di Romano Maria Levante
Al Complesso del Vittoriano, dal 19 ottobre 2017 all’11 febbraio 2018,prorogata “a grande richiesta” al 3 giugno, la mostra “Monet. Capolavori dal Musée Marmottan Monet, Parigi”, espone 54 opere provenienti dalla raccolta privata dell’artista approdate al museo anche tramite gli eredi del collezionista De Bellio, in particolare la figlia Victorine sposata con Eugéene Donop de Monchy. La mostra, promossa e organizzata da “Arthemisia”,in collaborazione con il Musée Marmottan Monet di Parigi è a cura di Marianne Mathieu, al pari del catalogo edito da Arthemisia Books.
Dalla mostra sugli impressionisti “Da Corot a Monet. La sinfonia della natura” del 2010 all’attuale mostra monografica “Monet”, sono passati oltre sette anni, sempre il Vittoriano la sede espositiva, la “sinfonia della natura” diventa l’ “intimità” della natura nell’assolo di un artista che per primo ha fissato le “impressioni” en plein air sulla tela e ha poi seguito un itinerario molto particolare, culminato nella identificazione della natura nel proprio giardino fino alla sublimazione nelle ninfee dello stagno anch’esso appositamente realizzato per un’immersione continua e totale in un mondo divenuto esclusivo del pittore e dell’uomo. Un valore aggiunto rilevante della mostra è rappresentato dal fatto che le opere esposte sono quelle che l’artista aveva tenuto per sé fino alla loro collocazione definitiva nel Museo Marmottan Monet.
E’ una bella storia punteggiata di opere dal fascino intramontabile, che vanno dai paesaggi cangianti nelle diverse luci del giorno, sempre vibranti e delicati in un’atmosfera tremula e soffusa, alle visioni ravvicinate delle ninfee e del tripudio della natura con toni invece decisi e brillanti. Cercheremo di rievocare questa storia nel mentre scorrono dinanzi a noi le visioni incomparabili di bellezza prorompente dei dipinti di Monet, in un allestimento dalle sorprese spettacolari, come i “corridoi” fioriti in cui il visitatore è come se camminasse nel giardino di Monet fino a sentirsi sospeso nell’incanto acquatico dello stagno delle ninfee.
Le caricature e i ritratti familiari
Ma prima di immergerci in un mondo così ricco di suggestioni ambientali e vibrazioni umane, entriamo nella vita personale dell’artista attraverso due cicli molto diversi, minori ma significativi: 19 caricature a matita su carta e 4 ritratti di bambino a olio su tela di piccole dimensioni.
Le caricature risalgono al periodo iniziale o addirittura precedono la sua vita artistica, quando a scuola ritraeva i volti dei propri insegnanti deformandoli con irriverenza. Quelle esposte riproducono tipi umani visti nei loro atteggiamenti consueti, come “Vecchia normanna” e “Piccolo Pantheon teatrale”, “Un redditiere” e “Giovane donna al piano verticale”, e singoli personaggi in forma caricaturale: “Adolphe d’Ennery” e “Théodore Pelloquet”, “Jules-Francois Fleury-Husson detto ‘ Champfleury'” e “Jules de Prémaray”, “Eugéne Scribe” e “Louis- Francois Nicolaie detto ‘Clairville Ainè’“, sono del 1858, li ha realizzati a 18 anni.
Invece i ritratti a olio sono di 20-25 anni dopo, riprendono il secondo figlio “Michel Monet”, nato da Camille Donceux, conosciuta come modella nel 1865 e sposata nel 1870, il primo figlio Jean era nato nel 1867. Camille morirà nel 1879 a soli 32 anni, e il pittore si unirà con Alice Hoschedè, moglie del collezionista Ernest che aveva sei figli, e nel 1876 gli aveva commissionato, con la consorte, pannelli decorativi per il loro castello di Montgeron, la sposerà nel 1892.
I ritratti esposti mostrano Michel neonato paffuto con la cuffietta bianca nel 1878, poi a 2 anni nel 1880, infine a 5 anni nel 1883. Anche ai figli di Alice dedicherà ritratti pieni di dolcezza, mentre non ritrarrà mai Alice, invece Camille l’ha ritratta con il primo figlio in giardino e in campagna in pochi rari dipinti. Li definiamo rari perché gli altri, in particolare quelli esposti con il secondo figlio Michel, hanno uno sfondo neutro senza alcun elemento naturale quasi non volesse distrarre l’attenzione dal volto cui è dedicato l’estro pittorico ma soprattutto l’affetto paterno. Inoltre la maestria dell’artista riesce a rendere l’atmosfera di un’età di rapida transizione, come se non potesse fissarne lineamenti e personalità “in fieri” dando così al dipinto un senso di incompiuto.
Per tale motivo, nonostante le apparenze modeste rispetto agli altri dipinti, “le tele esposte in questa mostra sono dunque pezzi inestimabili – commenta Aurèlie Gavoille – utili alla riscoperta del Monet ritrattista. L’insieme di questi ritratti di grande sobrietà costituisce “un eccezionale album di famiglia grazie al quale ricostruire gli affetti dell’artista”. Basti pensare che li ha tenuti nella sua casa senza mai esporli, “come una sorta di giardino segreto”, prova evidente di “quanto amasse quei dipinti, ricordi straordinari dei momenti d’intimità trascorsi con la famiglia”.
Dall’icona “Impressione, levar del sole” “alla caccia di soggetti
Come inizia in Monet l’avventura dell’impressionismo che trova in lui non solo uno dei massimi esponenti, ma addirittura il creatore, per così dire, di un termine che esprime in modo così efficace la capacità di cogliere al volo l’ “impressione” di un attimo, a contatto con la natura?
La curatrice Marianne Mathieu nella “genesi di un’icona” ricorda come il titolo da lui suggerito per un suo quadro del 1872, raffigurante il porto di Le Havre nella luce translucida e tremolante dell’alba che ne rendeva sfumati i contorni, fu “Impressione, levar del sole”, diede così nome agli “impressionisti”, termine sulle prime visto in senso negativo se non dispregiativo. Tale quadro ha costituito, con altri di Monet e colleghi, la base su cui è stato realizzato, in un palazzo donato dal collezionista Paul Marmottan, l’omonimo museo al quale la signora Victorine Donop de Monchy conferì 11 dipinti impressionisti tra cui “Impressione” e altri più noti, “Il treno nella neve” e “Il ponte dell’Europa”.
“Impressione, levar del sole” divenne celebre soltanto in epoca recente, come è stato per le sue grandi decorazioni, 125 pannelli decorativi realizzati tra il 1914 e il 1926 donati alla nazione per celebrare la fine della prima Guerra mondiale, che furono esposti soltanto dopo la sua morte.
Ma andiamo con ordine nel ripercorrere i momenti della sua vita in parallelo con la galleria pittorica che dopo le caricature e i ritratti infantili ci mostra una visione sempre più personale e intima della natura alla quale approda dopo una ricerca di luoghi suggestivi senza confini, che lo fa definire da Claire Gooden, “cacciatore di soggetti”.
Il soggiorno a Londra nel 1870 – c’è anche la parentesi inglese nella sua vita – in realtà avvenne per sfuggire alla guerra franco-prussiana, ma fu determinante perché gli fece scoprire gli effetti di luce di pittori inglesi come Constance e Turner, alla base delle sue ripetizioni di soggetti ripresi in condizioni di luce differenti, che divenne una peculiarità particolarmente suggestiva del “suo” impressionismo, si pensi alla “Cattedrale di Rouen” che si trasfigura nelle diverse ore della giornata.
Tornato in Francia, consigliato da Manet, nel 1871 si trasferisce ad Argenteuil con la moglie Camille e il primo figlio Jean, in diretto contatto con la Senna, di cui dipinge le rive seguendo il corso del fiume, tanto che affermerà: “La Senna l’ho dipinta per tutta la vita, a tutte le ore, in ogni stagione. Non me ne sono mai stancato; per me è sempre nuova”, come sono nuovi altri soggetti, naturali e non, ritratti nelle diverse condizioni di luce. Vediamo esposti “Il treno nella neve. La locomotiva”, ed “Effetto neve, sole al tramonto”, entrambi del 1875, nel primo si intravedono le sagome di persone, non ce ne sono più nell’intera mostra salvo due ombre indistinte su una barca sotto il ponte ad arco in “Il castello di Dolceacqua”..
Il trasferimento a Vétheuil nel 1878 con la famiglia cui si è aggiunto il secondo figlio Michel è seguito l’anno successivo dalla prematura scomparsa di Camille, è di questo anno, il 1879, “Vétheuil nella nebbia“, un’atmosfera irreale raggelata come una morsa di solitudine e tristezza.
Supera la crisi per l’appoggio del mercante Durand-Ruel e l’apprezzamento di scrittori come Emil Zola, tra il 1880 e il 1885 soggiorna nella sua terra, la Normandia, torna sulle spiagge dove ritrova i soggetti naturali che dipingeva all’aperto nell’adolescenza, li ritrae affascinato dai giochi di luce. Come “La spiaggia di Pourville. Sole al tramonto”, 1882, “Barca a vela. Effetto sera” e “Etretat, falesia e Porta d’Amont. Effetto del mattino”, entrambi del 1885, la terra e il mare, il mare e il cielo in una gara di vibrazioni e luminescenze sfumate ed evanescenti.
Dal 1883 si trasferisce a Giventry nell’abitazione che sarà la dimora definitiva, i primi sette anni in affitto, poi la acquista, differenza essenziale perché nel periodo in cui non la sentiva sua vi tornava dopo peregrinazioni alla ricerca di ambienti e paesaggi, trascorreva metà dell’anno lontano. Poi l’ispirazione pittorica l’ha trovata nel giardino che ha pazientemente realizzato e infine nello stagno con le sue predilette ninfee, lavorando in atelier costruiti in tali ambienti naturali.
Ma non anticipiamo i tempi, siamo nella fase in cui compie una serie di viaggi con Renoir nella costa mediterranea fino alla riviera ligure, oltre alla “magica luce” cisono sfavillanti colori. In “Il Castello di Dolceacqua”, 1884, il castello, il monte, il torrente offrono una spettacolare visione d’insieme alleggerita dall’arcata di ponte sottesa con leggiadria.
Nel 1886 è nei Paesi Bassi, Claire Gooden riporta la sua descrizione dei paesaggi olandesi, “di una luminosità incomparabile. L’acqua sfavilla di riflessi iridescenti, il cielo si agghinda di azzurri sconosciuti altrove e le cose stesse assumono sfumature nitide e gioiose”; il contatto con l’arte giapponese lo porta a contrapporre colori diversi senza le sfumature. Poi è la volta della Bretagna, a diretto contatto questa volta con l’oceano in “un territorio superbo e selvaggio, un affastellarsi di scogli terribili e un mare dai colori inverosimili”.
Ne deriva una serie di tele, una quarantina, che a differenza delle opere precedenti sono molto nette e dal cromatismo intenso: così “Il ponte di Vervy” e “Valle delle Creuse. Effetto sera”, nel primo casolari immersi in un magma naturale, il ponte quasi per togliere le abitazioni dall’innaturale isolamento, nel secondo un corso d’acqua che si inoltra in una natura inospitale, le ombre della sera accrescono il senso di struggente solitudine. Saltando invece al 1994, i due “La Senna a Port-Villez”, “Effetto rosa” ed “Effetto sera” rendono le differenze di luminosità; la visione seriale, con le opportunità che offre di rappresentare in modo non ripetitivo lo stesso soggetto, sembra aver dischiuso nuove possibilità, maggiori aperture.
Nel 1895 il “cacciatore di soggetti” va in Norvegia, tra il 1899 e il 1901 compie i tre viaggi a Londra, ne vediamo i riflessi in tre opere: due ritraggono il “Ponte di Charing Cross”, 1899-01, mentre vi passa sopra un treno sbuffante, in condizioni normali di luce, e con “Fumo nella nebbia. Impressione”, 1902, titolo aggiunto a marcare uno straordinario impasto cromatico che riporta alla prima “Impressione” di Le Havre del 1872; la terza opera, “Londra. Il Parlamento. Riflessi sul Tamigi”, 1905, è più marcata nella netta tripartizione tra cielo translucido, e acqua del fiume increspata di luce separati dal contorni scuri del palazzo turrito, che conferiscono un’atmosfera misteriosa, un vero spettacolo!
Seguirà un viaggio a Venezia nel 1908, dopo di che non si muoverà più da Giventry.
A Giverny, dal giardino dell’anima allo stagno delle ninfee
Ed ora seguiamolo a Giventry, dopo averne rievocato i movimenti a caccia di soggetti naturali. Il borgo si trova a 75 chilometri da Parigi, ha 300 abitanti, è situato tra la Senna e le colline, campi fioriti e acquitrini con le piante acquatiche, vi si trasferisce con i due figli di Camille e la nuova compagna con i sei figli dalla precedente unione, è la primavera del 1883.
La casa è a due piani, 4 camere a piano, mansarde, cantina e un fienile che trasformerà in atelier, poi ne costruirà un secondo vicino alle serre ad ovest, quindi un terzo. Ma soprattutto lo conquista il vasto giardino di quasi un ettaro con un viale delimitato da filari di abeti e cipressi, un frutteto di peri e meli, aiuole e siepi di bosso.
Cambierà tutto, i fiori al posto degli alberi, la Mathieu ricorda: “Alla fine dell’estate, papaveri, crisantemi, girasoli, dalie, margherite bianche e gialle, gigli ed ellabori sistemati al riparo dalle intemperie offrono al pittore i soggetti per i pannelli decorativi” che gli erano stati appena commissionati nel 1882 da Durand-Ruel per la propria residenza a Parigi. Paragona ai “fiori di Hokusai” i suoi fiori selvatici, dal nasturzio a “non ti scordar di me”, fino alle specie più rare che trapianta.
I lavori per il giardino lo assorbono completamente, “Clematidi bianche”, 1887, mostra questi fiori non come nature morte ma in forma di cespuglio fiorito, sono realtà vive che vede nascere e crescere sotto i suoi occhi mentre prosegue la trasformazione radicale in cui si impegna chiedendo consigli sulle specie floreali e sui relativi metodi di coltivazione. Con i fiori occupa lo spazio disponibile, sostituisce gli alberi sradicati con archi e piante rampicanti. Le aiuole ospitano fiori della stessa tonalità cromatica, per questo le chiama “barattoli di vernice” tra pergolati in una pioggia di clematidi e rose.
Evidente che tutto questo lo lega sempre di più alla residenza, come dice a Mallarmè: “Devo ammettere che mi è molto difficile lasciare Giverny, soprattutto adesso che sto trasformando la casa e il giardino secondo i miei desideri”. Dipinge nelle zone circostanti e quando crea le stupende vedute della cattedrale di Rouen nelle diverse ore del giorno non manca di procurarsi nel giardino botanico locale passiflore e begonie rampicanti per il proprio giardino. “Il mio giardino è un’opera lenta, perseguita con amore, afferma. E non nascondo che ne vado fiero”.
Ma non è tutto, nel 1893 acquista un lotto di terreno adiacente di circa 1300 metri quadrati per realizzare uno stagno in cui coltivare piante acquatiche, che aveva già visto in natura nelle rive della Senna. Supera le difficoltà dovute ai timori dei paesani che la vegetazione inquinasse l’acqua da prelevare per alimentare lo stagno, e ispirato anche dalle ninfee esposte sulla spianata del Trocadero di fronte alla Torre Eiffel nell’Esposizione Universale del 1889, realizza lo stagno artificiale con due fossati e una passerella di stile giapponese. Al prefetto scrive:”La cosiddetta coltura di piante acquatiche non ha tutta l’importanza che le si attribuisce e si tratta solo di una cosa ornamentale, per il piacere degli occhi, e anche per la creazione di soggetti da dipingere”. E già nel 1895 realizza i primi 3 dipinti ispirati allo stagno delle ninfee.
Aurélie Gavoille lo chiama “il piccolo paradiso terrestre di Giverny” e cita le parole due grandi estimatori: di Marcel Proust nel 1907, “una sorta di primo schizzo pieno di vita, o almeno la tavolozza già pronta e deliziosa sulla quale sono preparati i toni armoniosi”; di Georges Truffalt nel 1913, “la più bella opera di Claude Monet è, a mio parere, il suo giardino”.
E soprattutto è stato l’ispirazione pressoché unica della serie straordinaria di dipinti negli anni in cui si è rinserrato nel suo “paradiso terrestre”. Scrive Philippe Piguet:: “L’artista vive in maniera empatica, se non morbosa, il rapporto con la natura, i mutamenti di luce e le variazioni climatiche su cui si fonda l’impressionismo. Monet è un vero barometro vivente e la sua opera è quella di un meteorologo dell’anima”. Ed ecco cosa avviene in pratica: “Se la giornata si annuncia radiosa, il pittore la affronta con entusiasmo; si colloca dinanzi al soggetto prescelto pronto a catturare su varie tele le più impercettibili alterazioni della luminosità”. Ma è altrettanto pronto ad alterarsi lui stesso, come scriveva la moglie Alice alla figlia nel luglio 1901: “Ha finalmente ripreso i pennelli e iniziato una veduta, ma io tremo al pensiero che non ne sia soddisfatto o che il tempo cambi perché sai quando la cosa lo agiti, soprattutto quando ricomincia…”. Lavorare sulle serie, osserva Piguet, “lo costringe a stare sempre sul chi vive, pronto a cogliere l’attimo”.
I suoi non sono solo dipinti intimisti, per sfogare le proprie emozioni, ma anche tele di notevoli dimensioni a destinazione pubblica, come le “Grandi decorazioni” , pannelli con paesaggi acquatici, le amate ninfee, destinati alle Tuileries per celebrare la fine del primo conflitto mondiale; a tal fine fece costruire un terzo atelier lungo 23 metri, largo 12 e alto 15, per contenere i grandi pannelli sui quali lavorava simultaneamente ritoccandoli per anni fino alla morte.
Vediamo esposti 2 grandi oli su tela, “Ninfee”, 1907, una sorta di cascata di luce che approda alla pianta acquatica, mentre i piccoli disegni su carta “Ritratti di salice” e “Ninfee”, 1818-19, ne delineano con delicatezza i contorni. E poi una sequenza di 3 oli su tela lunghi 3 metri e alti 1 metro, 2 raffiguranti “Glicini”, entrambi del 1919-20, e uno “Ninfee”, 1917-19, soggetto quest’ultimo anche di due grandi opere dello stesso periodo non più lunghe e strette ma di forma quasi quadrata. Non ci sono parole per descrivere la soffusa delicatezza delle immagini distese in lunghezza che sembrano .aprirsi all’orizzonte come delle altre visioni più dense e concentrate che riportano alla realtà naturale.
L’ultimo periodo, il salto al cromatismo violento fino al ritorno con “Le rose”
Sono raffigurati anche gli “Emerocallidi”, 1914-17, una sorta di vulcano verde che erutta fiori rossi, con una delicatezza unita alla forza espressiva di questa autentica sinfonia della natura, mentre “Iris”, 1924-25, sconfina nell’astrazione pur se i tratti restano sempre chiaramente naturalistici.
L’ultima parte della vita dell’artista, morto il 5 dicembre 1926 all’età di 86 anni, fu tormentata. Nel 1911 scompare la seconda moglie Alice Hoschedé, da lui definita “compagna adorata”, poi il figlio Jean; mentre lui, per una cataratta ancora non operabile nel 1912 è costretto a una pausa di due anni, con difficoltà anche a distinguere i colori: “Vedo tutto blu – ebbe a confidare – non vedo più il rosso, non vedo più il giallo; mi dà terribilmente fastidio perché so che questi colori esistono, so che sulla mia tavolozza c’è del rosso, del giallo, un verde speciale, un particolare viola; non li vedo più come li vedevo un tempo, e tuttavia li ricordo bene”. I salici piangenti che dipinge rendono visivamente il suo stato d’animo, è una pianta tra l’altro cui era molto affezionato e proprio nel 1912 furono abbattuti da una tempesta facendogli dire: “I salici piangenti di cui andavo fiero sono stati distrutti, sfigurati, provo un grande dolore”.
Tre operazioni agli occhi nel 1923 gli restituiscono la percezione dei colori, ripudia alcune opere dipinte in modo anomalo, in altre si riconosce appieno.
Vediamo esposti i dipinti degli anni di crisi visiva, pur se l’alterazione era da lui controllata, in effetti il cromatismo è intenso e pesante, un altro Monet ci si presenta, molto diverso e lontano dall’impressionismo soffuso e delicato, quasi evanescente. Ecco 4 “Salici piangenti”, tra il 1918 e il 1922, una tempesta di colpi cromatici, e 3 opere intitolate “Il viale del roseto”, un addensarsi di viluppi cromatici inestricabili. Mentre le 2 intitolate “Il ponte giapponese” mostrano immagini opposte, il ponte in blu solca un’atmosfera bianca-cilestrina nel 1818-19, in un rosso intenso è percorso da tratti tormentati nel 1918-24; altrettanto irriconoscibile lo “Stagno delle ninfee”, 1918.19, sembra in preda a un incendio, come “Il giardino di Giverny”, 1922.26, in una dicotomia cromatica quanto mai violenta.
La Gooden la definisce “una parentesi sorprendente nel lavoro del pittore” e lo spiega: “In queste opere molto personali, il soggetto tende a disgregarsi mentre assumono rilievo il ritmo della pennellata e l’ampiezza del gesto che determinano un’esplosione di colori la cui densità e intensità rendono quasi indecifrabile l’immagine rappresentata”. Proprio per questo, “raramente la sua pittura si dimostra così libera e vicina all’astrazione”, e al riguardo precisa: “Lo straripante profluvio di colori stesi con pennellate verticali e il dinamismo visivo che ne sprigiona non possono che ricordare l’all-over e il dripping di Jackson Pollock e le ricerche di altri esponenti dell’espressionismo astratto americano o della scuola di Parigi”. Dall’impressionismo soffuso e delicato all’espressionismo astratto, dunque quest'”altro Monet” è anche precursore!
E il Monet intimo e sommesso dell'”impressione” fugace? Lo ritroviamo nell’ultima opera esposta, “Le rose”, è il 1925-25, dopo gli interventi agli occhi ha ripreso al padronanza della vista, torna la delicatezza nella superficie grigia su cui sono sparse le rose abbozzate in modo altrettanto delicato.
Un ritorno il suo, e dopo lo sconfinamento in una forma espressiva che ci dà comunque un altro modo di rappresentare la stessa realtà naturale, questo diverso Monet completa il primo, lo fa apprezzare ancora di più. Sono quanto mai vere le parole dell’amico Gustave Geffroy, citate dalla Gooden: “Il suo lavoro, rivelatore e poetico, mostra un universo che nessuno aveva visto prima di lui”. E soprattutto nessuno aveva visto come lui. Pertanto è anche vero che la sua opera “non somiglia a nessuna di quelle che scandiscono il corso della storia dell’arte”.
Info
Complesso del Vittoriano, lato Fori Imperiali, Ala Brasini, via San Pietro in carcere: tutti i giorni, compresi i festivi, apertura ore 9,30, chiusura da lunedì a giovedì ore 19,30, venerdì e sabato ore 22,00, domenica ore 20,30, festivi orari diversi, ultimo ingresso un’ora prima della chiusura. Ingresso (audioguida inclusa) intero euro 12, ridotto euro 10 per 65 anni compiuti, da 11 a 18 anni non compiuti, studenti fino a 26 anni non compiuti, e speciali categorie, riduzioni particolari per le scuole. Catalogo “Monet, Capolavori dal Musée Marmottan Monet, Parigi”, Arthemisia Books, 2017, pp. 100, formato 22,5 x 28,5, dal catalogo sono tratte le citazioni del testo. Per utili riferimenti cfr. i nostri articoli, in questo sito, su Hokusai 5, 8 e 12 dicembre 2017, sulle mostre “Impressionisti tète a tète” 5 febbraio 2016, “Impressionisti e moderni” 12, 18 e 27 gennaio 2016; “Guggenheim” 29 novembre 2012; in arteculturaoggi.it per la mostra “Da Corot a Monet” 27 e 29 giugno 2010 (tale sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).
Foto
Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nel Vittoriano alla presentazione della mostra, si ringrazia la presidenza di Arthemisia con i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. In apertura, “Ninfee” 1916-19; seguono, “La spiaggia di Pourville. Sole al tramonto” 1882, e “Il castello di Dolceacqua” 1884; poi, “Il ponte di Vervy” 1889, e “La Senna a Port-Villez” 1894; quindi, “Ponte di Charing Cross” 1899-1901, e “Ponte di Charing Cross”, 1902; inoltre, “Londra, il Parlamento. Riflessi sul Tamigi” 1905, e “Ninfee” 1907; ancora, “Ninfee e agapanti” 1914-17 e “Emerocallidi” 1914-17; continua, “Iris” 1924-25, e “Salice piangente” 1918-19; prosegue, “Salice piangente” 1921-22, e “Il ponte giapponese, 1918-24; poi, “Il viale del roseto” 1920-22, e”Stagno delle ninfee” 1918-19; quindi, “Il giardino di Giverny” 1922-26, e “Le rose” 1925-26; infine, Il corridoio fiorito, allestimento per far rivivere la magia del giardino di Giverny; in chiusura, Presentazione della mostra, parla al microfono la presidente di Arthemisia, Iole Siena.