesaggio con ulivi con un sentiero che porta a una fortezza. Toesca, allorché “scopre” l’opera nel 1917, scrive nell’ “Enciclopedia Treccani” che Filippo Lippi riesce a dare “un’energica impressione plastica,provocandola col contrasto d’ombra e di chiaro nel definire i contorni e nei guizzi di luce che accentuano la stabilità del rilievo, nonché nell’appassionato impeto del Bambino”.
E proprio su questo particolare centrale si è indirizzata la ricerca, il volto del Bambino ha le stesse fattezze e il medesimo atteggiamento energico dello “Spiritello ceroforo” di Donatello, una piccola statua del museo Jacquemart-André, posta a diretto confronto con il quadro di Lippi, sono entrambe del 1437.
La Cavazzini parla di “esplosiva vitalità” degli “spiritelli” che Lippi potrebbe aver visto nella bottega di Donatello, prima che fossero messi nella balaustra dell’organo di Santa Maria del Fiore di Firenze, la cui “cantoria” era stata affidata a Luca della Robbia. Dato che gli “spiritelli” scolpiti da Donatello sono dello stesso anno del dipinto di Lippi, è inevitabile che il pittore li conoscesse perché, spiega la studiosa, “il bambino energico, sodo e vitale della Madonna di Tarquinia sarebbe inconcepibile senza il precedente dei ridenti e carnosi Spirittelli del Museo Jacquemart-Andrè”..
La severa ieraticità del “San Paolo” di Masaccio è l’altro termine di confronto proposto ai visitatori, è del 1426, precedente rispetto allo “spiritello” di Donatello del 1437, dal quale è evidente la radicale differenza; .come sono precedenti le altre opere di Filippo Lippi esposte in una piccola “personale”.
Il suo “Giovane santo carmelitano” sembra sia stato dipinto da Lippi nella bottega di Masaccio nello stesso 1426 in cui il maestro realizzava il “San Paolo” sopra citato. Cui si accosta nella ieraticità, le pieghe del mantello, la posizione delle mani. Sempre di Lippi, dello stesso anno, “Madonna con il Bambino, sette angeli e i santi Alberto da Trapani, Michele Arcangelo e Bartolomeo”, ieratica e fredda la Madonna e distaccata rispetto al Bambino che lo è altrettanto rispetto a lei, l’opposto della coinvolgente tenerezza reciproca della “Madonna di Tarquinia”.
Analoga considerazione per la “Madonna con Bambino, angeli e donatore con i santi Giovanni Battista e Ansano o Giorgio”, 1430-33, la Madonna è assorta e il Bambino distaccato, proteso verso il “donatore” inginocchiato, con la mano sinistra poggiata sul suo copricapo.
Seguono due “Annunciazioni”, del 1935 e 1440, nelle quali il viso della Madonna è atteggiato alla stessa soave dolcezza della “Madonna di Tarquinia” con pari delicatezza ornamentale, evidentemente nell’artista c’è stata la svolta “ornata e graziosa” dovuta all’influenza di Donatello negli anni ’30.. Infatti viene confrontata con opere precedenti e con un’opera di Donatello con la quale sono evidenti le notevoli affinità.
Giovanni da Rimini, due opere a confronto
Quando si riuniscono due opere, parti di una stessa composizione pittorica, separate per le vicende della storia, è sempre un evento perché si interrompe, anche se per il solo periodo dell’esposizione, una separazione innaturale.
In questo caso vi è un interesse particolare perché Giovanni da Rimini è un importante artista trecentesco, tra i maggiori pittori riminesi, protagonista del rinnovamento stilistico dopo il passaggio di Giotto. Lo testimoniano le sue opere, quali gli affreschi del Convento di sant’Agostino e il “Crocifisso” di San Francesco a Mercatello sul Metauro.
La tavola con le “Storie di Santi”, che la National Gallery di Londra ha acquistato nel 2015, viene posta a confronto con quella che reca le “Storie di Cristo” della collezione di Palazzo Barberini, ovviamente sono coeve, risalgono agli inizi del ‘300.
Si ritiene fossero parti di un’unica opera con scene multiple – in origine situata forse nel convento di sant’Agostino dove l’artista ha realizzato gli affreschi – per le affinità nella composizione e nell'”impaginazione”, oltre che nello stile. Inoltre per il fatto che facevano parte entrambe delle collezioni della famiglia Barberini, per poi prendere direzioni diverse, tutte ben documentate.
La tavola con “Storie di Santi”, dai Barberini passò alla collezione Camuccini, poi a quella dell’inglese Algernon Percy, IV Duca di Northumberland, che la portò nel proprio paese nel 1835, poi è finita nella National Gallery londinese dov’è tuttora. Mentre la tavola con “Storie di Cristo” di Palazzo Barberini, dalla famiglia Barberini passò alla collezione Sciarra, fino all’acquisto da parte dello Stato italiano nel 1897; è tornata a Palazzo Barberini dopo l’acquisto del palazzo da parte dello Stato e la collocazione nello storico edificio della Galleria Nazionale d’Arte Antica.
Oltre alle due tavole con le Storie dei santi e di Cristo di Giovanni da Rimini è esposta la tavola con le “Storie della passione di Cristo” di Giovanni Baronzio, del 1330-35, quindi di qualche decennio successivo rispetto alle altre due opere, come prova dell’influsso che continuava ad esercitare il più anziano pittore riminese tra gli artisti della sua terra.
Una considerazione finale
Anche le “Storie della passione di Cristo” di Baronzio, come le “Storie di Cristo” di Giovanni da Rimini, fanno parte della collezione di Palazzo Barberini; come. per Filippo Lippi, la “Madonna di Tarquinia” e “Annunciazione con donatori”. Tale collezione è una miniera inesauribile per le ricerche attivate dalla nuova direzione delle Gallerie Nazionali d’Arte Antica, mediante il “focus” su poche opere qualificatez. Ma, pur nella sua vastità, la collezione non basta per tali ricerche, per le due mostre considerate si sono aggiunti prestiti da Urbino e Tarquinia, Empoli e Pisa, Berlino e Cambrdge, Psrigi e New York per la prima; dalla National Gallery di Londra per la seconda. E’ di fondamentale importanza, quindi, il programma di reciproca collaborazione in atto con i più grandi musei, la National Gallery di Londra, il Metropolitan Museum di New York, il Prado di Madrid.
Il museo così acquista dinamismo e le sue collezioni guadagnano visibilità, inoltre focalizzare ricerche mirate su opere selezionate e coinvolgere il pubblico con mostre di questo tipo è un’operazione culturale meritoria che al rilevante aspetto scientifico unisce quello non meno importante di carattere divulgativo. E’ indubbiamente intrigante il passaggio dalla mera contemplazione museale alla condivisione di indagini storico-artistiche, per questo ci sentiamo di dire, dalla parte dei visitatori, che questa strada va perseguita con sempre maggiore decisione.
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