di Romano Maria Levante
In tre location”, dal 19 gennaio al 26 febbraio 2017 la mostra “Valerio Adami. Metafisiche e metamorfosi” presenterà una selezione di oltre 60 opere di un artista ben noto all’estero che dà un’interpretazione del tutto personale della linea e del colore, con una discendenza stilistica che va dalle incisioni veneziane del ‘500 alla Pop art, in una valorizzazione del disegno come strumento della composizione e soprattutto base dell’atto creativo che prende forma quasi in modo autonomo. La mostra, curata da Lea Mattarella, si svolgerà presso l’Accademia d’Ungheria, la Galleria André e la Galleria Mucciaccia. Il bel catalogo, con 10 saggi e una ricca iconografia, è di Carlo Cambi Editore.
Atto meritorio dell’Accademia d’Ungheria è estendere con questa mostra – non limitata alle sale di Palazzo Falconieri ma con parecchie opere presentate nella vicina galleria André e nella Mucciaccia – la conoscenza a Roma e in Italia di un artista, molto apprezzato all’estero, che ha girato in tante città e nazioni in diversi continenti, dimorando a lungo dove lo portava la sua insaziabile volontà di conoscere. “Avevo la curiosità del mondo e la curiosità delle persone. Degli uomini, delle donne, della loro vita, delle loro ide”. Si era nel secondo dopoguerra “molte cose ci erano state nascoste. Molte altre erano state interrotte. Allora io volevo scoprire il mondo coi miei stessi occhi”.
Così soggiorna a lungo sempre dove si svolgono le sue mostre, a un ritmo incessante. Ne abbiamo contate 70 personali, 50 collettive, oltre a 30 collezioni pubbliche selezionate: si va dall”Italia tra Firenze e Venezia, Milano e Roma, Torino e Ravenna, Lucca e Siena; alle altre nazioni europee, Belgio e Svizzera, Germania e Gran Bretagna, Francia e Grecia, Spagna e Portogallo, fino a Israele e alla Finlandia; al continente americano, Stati Uniti, Cuba, Messico; al Giappone e l’India.
Lo hanno fatto conoscere anche 20 monografie selezionate su di lui, e si è fatto conoscere con 5 proprie pubblicazioni in cui disvela i segreti della propria arte, cui vanno aggiunte interviste, come quella molto personale in cui ripercorre la sua vita fin dall’infanzia, data a Christophe Penot nel 2016, riportata nel Catalogo con il titolo “Valerio Adami, l’uomo”.
Le origini e i capisaldi della sua arte
L’iniziazione all’arte, di Valerio Romani Adami – bolognese del 1935 trasferito presto a Milano, come artista ha semplificato il cognome – avvenne a Venezia nello studio di Felice Carena, che “mi faceva disegnare molto”, ma la folgorazione ci fu alla Biennale del 1952 dinanzi al “Prometeus” di Oskar Kokoschka, per lui “la tela non era che un immenso foglio bianco sul quale si proponeva di esprimere, coi pennelli, le idee che sapeva d’altra parte sviluppare così bene” con la scrittura. Di qui nasce una frequentazione assidua così rievocata: “Kokoscha, che ho rivisto spesso, mi invitava sul lago Lemano a dare alla mia pittura una dimensione intellettuale, che non avrebbe mai potuto trovare senza la sua influenza”. Fino a scoprire che “la pittura è molto di più che la pittura”.
Ma non per questo trascura la forma pittorica, l’intenso “apprendistato tecnico” a Milano, nell’Accademia di Belle Arti di Brera ai corsi di Achille Funi, in cui “disegnavamo otto ore al giorno”, ha fatto sì che il segno divenisse la base della sua pittura, seguito dal colore. Funi era “un disegnatore straordinario! Io aspettavo con impazienza le sue correzioni”, e ha continuato a farle autocorreggendosi in proprio, sempre avendo la gomma a portata di mano, fino a intitolare una sua pubblicazione del 2002 “Dessiner. la gomme et les crayons”, ma non si tratta delle “cancellature” di Emilio Isgrò applicate in modo definitivo a scritte simboliche, quelle di Adami sono transitorie.
Dà molta importanza alla luce, ritenendola fondamentale sia per chi guarda sia per chi dipinge, luce che varia a seconda delle situazioni: “E’ come la luce del giorno: rischiara,certo, ma non è mai la stessa!”. Però c’è dell’altro ancora più importante: “Eppure, lo sapete, i miei quadri nascono tutti con lo stesso procedimento: prima disegno, ed è questo disegno che riporto sulla tela. Dunque, il disegno è all’origine di tutto. E’ quello che apporta la luce, se la luce c’è . ma è quello che allo stesso tempo conserva un a parte di oscurità, seguendo una propria logica, che non è sempre quella che io gli assegnavo…”. Come nei “segni” di Guido Strazza, in mostra quasi contemporanea alla Galleria Nazionale, che però non si trasformano in un “figurativo”, come in Adami, il quale accetta questa qualifica ma rifiuta quella data alle sue opere di ” figurazioni narrative”, basata sul movimento pittorico “Figuration narrative” in cui all’inizio degli anni ’60 si facevano rientrare i pittori che si contrapponevano all’arte astratta sempre più diffusa,
Ed ecco come procede praticamente, secondo la sua istintiva rievocazione in cui, dopo essersi schermito delle “lodi sulla forza del mio disegno, sulla mia maestria”, spiega: “Ma in realtà le cose sono più complicate. Quando prendo un foglio di carta per disegnare, come faccio ogni giorno, non so mai quali gesti compiere, né quale disegno nascerà. Allungo il braccio, la mano posa la punta della matita sul foglio: un punto. Un punto che si muove e diventa linea, creando ben presto una forma, vale a dire un raccordo tra il vuoto e lo spazio, il visibile e l’invisibile.”.
Finora solo disegno, poi sembra subentrare Kokoscha: “E’ un rapporto che talvolta mi sorprende, mi infastidisce, mi disturba? Allora cancello, aspetto il tratto seguente, che certamente cancellerò di nuovo. Forse è il mio inconscio, un inconscio che si rivela più forte della mano… Un inconscio nato da tutti i ricordi, tutti gli incontri, tutte le mie esperienze passate e dalla mia vita quotidiana”.
E sono tante per un artista che ha girato il mondo in lungo e in largo, ma è sempre tornato in Italia, dove si è formato artisticamente al classicismo e alla modernità, come ha sottolineato l’amico scrittore Carlos Fuentes. Sugli stimoli inconsci l’artista cita il concetto di Edouard Munch, “essenziale per la comprensione del mio lavoro: io non dipingo ciò che vedo, dipingo ciò che ho visto… tutto quello che ho visto si trova archiviato nella mia memoria, alla quale attinge l’inconscio a seconda delle mie emozioni. ma , dovunque attinga, l’inconscio ritrova la mia identità italiana”. E lui stesso nelle “Sinopie” scrive: “Il vero autore dei miei quadri è la tradizione cui appartengo”
Per questo non può essere assimilato alla visibilità realista della Pop Art al di là delle apparenze: “Chiamo sinopia – afferma nello scritto così intitolato -. quel substrato di associazioni, di intenzioni, di presente & passato, di ricordi, etc., che tanta importanza ha nella genesi di un quadro. Questo processo mette il pensiero in movimento e, a sua volta, la mente mette in movimento la mano”.
Oltre ai maestri ha incontrato anche, se non un mecenate, un mercante che, con un contratto di esclusiva nel quale aveva tutte le opere di Adami – dai quadri compiuti, ai disegni preliminari, fino agli schizzi sui foglietti dei caffè francesi – e, racconta l’artista, “in cambio egli prese in carico tutte le mie spese, assicurandomi un tenore di vita inimmaginabile per un giovane pittore. Perché allora ero un giovane pittore. per lui rappresentavo l’avvenire.”. Si chiamava Aimé Maeght, conosciuto intorno al 1970 dopo aver avuto una sala tutta per sé alla Biennale di Venezia del 1968, era un mercante che lavorava con tanti grandi artisti come Matisse e Chagall, Braque e Mirò, Adami gli riconosce “un ruolo decisivo” esprimendogli riconoscenza con queste parole: “Tutti i vantaggi materiali che hanno facilitato la mia vita, li debbo a Aimé Maeght”; e perché non si cada in equivoco conclude: “Ma, ancora una volta, il grande mentore della mia esistenza resta Oskar Kokoscha. E’ lui che mi ha permesso di diventare il pittore che Aimé Maeght in seguito ha difeso”.
Di qui la conoscenza di alcuni grandi pittori,tra cui Mirò verso il quale ci fu “una vera ammirazione e d un vero affetto – un affetto che egli mi rendeva, credo”, e una frequentazione, “più volte, con Camilla, siamo andati a trovarlo nella sua casa di Maiorca”, Camilla è la moglie pittrice che firma anch’essa con il cognome Adami. Ciononostante erano molto diversi, “io avevo una conoscenza del disegno, che lui non possedeva, ma che non cercava neppure. A che gli sarebbe servita? Mirò volteggiava in un altro mondo, su un altro pianeta”, e aveva un segreto, “la sua semplicità. Durante tutta la sua vita, lui ha dipinto come si respira, naturalmente, senza porsi domande”.
Rispetto a Giorgio de Chirico la curatrice Lea Mattarella istituisce assonanze e dissonanze, richiamandosi per le prime “a Dore Ashton che si meraviglia per quanto poco il Grande metafisico sia stato citato come ‘predecessore spirituale’ di Adami. Li unisce l’occhio italiano, la linea chiusa, l’amore per il classico, l’idea che la pittura conduca altrove“. Così prosegue la Ashton: “Anche le ombre in de Chirico sono delimitate da linee, e quando ha bisogno di suggerire la modellatura, è spesso il tratteggio classico, compresa la linea, che la genera”. Ed ecco l’ “altrove”: “Non è solo l’amore per la linea precisa e pulita che collega de Chirico ad Adami, ma anche una concezione della pittura che onora la memoria (o l’immaginazione) sopra ogni cosa”.
Tutto ciò porta alle visioni “metafisiche” cui si intitola la mostra aggiungendo però “metamorfosi”, le dissonanza che la curatrice sottolinea: “Oltre all’ “apertura di Adami verso l’Oriente, un’altra lontananza è la consapevolezza che esistono e si possono affrontare in pittura anche scene apparentemente intime e quotidiane, senza per questo negare quel senso di attesa che qualcosa accada”, cioè l’atmosfera di sospensione metafisica che avvolge di mistero le piazze del “Pictor classicus”, nel suo ritorno alla classicità. mentre “Adami fa un’operazione ancora più sofisticata: applica alla classicità una specie di decostruzione per poi ricomporla in una nuova veste. E così facendo, la salva per sempre”, così le sue “metamorfosi” si aggiungono alle “metafisiche”.
Ma “tocca ad ogni artista trovare la sua strada”, lui si sente più vicino a Tintoretto che a Pollock perché lavora sulla rappresentazione attraverso la forma in modo nuovo, di “ispirazioni eterne”.
Gli scritti per Adami, da Italo Calvino ad Antonio Tabucchi
Anche grandi scrittori scrivono rivolgendosi direttamente a lui, Italo Calvino nel 1980 “Quattro fiabe d’Esopo per Valerio Adami”. Sono riportate nel Catalogo, precedute da alcune “massime” di Adami sull’argomento riassunto nel titolo; poi lo scrittore penetra nella creazione pittorica e si cala nel mondo dell’artista con delle favole i cui protagonisti sono gli elementi costitutivi delle sue composizioni – indicati nei titoli – che si contrappongono orgogliosi per primeggiare l’uno sull’atro.
In “La mano e la linea” la linea cessa di essere tale acquisendo la forma di una mano, ciascuna pensa di dominare l’altra mentre sono reciprocamente dominate, la linea perché non è più libera ma fissata nei contorni delle mani che disegna, la mano perché senza linea non esisterebbe più.
Nella seconda favola, “I piedi e la figura”, questa non accetta di dipendere dai piedi del pittore essendo fatta di linee e colori che le danno leggerezza per sollevarsi, ma viene richiamata alla realtà dal pittore il quale riesce a disegnarla solo partendo dai suoi piedi che la fissano al suolo.
“La linea orizzontale e il colore blu” presenta un acceso dialogo in cui ciascuno si vanta di essere “padrone dello spazio” – l’orizzonte è indicato da una linea lontana, o dall’azzurro del cielo o del mare – mentre irrompono le figure che si posizionano e in tal modo dominano spazio e tempo.
Con la quarta favola, “La parola scritta, i colori e la voce”, due elementi della composizione, manca la linea, si sottopongono al giudizio della voce, sembra prevalga la parola scritta perché viene letta e pronunciata, ma i colori hanno il sopravvento e la voce può cantare a voce spiegata.
Si resta senza fiato nel leggere questi sapidi quadretti sul mondo creativo di Adami, vi abbiamo ritrovato il fascino meditativo ed enigmatico di “Palomar” con le riflessioni profonde di Calvino mosse dall’osservazione attenta e disincantata con una disinvoltura sul filo del paradosso.
Altrettanto sorprendente il “Diario cretese con le sinopie di Valerio Adami” che Antonio Tabucchi gli dedica con sapide annotazioni da Cnosso tra il !° e il 4 giugno 2000, da Hanià e Sfakià tra il 6 e l’11 giugno. Leggiamo che nel suo viaggio lo scrittore si è portato le fotocopie dei disegni dell’artista perché, esordisce, “caro Valerio, credo che questo luogo, forse come nessun’altro, sia adatto per parlare della tua pittura”; inoltre, guardando il labirinto cretese, gli torna in mente “una frase letta nei tuoi appunti: ‘Il mito è uno dei tracciati-radice della nostra cultura, il cui sapere si definisce in un pensiero di metamorfosi’. Non ho potuto fare a meno di pensare al tracciato dei tuoi disegni, e al punto di entrata, che è libero”.
Come con Calvino, troviamo lo scrittore impegnato ad interpretare l’arte del pittore: “Se il tracciato delle tue opere è aperto a ogni arbitrario ingresso, rischiamo di restarci rinchiusi dentro come degli uccelli in una pania”. Per trarne considerazioni amare: “In questo universo in cui siamo allegramente entrati, con una libertà che rasenta la sconsideratezza, cominciamo ad indugiare, ne rimandiamo l’uscita e vi facciamo naufragio”.
Del diario di Tabucchi potremmo ricordare anche il dialogo con un pittore locale sul libro di Adami che lo scrittore gli ha mostrato, il ricordo di quando a Parigi l’artista gli disse che cercava “un colore per i tuoi disegni come se tu cercassi un suono, perché esso ha per te lo stesso statuto delle note musicali”; fino all’esclamazione “Caro Valerio, bisognerebbe dare un premio alla mente umana perché è riuscita a concepire l’infinito, concetto che a quanto pare esiste solo lì dentro”. Per questo gli ispira il “racconto a espansione limitata” “Le cefalee del Minotauro”, provocate “dalla marea del tempo che ti è scoppiata nella testa come un brodo dell’origine che ribolle, e dove tu affoghi”. Lo manda ad Adami scrivendogli che, mentre si esploreranno i misteri insoluti, “noi continuiamo a fare quello che facciamo ogni giorno: cose fatte di linee, di colori, di parole”.
A Tabucchi dovrebbero essere riferite le parole, mentre ad Adami le linee e i colori; e forse questo è il senso che dà lo scrittore a tale considerazione. Ma non possiamo non ricordare che in alcune opere di Adami ci sono delle scritte, e questo non va ritenuto un fatto secondario, come si vede dal modo approfondito pur se disincantato con cui, in un ampio scritto immaginifico, viene analizzata la “frase che attraversa Ich in alto” da parte di Jacques Derrida, da lui conosciuto a Parigi intorno al 1975 allorché realizzò il manifesto per Glass che divenne simbolo del movimento decostruzionista.
Tra le quattro favole di Calvino e il diario cretese di Tabucchi mettiamo le “Righe per Adami” di Carlos Fuentes, non sono solo righe ma pagine e pagine di una cronaca surreale che comincia e finisce con il Cavaliere e il suo Scudiero, al termine identificati in don Chisciotte e Sancho Panza, si vivono le situazioni più strane e diverse, spesso paradossali, c’è anche Camilla, la moglie di Adami e lui stesso come convitato di pietra di cui si sente sempre la presenza, con qualche citazione diretta.
Si parla anche seriamente di temi legati alla pittura: “E lui dice che vede il tempo come qualcosa di eternamente aperto, in sé non formale né formalizzabile. Forse soltanto un quadro possiede il valore formante del tempo”. In modo forse più criptico;: “Allora avviene che le cose avvengono, che son percorse da situazioni che a loro volta le percorrono; che l’assenza di un oggetto può cospirare contro la presenza di un soggetto, e viceversa; che queste temibili cose, innocue meravigliose, succedono in uno spazio che le situa,, cioè che dà loro un luogo, ma che anche le insegue, le incalza, le mette in movimento”.
Repentino il passaggio al quadro, che segue subito dopo: “Dice che, semplicemente, ogni quadro è la struttura stessa del quadro. Aneddoticamente invisibile, a un quadro può succedere tutto e tutto è successo, prima e dopo il suo spazio” .
E dal quadro al suo autore: “Il creatore guarda il quadro prima che esista, e a poco a poco ne diventa il primo spettatore; ma, contemporaneamente, è guardato dal quadro. Il creatore provoca una fame di spettacolo nel quadro. Divorato dal proprio quadro, l’artista, che non smetterà mai di guardarlo, non potrà più vederlo se non guarda insieme con lui i nuovi spettatori che, a molteplici livelli, lo//li guardano e ripetono il processo all’infinito”.
Qui l’orizzonte si allarga: “Che fare d’una mente, d’una materia o di una società isolate? Non bastano: bisogna catturarle dentro il loro sistema di dipendenze e poi liberarle dentro uno nuova struttura e sottomettersi alle pochezze dell’univoco e del reale. la pittura di Valerio Adami: riferimento mobile continuo della struttura del reale alla struttura figurativa, con tanto di biglietto d’andata e ritorno”.
Non si limita a questo accenno, più avanti afferma: “Cerchiamo di vedere l’arte di Adami come una vasta profanazione dei significati di questa ‘realtà’ chiusa , mediante un rimescolamento dei segni che la sostengono: scompiglio che è un modo di fare ordine, il proibito, l’inquietante, l’insopportabile, ciò che converte la sicurezza, la simmetria, l’analogia, i premi, i castighi, l’interazione dell’ordine in un incubo di disordini appassionati, cioè insoddisfatti”.
Anche lo scritto di Fuentes, come quelli di Calvino e Tabucchi, è tutt’altro che un’ordinaria amministrazione, tutti e tre sono originalissimi e toccano aspetti importanti della creatività artistica di Adami inserendoli nelle situazioni più improbabili in un contesto fantasioso e immaginifico.
E ci sembra che quanto abbiamo citato – tra il tanto di più che si potrebbe ricordare rispetto a una vita artistica così intensa e feconda – basti per definire la straordinaria caratura di questo artista.
Visiteremo la mostra che si preannuncia così importante e rivelatrice, dopo aver riassunto la linea narrativa dell’artista e la sua personalissima visione del segno e del colore, i capisaldi della sua arte, ansiosi di vederne la realizzazione pittorica. .
Info
Accademia d’Ungheria in Roma, Istituto Balassi, Palazzo Falconieri – Via Giulia 1, Roma; Galleria André, Via Giulia 175, Roma; Galleria Mucciaccia, Largo Fontanella di Borghese, Roma. Catalogo “Valerio Adami. Metafisiche e Metamorfosi”, a cura di Lea Mattarella, Carlo Cambi Editore, gennaio 2017, pp.222, formato 25 x 34. Bilingue italiano-inglese, con 10 saggi introduttivi, dal catalogo sono tratte le citazioni del testo. Il secondo articolo sarà pubblicato il 12 marzo p. v. Per gli artisti citati cfr. i nostri articoli: in questo sito per Kokoka, Isgrò, De Chirico, Strazza, Matisse, Chagall, Braque e i cubisti, Pop Art, Mirò, Tintoretto, Pollock.
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Le immagini saranno inserite prossimamente.